Spazzolino in bamboo Colgate

E della storia più grande che racconta

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4 min readAug 2, 2021

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La prima volta che sentii parlare di spazzolini in bamboo fu qualche anno fa. Se non ricordo male si trattava di una pubblicità su Instagram, parlava di un prodotto venduto su Kickstarter o qualcosa del genere. Non ricordo bene quanto costasse ma credo (e non penso di sbagliarmi) tra i 10 e i 15 euro. Forse era il prezzo della coppia di spazzolini, ma comunque diciamo che uno costava fra i 6/7 e i 10/15 euro.

Pensai che era una bella idea anche se mi faceva un po’ strano: davvero ci si poteva lavare i denti con qualcosa che si impregnava di acqua? Era una cosa igienica? Il prezzo poi non era precisamente economico ma affrontabile (era scelto accuratamente per comunicare l’idea di un prodotto di pregio e per corroborare l’idea che trasmetteva di salvatore del pianeta — per frenare il cambiamento climatico vuoi non spendere qualche soldo? Devi). Lo riposi mentalmente in un cassetto della memoria, assieme a tante altre idee commerciali del tipo “Belle ma ripasso, adesso non ho voglia”.

Poi l’ho rivisto giorni fa al supermercato. Non esattamente lui ma concettualmente lui: uno spazzolino in bamboo con setole in qualche altro materiale che immagino riciclabile, contenuto in una scatola in cartone lasciato al naturale, perché tutto — prodotto e packaging — deve comunicare quell’idea di… cosa naturale, appunto. La differenza più sostanziale era che lo produceva Colgate, che non è un nome che si associa alla coscienza ambientale, anche considerato quanta plastica ha contribuito a disperdere nell’ambiente con i suoi prodotti per l’igiene orale. Però è una bella cosa, no? Finalmente una megacorporation dentale ha capito che bisognava fare qualcosa, o meglio ha capito che fare qualcosa di buono poteva anche trasformarsi in un beneficio econonomico e di immagine. E si è messa a vendere questi spazzolini in bamboo e il relativo dentifricio, sempre in confezione riciclabile (questo però non l’ho comprato).

L’altra differenza era il prezzo: costava 1.99 euro, quindi sensibilmente meno che lo spazzolino kickstarteriano e dall’animo candido.

Ma su questo ci torno fra pochissimo. Prima dico come funziona: sorprendentemente, come un normalissimo spazzolino, solo che le setole sono più morbile e il suo corpo fa più attrito con le mucose della bocca. Niente di fastidioso e anzi tutto molto naturale. Fa un po’ ritornare con la mente a quando eri boyscout e ti lavavi i denti (non lo sono mai stato, vale comunque anche la Giovane Marmotta, che, altrettanto, non sono mai stato): immagino che in mancanza di un vero spazzolino rigorosamente in plastica non riciclabile si possa usare un ramo di rosmarino. Un po’ meno efficace ma capace di farti sentire in armonia con l’universo.
Diciamo insomma che usarlo ti fa sentire bene, anche se non hai la certezza che ti lavi i denti bene come un normale spazzolino. Poi lo farà, non ne dubito ma non è questo il punto.

L’altra cosa a cui ho pensato non c’entra con l’igiene orale ma con la macroeconomia, e cioè: come è possibile che uno spazzolino molto simile a quello che avevo visto anni fa in vendita a un certo prezzo possa costare 1/5 o anche molto meno? Le spiegazioni sono diverse: una fra tutte è che il primo è (o era) prodotto da un’azienda sconosciuta che aveva probabilmente solo quello a catalogo e doveva ricavarci dell’utile mentre Colgate, grazie alle sue dimensioni, può anche permettersi di venderlo rimettendoci o guadagnandoci pochissimo. Oppure lo vende ricavandoci un utile adeguato grazie a quanto (poco) lo paga lei stessa, avendo l’agio di ordinarne milioni di pezzi invece che qualche decina di migliaia — e ottenendo pertanto un prezzo molto più basso dai propri fornitori.

La riflessione finale è però di più ampio respiro e riguarda in genere il modello di economia sostenibile o green o consapevole o come hanno deciso di chiamarla ora: questo tipo di economia diventa rilevante solo quando i grandissimi player entrano in questo mercato, di fatto costruendolo o di certo ampliandolo e fortificandolo.

Ho ripensato a quello che dicono certi designer idealisti che finiscono a lavorare per grandi multinazionali: se non ricordo male era un discorso che faceva Mauro Porcini, ora Chief Design Officer di PepsiCo.

“Puoi lavorare nel tuo piccolo facendo prodotti responsabili e di qualità ma il vero impatto ce l’hai solo quando lavori in aziende grandi. Anche se sembra un paradosso visto che in queste realtà tutto è ispirato al profitto, è solo qui che puoi davvero fare la differenza”

Grossomodo diceva così, e cioè che si può essere idealisti e restare puri ma non cambiare niente oppure essere responsabili e un po’ meno sognatori e cercare in ogni modo di fare la differenza all’interno di un sistema economico che non ha l’ambiente come priorità.

Non so cosa faccia o abbia fatto lui a PepsiCo per l’ambiente ma non conta. Conta che le cose possono cambiare in meglio quando le grandi aziende fiutano l’affare e l’affare coniuga sia responsabilità ambientale che profitto. Allora si può creare quel momento particolare e fortissimo che innesca il cambiamento.

Si possono ideare molti prodotti ispirati ai più nobili ideali ma destinati a non avere alcun impatto. Oppure si può aspettare che qualche pachiderma da miliardi di euro di fatturato capisca che può ricavarne qualcosa, facendoci pure la figura dell’azienda con una coscienza.

In questo caso è successo e il beneficio per i consumatori è che possono sentirsi a loro volta responsabili a un prezzo molto più basso. Perché, d’altro canto, il miglior modo per portare le persone a essere coscienti del proprio impatto ambientale in modo da ridurlo è quello di farglielo pagare pochissimo, o quello che a loro pare ragionevole.

Essere responsabili è bello. Esserlo a un costo ragionevole è bellissimo.

E la Colgate l’ha capito benissimo. E con lei, si spera, tante altre aziende.

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Martino Pietropoli
L’Indice Totale

Architect, photographer, illustrator, writer. L’Indice Totale, The Fluxus and I Love Podcasts, co-founder @ RunLovers | -> http://www.martinopietropoli.com