Una cena da S’apposentu di Roberto Petza

Un viaggio culinario nella memoria / un breve saggio sul mangiare

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8 min readDec 9, 2015

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di Martino Pietropoli

Spesso si confonde la nutrizione con la gastronomia: l’alimentarsi (che è un’attività necessaria e inderogabile) e il godere della buona cucina. L’atto del mangiare non è solo funzionale al sostentamento dell’individuo. Non si mangia per sopravvivere. Si mangia anche per sopravvivere. Ma specie in tempi di abbondanza quanto meno alimentare come questi, si mangia per godere e per illuminare le proprie papille gustative di stimoli che attivano parti della corteccia cerebrale. Una di queste parti è, secondo me, quella della memoria. Mangiando ricordiamo. Mangiando sentiamo sapori e elaboriamo odori e l’odore e i profumi sono i più potenti vettori della memoria su cui l’uomo possa viaggiare. Una canzone può riattivare un ricordo. Una foto anche. Un profumo riattiva un’immagine, il suo odore e i suoni e le voci che si sentivano quel giorno, anche decenni fa.

Ho mangiato da S’apposentu di Roberto Petza. È un ristorante stellato Michelin e decorato dal Gambero Rosso. Questo per la cronaca e anche per onorare le guide che scovano e portano all’onore luoghi e cucine che stanno in piccoli paesi spesso esclusi dagli itinerari turistici. Questo sta a Siddi, nella villa padronale in cui abitavano una volta i padroni del pastificio Puddu. Siddi è a 60 km da Cagliari. Non ci capiti insomma perché passeggi per Cagliari e ti ci siedi.

Roberto Petza è uno chef sardo che dopo esperienze all’estero è tornato nella sua terra e ha aperto S’apposentu a San Gavino Monreale. Nel 2002 l’ha trasferito al Lirico di Cagliari dove ha ricevuto la sua prima stella Michelin e nel 2010 l’ha portato a Siddi. Sempre S’apposentu, che in sardo significa il salotto buono. Quell’ambiente della casa in cui ricevere per onorare gli ospiti insomma. Ma la casa è centrale: S’apposentu non è un ristorante, è più che altro un ambiente della casa, ed è appropriato che sia ospitato a sua volta in una vera, bellissima casa liberty.

Dato che parlo di un viaggio nella memoria, mi pare giusto iniziare dalla fine e tornare all’inizio: i piatti che ho mangiato sono presentati in ordine inverso: dal dessert al primo.

Non sono avvezzo alla critica gastronomica. In genere mangio con gusto e godimento. Considero il mangiare la più elementare e per questo sopraffina forma di cultura. Ci si può intendere fra popoli diversi con la musica ma soprattutto con la cucina. Attorno a un tavolo si creano alleanze e si firmano accordi.

In ogni casa ci sono diversi mobili, ma il tavolo è un luogo mentale e molto più di un oggetto fisico. Il tavolo è quasi una stanza tutta per sé.

Non dirò sempre esattamente cosa sono i piatti che ho mangiato. A volte li mostrerò e basta. Non ricordo che una piccola parte degli ingredienti, ma ricordo bene di cosa sapevano e cosa mi hanno ricordato. Mi perdoni Roberto, ma parlerò delle immagini che mi hanno attivato nella memoria.

Capitolo nono

Un gelato presentato in una forma perfetta. Ne cercavo le imperfezioni e non le trovavo. Sezionato esattamente a metà — ma anzi, lungo ogni sua sezione trasversale — restituiva sempre un cerchio perfetto. Lo chiamerei il gelato geometrico o matematico forse. O un assioma, per la sua perfezione. Che non è solo formale, s’intende.

Capitolo ottavo

Come si mangia un Kandinsky?
Questo porceddu era un porceddu. Nel senso che mi ha ricordato ogni altro porceddu che ho mangiato in Sardegna. Però era il riassunto e la sublimazione di tutti i porceddi mangiati in Sardegna. La loro versione più perfetta. Composto sul piatto e con quei colori mi ha fatto pensare ad un quadro. Dispiaceva quasi rovinare quell’equilibrio di colori in cui il sangue scuro era bilanciato dal giallo e dal rosso di foglie e petali e dal verde vegetale. E la sua carne aveva la pasta dei funghi. Ho pensato al pane mangiandolo: era un pane intriso degli umori del porceddu cucinato, coperto da una cotenna quasi morbida. La immaginavo coriacea come spesso capita cuocendo la cotenna e invece era morbida. Mi ha colto alla sprovvista, come una memoria non si annuncia mai: affiora.

Capitolo settimo

Ancora un piatto mangiato tante volte: un raviolo di zucca. Ma col pecorino e con una pancetta croccante sopra (non dovevo dire gli ingredienti, ma alcuni li ricordo). Se il cibo attiva la memoria, questo ha creato un’unità di memoria, cioè quella del ripieno di zucca che non era come nessun’altro ripieno di zucca abbia mai provato. Era morbido e sul punto di essere quasi liquido, senza esserlo.

Capitolo sesto

Ho visto un film tempo fa e spesso quando mangio mi ritorna in mente. Si chiamava “La cuoca del presidente” e parlava di Danièle Mazet-Delpeuch, che fu la cuoca personale di François Mitterrand dal 1988 al 1990. In una scena Mitterand le chiede in una notte insonne di cucinargli le uova “Come me le preparava la nonna”. Ecco: il cibo è un viaggio nella memoria poiché è una ricerca dei sapori che abbiamo sperimentato quando eravamo bambini (per questo è importante far mangiare ai bambini cose varie e cose buonissime — che tragedia se ricercassero il sapore di una merendina o di una caramella industriale).

Questa zuppa di pesce con diversi legumi ed erbe era una zuppa. Come altre mangiate nella mia vita ma capace di due cose: ricordarmele e aggiungere un senso e un nuovo valore ad ogni zuppa. Se la cucina è una forma di conoscenza, questa zuppa fa conoscere qualcosa di nuovo, nello specifico: che un piatto non ha un sapore univoco ma che è tanto più perfetto quanto è capace di armonizzare sapori e consistenze contrastanti. L’armonia non è una linea ma un insieme di voci, singolarmente dissonanti ma equilibrate nel complesso. Le senti distintamente e dicono cose diverse. Ognuno ti fa ricordare qualcosa e assieme sono una zuppa di pesce e legumi. Come altre, completamente diversa da tutte.

Capitolo quinto

Pane carasau impregnato di pomodoro. Che si è cibato di pomodoro e se ne è gonfiato. Una foglia e un colore e un guazzetto di mozzarella sotto. Continua ad imbeversi di umori. Petza non cucina pesci che non si trovano in Sardegna, non prepara piatti che non c’entrano con la tradizione. Il pane carasau è la prima declinazione della cucina sarda. E lui lo usa. Prepara piatti che sono familiari ma è come se il tuo concetto di familiarità fosse descritto in un libro e lo riconoscessi, inequivocabilmente. Ma sta in un libro, ha una sistemazione scientifica e letteraria che non accorderesti alla tua vita. Ma anche la tua vita può essere esemplare: nella sua singolarità si somma a quella di altri e fa la memoria di un popolo.

Capitolo quarto

Questo uovo in camicia affogato nel purè tartufato e ricoperto da pancetta e cipolle fritte è una stratificazione della memoria. Il fritto può ricordarti ogni fritto tu abbia mai mangiato ma la dolcezza della cipolla e l’acre salinità della pancetta si esaltano a vicenda. Non bastassero loro, la rotondità dell’uovo si mescola al tartufo del purè ed ha un sapore che non è di uovo ma che lo ricorda. Nella consistenza e nel colore. Mangiando in luoghi del genere non si dovrebbe badare alla quantità (è maleducazione) e mangiare troppe uova non fa felice il tuo cardiologo, ma ne avrei mangiati una ventina, non ho vergogna ad ammetterlo.

Capitolo terzo

Qui sotto c’è un gelato. Di cipolla, mi pare. Sotto un carpaccio di un pesce affumicato c’è un gelato. (sono la maledizione di ogni chef, non riesco a ricordare più di tre ingredienti delle loro ricette).
In questo piatto c’era un pesce mangiato da bambino a Tropea e il gelato mangiato dopo. Tutti e due. Assieme. C’ero io bambino e adulto, perché da bambino l’affumicato non l’avrei apprezzato (adesso vorrei affumicare qualsiasi cosa). C’era un giorno in cui ero spensierato e volevo solo tornare a giocare sul bagnasciuga. Non sapevo che mi sarei ricordato di quel giorno 30 anni dopo. E non perché mi ritrovavo su quella spiaggia, ma mangiando un piatto preparato da Roberto Petza in tutt’altra parte d’Italia.

Capitolo primo

L’inizio è una barca. Una piccola canoa su cui giungono bocconi di diversa consistenza. Croccanti perché fritti o croccanti perché crudi, come è croccante una verdura fresca. Da bambino non amavo le verdure. Ora mi pare abbiano un valore metafisico: mangiando una verdura mangi un codice genetico, una specie. Ti appropri di un linea evolutiva lunga millenni. Pura perché non alterata da nessuna cottura. Bisognerebbe provare a mangiare tutto crudo, per sentire come sarebbe la natura senza l’uomo. La crudità è la realtà a cui sottrai l’uomo.

Capitolo primo

Il viaggio finisce dove c’è l’alimento principe: il pane. Dopo il latte materno, i denti del bambino si formano sul pane: duro, morbido, soffice e spigoloso. Il pane non è un alimento ma una palestra sensoriale. Cambia consistenza se masticato. Ci insegna che niente è come appare e il contatto modifica l’oggetto e chi lo manipola. Il pane è semplice ed è il primo grado di alterazione alimentare che l’uomo abbia inventato, dopo la cottura della carne. Il pane cotto diventa dorato. È un metallo prezioso adesso.

Quando abbiamo fame pensiamo al pane. Quando la mente ha fame non pensa a cibarsi ma ad essere stimolata. La cucina può stimolarla con parole che sono apparentemente comuni e familiari ma che son pronunciate con voce diversa. Le parole hanno diversi significati e un piatto può chiamarsi in un modo ma mangiato può essere mille altre cose: ricordi e somme di ricordi. Un viaggio dentro noi stessi.

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Martino Pietropoli
L’Indice Totale

Architect, photographer, illustrator, writer. L’Indice Totale, The Fluxus and I Love Podcasts, co-founder @ RunLovers | -> http://www.martinopietropoli.com