Discover Gingerly: Marco Castello e la vita dietro le attese

Per fan di Lucio Battisti, Lucio Dalla e Mac DeMarco.

Federica Carlino
listengingerly
8 min readFeb 15, 2021

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Nella copertina del suo disco d’esordio, “Contenta Tu”, uscito il 5 febbraio scorso per 42 Records e Bubbles Records, Marco Castello si presenta a cavallo del relitto di un motorino abbandonato in mare, con la sua Siracusa che si intravede sullo sfondo. È una citazione dalla title track del disco, ma in un certo senso rappresenta anche lo stato d’animo del cantautore negli ultimi due anni, il periodo in cui ha dovuto aspettare di vedere il suo lavoro finalmente pubblicato, tra ritardi burocratici e cause di forza maggiore dovute alla pandemia. Ma nonostante sia passato diverso tempo da quando lo ha scritto e registrato, con il supporto di Erlend Øye dei Kings of Convenience, il suo primo disco è stato accolto con grande entusiasmo. E non poteva essere altrimenti, perché quelle di Marco Castello sono canzoni in cui si percepisce un amore appassionato per la musica dei grandi cantautori italiani e le ritmiche black anni ’70, che raccontano con immediatezza la sua adolescenza, l’amore per la sua terra e le prime esperienze da musicista. Ne abbiamo parlato in una breve intervista telefonica, che vi invito a leggere di seguito, la solita premessa di premere play e ascoltare attentamente!

- Come stai?

Sto bene, grazie!

- Per l’uscita del tuo album ci sono voluti due anni, suppongo sia stato parecchio frustrante aspettare così tanto. Rispetto a quando lo hai registrato, quante cose sono cambiate nella tua vita?

Tantissime, così tante che ascolto alcune cose dell’album e mi dico: “oddio, no! Perché ho detto questa cosa!”.

- Ad esempio?

Preferisco non dirtele, perché altrimenti poi diventa motivo di attenzione e non voglio che si noti. Però ci sono tantissime cose che avrei fatto in maniera diversa, sia a livello musicale che a livello di testo, insomma tante scelte. In ogni caso sono contento del fatto che, comunque sia, l’album è uno spaccato di quel periodo, anche se è uscito adesso.

- Se ti può consolare, è invecchiato molto bene!

Menomale! No, più che altro mi è capitato un sacco di volte in questi due anni di vedere che uscivano altri pezzi e di pensare: “ecco l’ho detto anche io in una canzone e adesso sembrerà che l’ho copiata…”, oppure di sentire uno stesso riferimento o un tema simile. Questo è stato un po’ frustrante, perché a volte erano cose di cui ero fiero e orgoglioso e invece poteva passare come qualcosa di già sentito da qualcun altro. Però per adesso non sembra essere una vera minaccia!

- Ma qual è la prima canzone dell’album che hai scritto, e quando l’hai scritta?

Villaggio. L’ho scritta a settembre 2017, è stata la prima in assoluto e in realtà era nata proprio per fare satira sull’indie in generale. Anche il fatto di parlare così tanto di Siracusa e di posti specifici era un po’ ammiccare alla tendenza di mettere sempre nomi di città nei pezzi indie degli ultimi dieci anni. Che poi, in realtà, questa cosa mi ha incuriosito ad un livello oltre la satira e ho continuato.

- Tra l’altro, si sente parecchio il tuo amore per Lucio Battisti, Lucio Dalla e Pino Daniele.

Sai che in realtà Pino Daniele non l’ho mai ascoltato davvero? Però sono molto felice di essere associato a lui. Di Lucio Battisti e Lucio Dalla ne sono consapevole, invece Pino Daniele l’ho ascoltato poco e recentemente, cioè a parte le hit che conosciamo tutti non è mai stato un ascolto che ho approfondito più di tanto. Però sì, capisco che a livello musicale c’è qualcosa che può portare lì, perché anche a lui piaceva la musica black, il groove, il funk e le scelte musicali anni ’70 a cui mi sono ispirato.

- E qual è stato il processo di integrazione delle sonorità alla Lucio Battisti e Lucio Dalla all’interno della tua musica? È stato istintivo?

Per quanto riguarda i suoni, in realtà dipende più che altro dal fatto che abbiamo registrato in uno studio [il Butterama Studio di Berlino] in cui c’erano prevalentemente strumenti anni ’70, gli stessi che usavano loro. Per quanto riguarda il mio modo di cantare, io ho sempre ascoltato Battisti sin da piccolissimo, quindi penso ci sia una sorta di imprinting che in automatico mi fa cantare in quella maniera lì.

- Ma hai suonato tutto tu?

No, no, nel disco io ho suonato la batteria e qualche chitarra. Poi al basso c’è Lorenzo Pisoni e alle tastiere Leonardo Varsalona.

- E dato che sei un polistrumentista, qual è il tuo strumento principale?

A dire il vero non mi sento più un polistrumentista, perché suono prevalentemente la chitarra. E non mi sento neanche di definirmi un chitarrista, perché non conosco la tecnica, sono un autodidatta, però sicuramente è lo strumento che suono più di tutti. Quello che mi diverte di più è la batteria e quello che invece avrei voluto che fosse il mio strumento è la tromba, ma non è andata bene…

- Ho visto che hai studiato Jazz.

Sì, sono laureato in tromba jazz.

- Vabbè allora dai, anche quella non puoi dire di non saperla suonare!

Sì, però è stata un’esperienza un po’ contrastante, infatti ho smesso praticamente di suonarla.

- E cosa ti aveva portato a scegliere l’indirizzo Jazz?

È partito tutto dal fatto che la tromba era l’unico strumento che avessi mai suonato in vita mia. Avevo cominciato a suonarla nella banda comunale e lì prendevo già lezioni, mentre gli altri strumenti li ho imparati a casa, da autodidatta, per i fatti miei. Forse proprio per questo mi ha dato più piacere suonare gli altri, perché non sentivo quel senso di dovere che invece avevo per la tromba. Poi mi sono iscritto al conservatorio un po’ a caso, perché io volevo fare architettura al politecnico, ma il giorno del test d’ingresso si sono resi conto che non avevo pagato la tassa d’iscrizione o non ricordo che tipo di problema ci fosse, e quindi ero rimasto a Milano e dato che il Jazz l’ho sempre ascoltato, la tromba mi è sempre piaciuta e l’avevo già studiata, ho fatto il test d’ingresso alla Civica, sono entrato e ho detto: “ok, bella, allora faccio questo”.

- Nella canzone che dà titolo all’album dici di Siracusa che è “bella ma cretina e vuole assomigliare a qualcosa che fa schifo”. Spiegami un po’ questo legame di amore e odio con la tua città.

Questa frase in particolare nasce semplicemente dal fatto che io vedo tantissima bellezza nelle cose naturali che sono rimaste ancora intatte, mentre invece la tendenza politica, commerciale e sociale è quella di ambire a cose che a me fanno schifo e che sono sostanzialmente quelle delle città da cartolina, fatte solo per i turisti, dove tutta la costa è un eterno resort e si smette di ricercare la qualità dei prodotti, perché tanto i turisti si accollano qualsiasi cosa e tutto diventa vetrina, non ci sono più gli abitanti e sono tutti al servizio di chi viene e paga per avere qualcosa di scadente. Secondo me, questo modo di agire è un po’ un declino. Almeno, io la vedo così, ma per la maggior parte delle persone è una grande ambizione e una grande speranza.

- Ma hai mai pensato di lasciare Siracusa e trasferirti definitivamente da un’altra parte?

No, assolutamente no. Sono stato in tantissimi posti, ma Siracusa è sempre rimasto il mio posto preferito. Per un po’ di tempo sono stato persuaso da Milano, perché ho avuto un periodo molto felice lì e ovviamente se vuoi fare musica o arte in generale, hai molte più speranze. Ma ogni volta che tornavo giù, sentivo che questo legame si scioglieva sempre di più, perché mi rendevo conto della differenza. Per dirti, a Siracusa esco di casa e in 5 minuti sono immerso nella natura, vedo il mare, il clima è bello, la luce è bella… e io ho bisogno di queste cose, quindi soffrirei molto il non poter uscire di casa perché piove, perché è grigio. È una cosa che penso influisca molto sullo stato d’animo delle persone.

- Torniamo un po’ indietro nel tempo. Ti ricordi qual è stato il primo disco che ti ha colpito in assoluto quando lo hai ascoltato, quello che ti ha fatto dire: “ok, voglio suonare anch’io”?

Cambia in base agli strumenti, in realtà. Per la tromba, quando già avevo 10 anni, e già copiavo a orecchio le canzoni al pianoforte o suonavo le percussioni di mio padre, a un certo punto ho ascoltato un album di Roy Paci e ho detto: “ok, voglio suonare la tromba”. Per la batteria, invece, mia sorella aveva una cassetta dove da un lato c’era Dookie dei Green Day e dall’altro Enema of the State dei Blink-182. Quella cassetta, che conoscevo e conosco a memoria, mi ha fatto desiderare d’imparare a suonare la batteria.

- Eh, Travis Barker…

Esatto! Da piccolo, a tredici anni, la mia immagine di Msn era proprio Travis Barker. Volevo diventare come lui! Poi mi ricordo che ascoltavo tantissimo un disco che avevano regalato a mia sorella, cioè Capo Horn di Jovanotti, e mi piaceva tantissimo perché era un bel hip hop suonato, secondo me quello era un periodo molto felice di Jovanotti. E poi tanti altri, Battisti, De André… per un periodo ho ascoltato tantissimo folk, come i Modena City Ramblers e un botto di gruppi che facevano musica coi violini e le fisarmoniche, un po’ celtica. Ho avuto un periodo metal con i The Horizon e i Lamb of God. Il periodo più lungo e approfondito è stato con il reggae, è durato per tutto il liceo, ero un rastone.

- Dell’album, qual è la canzone a cui ti senti più legato, se c’è?

Cambia in base al periodo. Fino a prima che la pubblicassimo, Dopamina era una delle mie preferite, perché era anche l’ultima che avevo scritto e quindi quella che sentivo più conforme alla maniera in cui mi sento adesso. L’ho scritta a gennaio 2019. Poi però, dopo che è uscita, non lo so… forse perché l’ho ascoltata troppo… la sensazione è cambiata. Ma comunque, dipende dai periodi. È un po’ come se mi chiedessi se preferisco la mamma o il papà!

- Giusto, hai ragione. Hai già scritto qualche nuova canzone?

Sì!

- Sullo stile di questo album, oppure no?

Un pochino, ma vorrei farlo meglio!

- Vabbè, l’autocritica tipica dell’artista! Progetti per l’immediato futuro?

Purtroppo è impossibile, l’unica cosa a cui potrei ambire sono i concerti e non si possono fare. Tocca aspettare e sperare.

- Ultima domanda: mi puoi consigliare tre artisti emergenti che secondo te meritano di essere ascoltati, sia italiani che stranieri?

Allora, un’uscita degli ultimi due o tre anni che mi ha folgorato tantissimo sono i Khruangbin. Poi mi è piaciuto tantissimo Pufuleti, che ho conosciuto durante il primo lockdown. È un rapper siculo tedesco. Non ho capito bene la sua storia ma mi ha gasato un botto: è cresciuto in Germania ma parla siciliano, perché suo nonno gli parlava in siciliano. La sua produzione, i testi, il flow, tutto mi ha gasato un botto! E poi, a pari merito, ti direi anche Tutti Fenomeni, Lucio Corsi, Giorgio Poi… vabbè ce ne sono tantissimi, c’è l’imbarazzo della scelta!

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Federica Carlino
listengingerly

freelance music journalist and passionate music supervisor