Woodstock, la leggenda del festival che ha cambiato la concezione di concerto

Il racconto di come, cinquant’anni fa, quattro ragazzi organizzarono una tre giorni di musica e libertà, senza sapere che sarebbe passata alla storia.

Federica Carlino
listengingerly
6 min readAug 16, 2019

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Correva l’anno 1969 e le reboanti contestazioni studentesche, gli scioperi, le proteste in nome del pacifismo e della non-violenza, incorniciavano la fine di un decennio di speranze e illusioni, ma anche di preparazione ad una inarrestabile ascesa del rock. Mentre Armstrong percorreva i suoi primi passi sulla Luna, il Rock cominciava il suo cammino dalla California alla costa Est degli Stati Uniti. Non c’erano più Londra, i Beatles, gli Stones e gli Who, nell’immaginario collettivo, a rappresentare il centro nevralgico di un mondo contraddittorio: la terra promessa di una enorme e sentita rivoluzione culturale era, ormai, la California, con i suoi giovani e sbandati hippie, le droghe e le chitarre elettriche, ma soprattutto con Jimi Hendrix, Jefferson Airplane e Janis Joplin. La scena californiana era vista come un nuovo mondo, con un nuovo modo di intendere la musica e di condividerla in grandi raduni hippie, il capostipite dei quali fu Monterey nel 1967.

Dopo gli assassinii di Martin Luther King e Robert Kennedy, con il conseguente sfaldamento graduale del movimento pacifista e della nuova sinistra, erano rimasti ben pochi a credere che non tutto fosse perduto e che, nonostante le battaglie perse contro il governo, la violenza, la droga e la commercializzazione, i giovani avessero ancora voglia di andare avanti.

La risposta arrivò da quattro di loro: Michael Lang, Artie Kornfield, John Roberts e Joel Rosenmann. I primi due erano in cerca di finanziatori per un progetto ancora generico su uno studio di registrazione tra i boschi di Woodstock, nella contea di Ulster, situata a meno di 100 miglia da Manhattan e vicino al rifugio di Bob Dylan; John Roberts e Joel Rosenmann, invece, erano due “giovani uomini con capitale illimitato” — il primo erede della Block Pharmaceutical ed il secondo figlio di un celebre dentista newyorkese — e, come scritto su un annuncio che pubblicarono sul New York Times, erano alla ricerca di “interessanti opportunità legali, di investimento e proposte d’affari”. Così, rispondendo all’annuncio, l’organizzatore di numerosi festival Lang, il più giovane manager discografico della storia americana,Kornfield, ed i due ‘figli di papà’, Rosenmann e Robert, diedero vita al più grande concerto che si ricordi: “An Acquarium Exposition”. Così si sarebbe chiamato, aveva deciso Lang: lo spirito della musica di quel tempo non poteva che essere rappresentato da “Hair”, il manifesto della cultura hippie, e in un concerto di questa portata dovevano essere presenti tutti i grandi artisti del momento, da Hendrix a Dylan, da Joan Baez a Janis Joplin — con la speranza di avere anche i tre grandi gruppi d’oltreoceano dell’epoca, Beatles, Who e Stones. Ma per far sì che partecipassero tutti era necessario trovare un posto, avere i permessi e sganciare un bel po’ di grana. Alla sbrigativa spiegazione di Lang e Kornfield — “sarà un weekend di musica per 100.000, forse 150.000 persone — però, gli abitanti di Woodstock non poterono che immaginarsi un’orda di hippie impazziti e scalmanati, pronti a portare la loro “trasgressione” e le loro droghe psichedeliche in quella terra incontaminata: mentre i primi gruppi cominciavano a dare le prime conferme tramite i rispettivi manager, i cittadini convocarono un’assemblea per cacciare via quegli organizzatori capelloni e la loro gente. E così fecero: il festival di Woodstock stava per saltare, con una spesa complessiva di circa 1.300.000 dollari.

Il caso volle che un un 34enne attivista del movimento gay di New York, Elliot Tiber, fosse in quei giorni a casa dei genitori per aiutarli nella gestione del loro piccolo e inospitale motel, “El Monaco”. Tiber, voleva proporre a Lang di portare la musica dell’Acquario in un terreno di 15 acri sulla riva del lago accanto al motel, ma le condizioni del posto lasciavano a desiderare e non era possibile far confluire un’intera comunità hippie in una palude. Così, per il modico prezzo di 75.000 dollari, un allevatore di nome Max Yasgur accettò di affittare a Lang e ai suoi compagni i 600 acri di terra sui quali Wadleigh, con l’aiuto di un giovane Martin Scorsese, riprenderà le tre giornate di Woodstock.

Dal pomeriggio di venerdì 15 agosto fino alla mattina di lunedì 18, sul palco della “Woodstock Arts and Music Fair” si esibirono Joan Baez, Grateful Dead, Jefferson Ariplane, Joe Cocker, Country Joe McDonald, Richie Havens, Crosby, Still, Nash & Young, Santana, The Who, The Band, Ten Years After, Sha-Na-Na, John Sebastian, Melanie, Blood Sweat & Tears, Johnny Winter, Tim Hardin, Canned Heat, Jeff Beck, Arlo Guthrie, Ravi Shankar, Sly & The Family Stone, Incredible String Band, Jimi Hendrix, Janis Joplin, Wavy Gravy, Keef Hartley Band, Sweetwater, Quill, Paul Butterfield Band.

Il primo a salire su quel palco fu Richie Havens, chiamato a sostituire altri musicisti rimasti bloccati nel traffico di hippie in pellegrinaggio verso la loro terra promessa, ed obbligato a restare sul palco fino allo stremo delle forze. Finito il repertorio, Havens si trovò a dover improvvisare per più di 500.000 persone, e così nacque “Freedom”:

Purtroppo una ricostruzione esatta della scaletta è pressoché impossibile oggi, date le generiche ricostruzioni delle cronache dell’epoca e la mancata accuratezza dei molti libri pubblicati sul Festival. In più, molte delle esibizioni sono state escluse dal film su richiesta degli stessi artisti o per non infangarne il nome in caso di pessima performance; in alcuni casi, come in quello di Bert Sommer, si tratta invece di esclusioni dettate dalle poche conoscenze “ai piani alti”.

Al contrario, alcune performance sono diventate leggendarie soltanto per il fatto di essere state incluse nell’opera di Wadleigh, come nel caso di Joe Cocker — all’epoca sconosciuto ai più — Richie Havens, Ten Years After e Who. Altre, ancora rispecchiano l’armonia ed il mito di quell’evento, come il “crowd chant”, il canto sotto la pioggia e il fango della folla, diventato poi una vera e propria hit, priva di autori ed interpretata direttamente dal pubblico.

“Nella percezione del pubblico tutto era rock”, scrivono Ernesto Assante e Gino Castaldo in “Blues, Rock, Jazz, Pop”, “i tamburi latinoamericani di Jose ‘Chepito’ Areas, il microfono roteante di Roger Daltrey, la chitarra folk di Joan Baez e il blues straziante di Janis Joplin. Era rock persino il sitar di Ravi Shankar”. E neanche la pioggia, il fango e l’elettricità che si dipanava nell’aria a causa delle strumentazioni danneggiate dall’acqua, riuscirono ad interrompere quei tre giorni di pace, amore e musica. Era tutta un’illusione, una alienazione totale da una realtà costellata da guerre e conflitti, contro cui si stagliavano i maggiori rappresentanti di quel cambiamento voluto e, in un certo senso, vissuto, un appello alla comunità la cui voce somigliava a quella di Joe Cocker che, quasi urlando, cantava “With A Little Help From My Friends”.

Purtroppo, però, tutto ha una fine. E la fine di quei tre giorni giunse il 18 agosto alle 9 di mattina, quando la Fender Stratocaster di Jimi Hendrix tuonò su una dissacrante versione dell’inno americano, per un pubblico di appena 40mila persone, in una esibizione straordinaria, così descritta da Assante eCastaldo: “all’alba dell’ultimo giorno, in una luce livida, davanti alla spianata che già mostrava i segni dell’abbandono, presagio della fine del movimento americano, Jimi Hendrix attaccò con la sua Fender Stratocaster una distorta e dilatata versione dell’inno americano, sporcando la sequenza melodica fino a trasformarla nei lugubri suoni di un bombardamento. La bandiera degli Stati Uniti si sfaldava nel sangue dei caduti in Vietnam, i sogni del modello americano crollavano in un abisso di orrore. Mai il rock aveva osato tanto. La tragedia era conclusa, l’atto di accusa era finalmente compiuto. Ma in quella performance c’era anche la sofferta consapevolezza che qualcosa stava rapidamente tramontando”.

Cinquanta anni dopo, l’importanza di quei tre giorni è ricordata con rispetto e un po’ di invidia da parte di chi non c’era: lì, dove adesso sono rimasti una lapide ed un enorme orologio, per non dimenticare mai un evento che ha cambiato la storia del mondo.

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Federica Carlino
listengingerly

freelance music journalist and passionate music supervisor