6. Dahiyeh
Il fotoromanzo della rivoluzione sciita ha una sua galleria urbana sempre ben illuminata, a dispetto dell'atmosfera crepuscolare che avvolge di notte questi palazzoni della periferia sud di Beirut a cui è stato appiccicato il nome di Dahiyeh. Sulla avenue principale del quartiere-stato di Hezbollah una lunga fila di ritratti fotografici introduce al visitatore le varie appartenenze e le identità miste di questa fetta di città, spesso erroneamente percepita come omogenea e unitaria.
Su tutti spicca la faccia di Hassan Nasrallah, leader indiscusso di Hezbollah. Il volto di Nasrallah è ecumenico, rassicurante. Le sue espressioni sono la sintesi iconografica che concilia la severità irosa di Khomeini e la bellicità sognante e giuliva dei giovani martiri caduti nelle ultime Jihad. Nelle foto il leader sciita sembra indicare un orizzonte concreto e sicuro, un traguardo che è avanti e non sopra qualcosa. Nasrallah incarna una condizione di estremo potere nella sua comunità: è un leader carismatico, emotivo e funzionale. Ha un’autorevolezza solida ed empatica che lo rende un protagonista del presente di quest'altra isola dell'arcipelago libanese.
Questa sequenza di palazzoni (alcuni più investiti in maniera fortunata da luminosi progetti di ricostruzione, altri meno) è il new deal sciita libanese. Una comunità autonoma con il suo welfare generalizzato che spalma un minimo di benessere su una moltitudine di storie personali di sconfitta e povertà. Sotto forma di ospedali, servizi pubblici e tanti piccoli e diffusi lavori socialmente utili.
Per questa comunità autonoma l’orizzonte è la Persia. Bisogna guardare nella direzione opposta in cui guarda l'altra Beirut in cima ai totem del sogno. «Non esagerare» mi direbbe Robert Fisk in questo caso. È vero. Gli orizzonti divergenti sono solo uno dei tanti strabismi di questa città policentrica e polifonica. Ma in questo ensemble rumoroso e cacofonico non c'è nessuna coralità, ognuno suona la sua melodia e non sempre ascolta le altre. È un pentagramma urbanistico dodecafonico, il luogo di elezione di una sperimentazione che altrove è stata culturale e musicale qua è sociale anzitutto. Un’avanguardia antropologica mediorientale, qui e ora, non in Europa 100 anni fa. Da non confondere, nondimeno, con la retorica della primavera araba e le sue suggestioni rivoluzionarie novecentesche.
L'orizzonte della narrazione umanistica sciita dà le spalle al mare, ne intrattiene un rapporto occasionale, esclusivamente spaziale e confinato in una prossimità occasionale e comunque non vissuta. Il sole sorge e tramonta sempre nella stessa direzione, quella dove guarda Nasrallah sereno, paffuto e pacifico. Un mare calmo di tranquillità con un ancoraggio solido in storie gloriose e millenarie: l'antica Persia e la sua più attuale ambizione egemonica politica e culturale che si chiama Iran.
Un orizzonte diverso, nella sua collocazione spaziale, nella sua direzione e nella sua temporalità storica. Uno sguardo verso un passato che invece l'altra Beirut ha fretta di demolire e seppellire di cemento in una fame di indefinita modernità.
Ma si capisce che in una storia che alterna fasi di pace e fragori di bombe non c'è spazio per troppe concettualizzazioni sul futuro e sulle rotte migliori per raggiungerlo. C'è bisogno di approdi convincenti nel presente. Porti sicuri dove passare la notte a bere, divertirsi o pregare. Domani potremmo essere tutti morti. O martiri.