Il dolore? “Quando lo aspetti non arriva, quando ti capita addosso ti sbigottisce”

Vincenzo Maddaloni
The Sfoglio
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4 min readSep 29, 2018

Pubblico volentieri (gli piacerà) questo suo saggio, in ricordo di quando ci conoscemmo nella redazione di un grande quotidiano della sera dove, con molto entusiasmo e “sensa schei”, muovemmo i primi passi nel mondo della scrittura

di Vitaliano Pesante

Non chiedermelo, non aspettarlo da me. Ragionare di dolore, per me è un nuovo dolore. Perché ragionarci su? Tanto, lui va, lui viene, quando vuole lui. È come l’amore, ragionarci su rende più sterili: quando lo aspetti non arriva, quando ti capita addosso ti sbigottisce. Meglio stare accucciati nel quotidiano, sapere che prima o poi il dolore arriverà, a allora cercherai di difenderti. Con una forza che non nasce mai dalla ragione, ma da una disposizione dell’animo.

Ragionare del dolore fa paura: apre una catena che da lui incomincia, poi evoca il male, e le ragioni del male, poi la morte e le ragioni della morte. Infine dio. Arrivare a dio attraverso il dolore è accaduto a molti, è successo anche a me, ma non è la strada migliore.

Il dolore è un luogo sacro. Per ragionare di lui, io cristiano mi faccio il segno della croce. Dolore è il luogo in cui si vela o si disvela l’esistenza di dio. Ma il dio è nascosto, e io non ho più voglia di giocare a nascondino. Vivo.Invertiamo i ruoli, mi venga lui a cercare.

E poi io sono banale. La mia esperienza del dolore è quella di una vita media d’uomo d’Occidente. Un padre morto presto, la madre vedova e dolente, gli insuccessi di lavoro, qualche malattia, e neppure una frattura ossea. Certo, c’è il dolore degli altri, vicini o lontani. Gli amici che se ne vanno con storie dolorose, e poi l’apprendimento delle grandi tragedie. La Shoah, la fame dell’Africa, la violenza alle donne, i bambini stuprati, le torture nelle carceri, i morti nelle guerre.

Ma quelli sono dolori appresi, non vissuti. La mia cuccia calda non ne è sconvolta, se non con uno sforzo di immedesimazione. Non ho provato il dolore lacerante, quello che ti scardina. Né voglio sentirmi in colpa, perché non mi immedesimo come se fossi lì, e con quello e con questo. Diventa un impegno civile e politico, ma non è mai un’emozione che ti lacera. Oppure è un atto cristiano di partecipazione voluta e programmata. Ma, per quanto mi immedesimassi in un martire della Shoa, non poteri mai scrivere “Se questo è un uomo”. Anzi, quante volte ho ricevuto il rifiuto e quasi lo condanna, quando mi sono accostato a chi ha sofferto per farmi sentire dalla sua parte, e lui mi ha guardato con un sotterraneo sorriso di spregio.

E poi io sono cristiano. L’immagine del dolore è nel marchio di fabbrica della mia religione. Quel Cristo morto, appeso nella sofferenza, m’è entrato fin dentro gli ultimi meandri dell’inconscio, ancora quando ero piccolo. Non me ne libererò più. Ammesso che sia il caso di liberarsene. Certo, fa più comodo il Budda sorridente, ma anche lui è morto, e inevitabilmente in atto di dolore.

Di assunti in cielo direttamente, senza dolore di passaggio, c’è solo la Madonna. Ma i teologi hanno sempre avuto molta fantasia. O meglio hanno sempre ragionato troppo. Fino a perdere il valore stesso, diretto, inesplicabile e vissuto dell’atto doloroso, della morte quindi. Ma loro ti spiegheranno tutto. Datemi un teologo, dopo che è morto, e poi starò ad ascoltarlo.

Dirai: che cazzo, è questo il modo? E io ti rispondo: dillo, dillo tu, ma parlami del tuo dolore, di quello che tu hai vissuto. Poi ti ascolterò. Intanto fatti pure le lugubri elucubrazioni che vuoi. Dolore e morte, paura e rimozione, dio e assenza. Mica facile.

Ma se proprio vuoi da me l’immagine suggerita dal dolore, se da questa vuoi trovare il significato che a me sta dentro, sotto, sopra, intorno, ti dico: è l’immagine di mia madre. Mater dolorosa. Come tutte le madri, anche quelle siliconate di oggi. Quando lei si è andata perdendosi nelle nebbie dell’Alzheimer, e d’improvviso se ne usciva sbigottita, chiedendo perché, che mi succede, e i suoi occhi erano smarriti in un’immensità grigia di cui non capiva né il da dove né il senso, né se di nuovo. E non c’erano parole per darle aiuto, nessun ragionamento. Solo la mano nella sua mano. Il rimorso è di avergliela data troppo poco.

Già! perché i rimorsi, per me che non ho vissuto tragiche esperienze, sono la forma di sofferenza più intensa. Ho sempre in testa Marguerite Yourcenar che parlava di fiducia tradita, di speranza delusa, di lealtà disattesa, di amore non corrisposto, per non chiedermi quante volte e con chi ne sono stato io l’autore. E questo è il mio rimorso. E questa è la mia sofferenza.

Martedì 3 giugno 2008

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Vincenzo Maddaloni
The Sfoglio

He is a journalist who has travelled a lot, lived a lot, written a lot and hasn’t stopped…