Barbarian (2022)
Al di là della facile ironia —l’orrore più grande di Barbarian è edile e catastale — ciò che fa più specie, di questo horror scritto e diretto da Zach Cregger, è che il cambio di registro che lo caratterizza è all’insegna della disconnessione. O almeno sembra.
Ok, cerco di sciogliere la lingua e di spiegarmi meglio. Barbarian dura un’ora e tre quarti circa, che passeranno in un lampo.
E per i primi tre quarti d’ora racconta una storia, con una protagonista interpretata da Georgina Campbell, e la preziosa spalla di Bill Skarsgård. La donna è a Detroit per un colloquio di lavoro, e affitta una casa che, per un disguido o per via della gestione truffaldina del AirB&B, è stata già affittata all’uomo.
Detroit è una città fuori dal tempo.
È la conseguenza vivente della malagestione e della crisi finanziaria, con interi quartieri, sobborghi per lo più, completamente abbandonati, riconquistati dalla natura e abitati da reietti.
Ci ha provato Ryan Gosling, a raccontarcela, col suo Lost River. E ancora, nella misura del classico thriller domestico, Fede Alvarez con Don’t Breathe. E in rete potete trovare non so quanti reportage fotografici realizzati da chi si è addentrato per documentare quella che oggi è, a tutti gli effetti, una città che sembra uscita da un film post-apocalittico.
È un luogo che mi piacerebbe visitare, sì. Non lo farei mai, ma mi piacerebbe. Ed è anche un luogo infinito dove raccontare storie, che nascono dietro ogni angolo, dietro ogni catapecchia.
Per i primi tre quarti d’ora, quindi, assistiamo anche in Barbarian al classico thriller. Lui è un bravo ragazzo, ma chissà, magari nasconde qualcosa di losco, lei ha scritto in fronte final girl fin dal principio, fin quando scende dalla sua auto, sotto la pioggia e attraversa la soglia di casa, cosa che sottende alla sospensione dell’incredulità: è l’ingresso del personaggio nella storia, storia che prevede uno slittamento del concetto di reale…
Ma non mi voglio dilungare: Barbarian è una matrioska dell’orrore, laddove lo spazio si amplia ogni volta che si pensa di essere arrivati a toccare il limite estremo.
Lo è fin dall’inizio: luci spente, l’unica cosa che vediamo, insieme alla protagonista, è il portico illuminato della suddetta casa.
Il giorno dopo scopriamo che la stessa è ubicata in una zona degradata di Detroit, in stile fallout.
La casa ha una cantina, che però è solo il preludio ad altri spazi, cui si giunge tramite porte e scomparti segreti.
Ogni volta che una nuova porta viene aperta, la narrazione, e la nostra stessa percezione con essa, si espande, fino a quello che ritengo uno dei jump-scare più efficaci degli ultimi dieci anni, che qui taccio perché questo vuole essere un articolo senza spoiler.
Dopo la paura, ecco la prima disconnessione, così potente che nemmeno in Psycho di Hitchcock. Zach Cregger cambia contesto, mette al centro dello schermo Justin Long — che è strutturato per interpretare il prototitpo dell’idiota, in qualunque ruolo —e cambia persino colonna sonora. Di conseguenza, fino al momento in cui il personaggio di Long, ansioso di accumulare danari per mettere un freno ai suoi guai personali, non viene collegato alla medesima casa a Detroit, il film sembra essere diventato una commedia degli equivoci.
E ancora, la seconda disconnessione è un flashback onirico che ci mostra il quartiere al suo meglio, negli anni Ottanta di Reagan: il tipico sobborgo ordinato, coi prati di un verde che fa male agli occhi tanto è perfetto, e il buon vicinato che lascia le porte aperte. Una facciata sotto la quale, ovviamente, si celano gli orrori più indicibili. Il flashback racconta ancora della stessa casa.
Quasi che fosse la vera protagonista. E, ovviamente, i ricordi che essa cela.
Le scoperte diventano sempre più grandi, ho scritto, come la metratura dell’abitazione. E più enormi diventano le violazioni edilizie, più pesanti diventano le implicazioni narrative, con il mostro delle fiabe (Matthew Patrick Davis) che richiama, in termini di spavento, qualcosa che abbiamo già visto in Rec, e che ci è rimasto impresso. Lo farà anche Barbarian.
Infine, un parere personale: di mestiere mi occupo di narrativa. Da entrambi i lati: scrivo e edito manoscritti altrui.
Normalmente, questi cambi repentini di narrazione non sono consigliati.
In Barbarian, tuttavia, questa caratteristica peculiare diventa quasi cifra stilistica e, guardandolo con distacco, appare esserci del metodo, quasi Cregger abbia voluto ricreare scientemente uno schema di scatole cinesi.
Da guardare col volume alto, per lasciarsi travolgere.
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