C’era una volta a Hollywood

Germano Hell Greco
M E L A N G E
Published in
5 min readOct 4, 2019

Sorprendente, ma perfettamente sensata, la presenza su queste pagine di Quentin Tarantino e del suo C’era una volta a Hollywood.
Perché è del fantastico che trattiamo.
E C’era una volta a Hollywood è nel mezzo del territorio fantastico. Vi si addentra, l’assapora, lo fa suo.
Ed è anche un film personale, molto. Anche se Tarantino non l’avesse dichiarato, si sarebbe avvertito guardandolo.

Tarantino ha preso le cose che custodiva nel suo cuore e le ha messe su carta, dapprima in forma di romanzo, e poi sì, ci ha visto un film. Perché certi autori vedono le cose che scrivono, quindi riesce loro più facile pensare per immagini. Ci ha impiegato cinque anni.
Tarantino è innamorato della vecchia Hollywood. E di Sharon Tate.
C’è una scena, verso la fine del film: Sharon Tate e i suoi amici vanno a cena al ristorante El Coyote. Laggiù, lontano, sul Beverly Boulevard, dei riflettori puntati in cielo indicano una premiere. Sharon chiede a Jay Sebring se, per caso, ora anche i film zozzi abbiano le premiere.
La risposta è sì, negli anni Sessanta anche i film per adulti avevano le loro anteprima di gala. Il cinema dove si svolgeva la premiere si chiamava Eros.

Esiste ancora oggi, solo che ha cambiato nome: The New Beverly.
È di Quentin Tarantino e non proietta più film sporchi, è un repertory cinema, ovvero un cinema dove vengono proiettati i classici.
Esiste non per l’incasso, ma per l’amore.
La vecchia Hollywood era quella delle insegne sgargianti e delle sagome cartonate.
Tarantino, che ha girato in loco e senza effetti speciali, facendo bloccare strade al traffico, ha fatto cambiare le insegne di molte attività, ripristinandole agli anni Sessanta.
Il film è finito, ma le insegne sono rimaste.

E Sharon Tate. Una donna bellissima, una brava attrice, una mamma ammazzata col suo bambino.
È diventata immortale, specie, anzi forse soprattutto, per l’estrema dicotomia tra la sua figura angelica e sexy e la sua fine atroce.
È un pezzo della storia luccicante e cartonata come le scenografie dei set di posa di Hollywood.
Tarantino la ama e crea un film di tre ore su una donna morta. Assassinata.

- E sì, da qui in poi ci sono gli spoiler -

E siccome non è un film biografico né storico, ma d’amore, la storia in questo film va come lui vuole che vada.
Si è scomodato il revisionismo storico, ma non è così.
C’era una volta a Hollywood è amore per il cinema, per Hollywood, per Sharon Tate, è maturazione artistica dato che sì, arrivo a dire che c’è una netta cesura tra questo Tarantino e i precedenti, nella gestione dei personaggi e nella loro costruzione, soprattutto e in seconda misura nella scrittura dei dialoghi, è voglia di cambiare le cose. Quegli eventi orribili, per molti versi ingiusti e stupidi. E, nel farlo, nel tentare questa operazione di giustizia postuma e di ripristino, di restare personali, intimi, anche se può sembrare contraddittorio, dato che il film lo vedrà mezzo mondo.
Eppure è così che è.
Un’operazione personale, sussurrata con delicatezza, la stessa che accompagna il personaggio di Sharon Tate che si muove sinuosa per Hollywood e va a guardare se stessa al cinema, godendosi un momento eterno.
Margot Robbie non è Sharon Tate. A ben guardare non le somiglia neppure. È palese quando lei guarda la vera Sharon Tate in The Wrecking Crew, ma non importa, non è la sospensione dell’incredulità il senso di quella scena. È un omaggio gentile, timido. È un modo di consegnare l’idea di Sharon alla storia. Margot fa solo da tramite, si trasfigura.

E sì, è arrivato il momento di nominarli, Leonardo di Caprio e Brad Pitt, il dynamic duo di C’era una volta a Hollywood.
Un’altra scelta felice, e a modo suo simbolica. Sono due star internazionali, sono invecchiati e sono arrivati alla maturità artistica, come Tarantino. Quindi sono lì non tanto per fare spot di se stessi, non hanno più bisogno, oggi, di marcare il territorio. I loro nomi sono scolpiti, non è celebrità che cercano, ma affermazione di un concetto, sono professionisti, loro e i loro personaggi, che sono addentro la vita pulsante di Hollywood, ne conoscono le insegne sgargianti e anche le buffonate dietro le quinte, le piccole invidie, le crisi, i tradimenti, le risse.
Sono attori stanchi e parimenti entusiasti, sono soddisfatti, sono il mezzo di Quentin per cambiare la storia e rimettere a posto le cose. E loro ci godono, nel rimettere le cose a posto, a colpi di arti marziali (gli stessi che spaccano il culo a Bruce Lee; ah no, “nessuno rompe il culo a Bruce Lee”), pugni, latte di cibo per cani e… lanciafiamme.

Ah sì, la scena di Bruce Lee. Povero, povero Bruce, sculacciato da Booth (Brad Pitt) e da Quentin Tarantino. Dopo aver fatto la figura del pallonaro. Ma, sapete una cosa, chi se ne fotte. Chi se ne fotte se è stata compiuta lesa maestà rispetto a Bruce Lee, in una storia che sicuramente noi non conosciamo, non del tutto, e che quasi sicuramente si è svolta proprio come viene descritta, dietro le quinte, fuori da un teatro di posa di Green Hornet, in un momento di cazzeggio della troupe. Magari è così che è andata. O magari questo è l’ennesimo tocco personale di Tarantino che, oltre all’amore, nella sua opera personale rende palese la sua antipatia per Lee. Difficile da crederlo, visto come ha conciato Uma Thurman in Kill Bill, con la tutina gialla a bande nere che indossava proprio Lee. Anyway…
La scena è perfetta nel contesto e nella storia di C’era una volta a Hollywood. Caso chiuso.

E infine, Manson e i suoi carnefici, la sua famiglia di sciroccati.
Mettere le cose a posto vuol dire non solo prenderli a cazzotti e bruciarli vivi, vuol dire far fare loro la figura di colossali idioti. Oltre che assassini.
Perché questo sono stati. E sono tutti quelli come loro: degli stupidi cazzoni e assassini.
Non sono figure mitiche, gente che ha intravisto la verità, o angeli ribelli al sistema e alla dittatura dei potenti, sono dei vermi.
E in un mondo ideale quella è la fine che dovrebbero fare. Tutti.
Un mondo con Sharon Tate e senza idioti assassini sarebbe stato di sicuro migliore.

Ciao, Quentin. Alla prossima. E grazie.

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