Hardware (1 di 2)

Germano Hell Greco
M E L A N G E
Published in
6 min readSep 12, 2018

Ancora una volta, qualcuno giunge in città. Arriva da lontano e porta con sé frammenti di horror.
Di quell’horror atipico — ma in verità classicissimo — che è Hardware.
Indossa un cappellaccio, è in ombra e somiglia, se ci fate caso, al regista.
Richard Stanley è una personalità atipica, come questo horror, difficile, riottosa. A ventitré anni circa se ne andava in Afghanistan a filmare il ritiro delle truppe Sovietiche e l’ascesa del regime talebano.
L’anno successivo tornava a Londra e convinceva Iggy Pop, Lemmy e Carl McCoy a firmare dei camei nel suo film, frettolosamente liquidato (e quando mai la critica coeva non è frettolosa) dalla critica del tempo come un rip-off di Terminator.
Perché c’era un robot assassino.
E c’era una damsel in distress, la donna in pericolo.
Solo che Stacey Travis, la Jill del film, è l’antitesi di Sarah Connor (quella del 1984) non porta in grembo la salvezza del genere umano, ma (in un certo senso) la sua stessa fine; è anima di un’epoca proiettata in un futuro distopico, tra le altre cose, è quella carne bramata da tutti, soprattutto dal robot.
E il cyborg stesso è una macchina di morte, creata, ma si potrebbe dire generata, dato che ha facoltà di autoripararsi cambiando la propria forma alla bisogna, da altri uomini per eliminare gli scarti di una società problematica e decadente.

Carl McCoy è lo straniero in ombra che arriva in città, ha ripescato un robot a pezzi in un territorio desertico contaminato da radiazioni, e l’ha portato a vendere, incocciando in Dylan McDermott (Moses Baxter), avventuriero dalla scarsa fortuna, ma innamoratissimo di Jill, alla quale quest’ultimo decide di portare in regalo proprio quel mucchio di ferraglia cibernetica che lei, artista, saprà di certo integrare in una nuova, splendida forma.
Stanley gioca con le citazioni, attribuisce una frase biblica, quel no flesh will be spared (Marco 13) a un robot senz’anima, che ha lo stesso nome di uno degli evangelisti, Mark 13, progettato per distruggere proprio quella carne, e la modifica un po’ alla bisogna, la vera citazione biblica è there should no flesh be saved, Marco 13:20. È la classica lente deformante, attraverso la quale ci è mostrato l’orrore di Hardware.
Un horror che esplode in una ipercromia rossa, da colpo di calore, che fa vibrare l’aria.
Horror atipico nel setting, futuristico/cibernetico: cyberpunk. Ma classico nell’evoluzione.
Stabilito il teatro, un futuro inquinato, con la schiuma abbondante che copre i fiumi, la pioggia acida che consuma la pelle, la radioattività che rende sterili o regala il cancro;
stabilito il mezzo, un cranio metallico, simbolo di morte fredda;
non resta che eleggere la nemesi, il contraltare, soprattutto simbolico, che deve indurre lo scontro manicheo liberatorio: Jill.

Jill che, dicevamo, non è una damigella bisognosa d’aiuto. Jill è la forgia della vita, ancora, nonostante intorno a lei il mondo si consumi piano.
È quella pulsione testarda verso la vita che è propria della spinta evolutiva stessa.
È desiderata, a distanza, dal vicino di casa feticista, che gronda sudore untuoso e saliva mentre la spia e la possiede; dal suo uomo, nonostante giochi la sua vita nel deserto nella speranza di raccogliere qualche tesoro che possa permettergli di fare il colpaccio; e dal Mark 13, che individua in lei il fine ultimo della sua programmazione.
Jill crea opere d’arte e, naturalmente, può generare figli.
Genera a colpi di martello e saldatore la sua possibile fine, il suo nemico, la sua morte probabile, innestando la testa inanimata del Mark 13 (che può trarre l’energia necessaria al proprio sostentamento da ogni cosa) in una creazione artistica su commissione.
Siamo di fronte a una rilettura originale del mito del Golem, piccolo nucleo d’orrore classico, rivisitato e contaminato dal cyberpunk, con la creatura che si ribella al creatore non perché già ammorbato dalla sua esistenza misera (“Niente è peggiore di avere una vita che non è una vita!”, avrebbe detto Leon Kowalski per bocca di Brion James in Blade Runner), ma perché ben cosciente del fine ultimo della propria: la morte di ogni creatura vivente.
Jill plasma il metallo, è carne pulsante che piega l’inanimato alla propria volontà, inanimato che si anima e pretende, serpente che si morde la coda, quella medesima carne.

Marco 13 è il tredicesimo capitolo del Vangelo di Marco, nel Nuovo Testamento. Questo prima di diventare il nome di un robot assassino.
È il capitolo in cui Gesù predice la distruzione del Tempio di Gerusalemme.

Tempio che, dopo la distruzione, lui avrebbe fatto risorgere in tre giorni.
Passo simbolico, naturalmente, dove il simbolismo è contenuto nelle stesse parole di Gesù, che riferisce non al tempio di pietra, ma al proprio corpo.
Attribuire medesimo nome a un robot che, guarda caso, “risorge”, è indice di precisa volontà di annientamento della specie.
Il Mark 13 è atto alla distruzione: l’opposto del Corpo di Cristo, che avrebbe significato salvezza di quella stessa carne che invece il robot deve distruggere.
Non deve meravigliare questa forte influenza religiosa. Richard Stanley ne è imbevuto, fin da bambino, di questa e delle millenarie tradizioni misteriche africane, che in un determinato momento della storia vennero contaminate, in quel duplice processo di inculturazione e acculturazione, dai predicatori cristiani.
Sembrerebbe quasi che Hardware nasca su basi storiografiche ben precise, proiettate in un futuro distopico, percepito come ineluttabile, e con intenzioni al di là dell’immediato intrattenimento.
Ed è anche possibile, conoscendo la complessa personalità del regista.

Eppure, la storia di Hardware è nata altrove, per mano di altri autori, quando, sulla rivista inglese 2000AD, comparve una storia a fumetti intitolata SHOK!.
In essa Mike, un avventuriero, omaggia la sua fidanzata, Lyn, della testa di uno Shok Trooper Robot. Testa che lei riciclerà in una composizione artistica.
La testa dello Shok Trooper si riattiverà e, una volta ricompostosi in una forma offensiva, tenterà di ucciderla.
Il Mark 13 è la negazione della vita stessa. E non solo perché allergico all’acqua, che poi è lo stratagemma che consente a Jill di sopraffarlo, o perché programmato per uccidere: esso è un’allegoria della carne, pur essendo metallo; cerca ripetutamente di uccidere Jill penetrandola con un fallo rotante, in un atto che trascende la propria natura per capovolgerla.

Il robot veste le stelle e le strisce; questa è una peculiarità unica del film. Neanche troppo incomprensibile, se la riportiamo al periodo storico: 1990, un anno dopo Reagan, un anno dopo Bush senior, e tutta una serie di scelte politico-economiche ben determinate.
Quei colori così familiari, celebrati al cinema dalla cultura pop, all’apice della Guerra Fredda, del conflitto combattuto a colpi di propaganda retorica, anche coi guantoni di Rocky Balboa, contro il rosso di quelli dall’altra parte della cortina, che adornano il capo del Mark 13, uniti al significato biblico, anch’esso ribaltato, come il suo pene cibernetico, sanno di feroce ironia.
Ma non solo, sempre considerando questa sorta di trasfigurazione religiosa, ricordiamo la liturgia attraverso la quale il Mark 13 rinasce.
È un mondo, quello di Hardware, non solo inquinato, ma aberrante, in cui la violenza non è solo combattuta in guerre devastanti che riducono il mondo a un deserto radioattivo, ma che serpeggia in ogni settore, a cominciare dai mass-media.
E così, Jill si sveglia in piena notte, cercando ispirazione e accendendo la TV, dove un soldato tedesco giustizia un prigioniero ebreo, che precipita nella fossa che ha appena scavato. Il Mark 13 nasce da cupe suggestioni, con una corona di piccole bambole bruciate dalla fiamma del saldatore.
È la creazione della propria nemesi.
Nemesi che cerca di tornare nel ventre materno, per distruggerlo, per evitare una nuova resurrezione attraverso il DNA.

(fine prima parte)

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Germano Hell Greco
M E L A N G E

Kick-Ass Writer. Short Tempered Blogger. Editor in chief.