Il quartiere residenziale di Babele — considerazioni su Vivarium

Nicola Laurenza
M E L A N G E
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7 min readMay 18, 2020

“Lui lo sapeva prima ancora di entrare. Sapeva che in quella casa c’era la morte. Era quel genere di silenzio.”
(Ray Bradbury — La falce)

C’è un meraviglioso racconto di Ray Bradbury intitolato “La falce” (The Schythe), scritto nel 1943. Lo ritrovate in varie antologie, dai “Cento racconti” a “Halloween”, entrambi usciti per Mondadori. È la storia di Drew Erickson, uomo qualunque con moglie e bambini che un giorno, apparentemente per puro caso, si perde mentre è in viaggio con la famiglia nelle sterminate e sempre uguali strade americane. Ha appena finito la benzina ma si imbatte in una fattoria con una casa bianca e di fianco un vastissimo campo di grano. I bambini hanno fame. È probabile che sia una famiglia con gravi problemi economici. Drew decide di entrare in quella casa dopo una breve resistenza. Scopre che chi la abitava è deceduto: in una stanza c’è un letto con sopra un vecchio vestito a lutto, con una spiga matura tra le mani e una falce poggiata al muro. Un biglietto sibillino lasciato dall’anziano (si firma John Buhr) dice che lascia in eredità la casa e il campo di grano all’uomo che verrà. “Sua la falce, e suo il compito destinato alla stessa”. A Drew Erickson sembra tutto troppo bello per essere vero: la fattoria è un idillio insperato. Lui e la sua famiglia avranno di che vivere, la dispensa è piena, il grano quasi maturo… Il quarto giorno Drew Erickson inizia a mietere il grano. E da quel momento in poi si rende conto che non può più lasciare la fattoria. Che ha ricevuto un compito in eredità, ed è uno di quei lasciti che una volta accettati (ma ha mai avuto la possibilità di scegliere?) vanno continuati fino alla morte. Perché quel grano non è grano normale, quella falce non è una falce qualunque: a ogni mietitura, Drew uccide delle persone. È diventato l’allegoria della morte. Se ne rende conto lentamente ma quando realizza non importa cosa intenda fare: ormai non può più fare altro che continuare a falciare ogni giorno, anche se le spighe rappresentano i suoi familiari, fino alla fine dei suoi giorni, fino alla sua ultima falciata, prima che un altro erede giunto lì per puro caso o per scelta di chissà cosa lo sostituirà…

VIVARIO (Vivarium; ζωγρεῖον, ϑηριοτροϕεῖον). — Con questa parola che, all’età di Augusto, sostituì l’antico nome di leporarium (originariamente “allevamento di lepri”, ma poi usata con più larga accezione), i Romani indicarono quei parchi o recinti in cui venivano mantenuti, allo stato naturale, animali selvatici e fiere; nonché i vivai, vasche per l’allevamento dei pesci (vivaria piscium; piscinae). Si ricorda, come primo parco del genere, quello di Q. Fulvio Lippino (Varrone, De re rustica, III, 12), ricco proprietario del tempo di Cicerone, poi quelli di Lucullo e Ortensio. Erano specie di riserve di caccia, dell’estensione di 10 o più ettari, per lo più di terreno boschivo, con alte mura di cinta, bacini d’acqua in opus signinum, ecc. Il guardiano (custos vivarii) aveva cura d’integrare il nutrimento naturale, quando non era sufficiente, badava alla riproduzione e, eventualmente, alla vendita degli animali: per lo più daini, gazzelle, cervi, caprioli, cinghiali, onagri, selvaggina di cui i Romani erano ghiotti. In speciali recinti si tenevano lepri (leporarium), ghiri (glirarium), ecc. Col tempo l’uso del vivario si estese; non più limitandosi alle esigenze pratiche di una mensa pur raffinata, ospitò fiere d’ogni genere e fu una delle tante espressioni spettacolari del lusso della società romana. L’affermarsi e l’estendersi di quest’uso rivela probabilmente influssi orientali (il παράδεισος annesso alla reggia dei re persiani era una specie di giardino zoologico), e si riconnette con il costume della venatio, spettacolo di caccia, che era venuto di moda a Roma e nelle provincie dal 186 a. C. (dall’Enciclopedia Italiana Treccani)

Se sono partito da una storia di Bradbury per illustrare un film del 2019 non è perché “Vivarium” dell’irlandese Lorcan Finnegan sia tratto da questo racconto specifico, ma perché ci sono dinamiche fatalistiche che lo ricordano: in particolare lo sradicamento di un nucleo famigliare che sembra destinato a un esperimento senza fine, da cui non si può scappare, per fini che sembrano tanto necessari quanto imperscrutabili da parte di… non si sa chi. Entità divine? Aliene? Ma ha importanza davvero, poi?

In Vivarium c’è una coppia qualunque, Gemma e Tom, che sta cercando casa per iniziare una vita insieme. Si ritrovano in un’agenzia immobiliare dove incontrano lo stranissimo Martin, che li porta nel quartiere periferico appena costruito di Yonder. Qui lo scenario è da subito inquietante: case verdi con cortiletto tutte uguali, come scatolette messe una affianco all’altra, o casermoni di un lager — che ricordano quel lato conformista e artificioso, ricettacolo di perversioni e sadismi, mostrato dai tanti autori visionari (dal Tim Burton di Edward mani di forbice al David Lynch di Velluto blu, per arrivare al recente Ari Aster, che pure ama mostrare le abitazioni come fossero case di bambole: involucri spersonalizzati che coprono l’orrore puro.

Martin li conduce nella residenza numero 9 e qui illustra le stanze sempre nel suo modo inquietante.
Poi scompare.
Gemma e Tom provano a uscire dal complesso residenziale ma si ritrovano sempre allo stesso punto, alla casa numero 9, come se quella porzione di terra fosse un’isola senza collegamenti col resto del mondo (un’immagine che ricorda vagamente quella de La Casa di Raimi). Finiscono la benzina. I cellulari non hanno campo. La situazione è statica. Poco dopo iniziano ad arrivare delle scatole portate da chissà chi, in cui è contenuto del cibo e dei servizi igienici. E accadono cose ancora più strane e innaturali: non c’è vento, non ci sono rumori; Gemma e Tom sembrano essere le uniche persone lì, e per quanto provino ad allontanarsi le geometria e le leggi fisiche sembrano funzionare in modo diverso dal solito. Fino a quando non trovano un pacco ai bordi della strada, con dentro un neonato e un messaggio: “Crescetelo e sarete liberi”.

Vivarium è un film perturbante da manuale: ogni aspetto della nuova esistenza minimalista di Gemma e Tom è una parodia di quella che dovrebbe essere una vita normale (vedi Kynodontas di Lanthimos); ne raccoglie degli aspetti superficiali ma sotto la patina non c’è nulla di familiare, bensì una coltura da laboratorio. Non hanno scelta nella gestione delle loro giornate sempre monotone e grigie, eppure sono forniti di tutti i confort necessari alle ambizioni di una giovane coppia. Casa, cortile, cibo, aria pulita, persino un bambino: il sogno comune di ragazzi comuni. Ma la casa è una prigione, il cortile è composto di una terra che sembra plastilina, il cibo è inviato arbitrariamente tramite scatole, l’aria è pulita ma non si comprende se e da dove arrivi. Il sole e le nuvole in cielo — sempre le stesse, non piove mai, non c’è mai un ricambio atmosferico, solo il giorno e la notte si alternano con fissità priva di sfumature — sono altrettanto falsi, come fossero dipinti, laddove Yonder (che sembra estendersi in modo infinito e indefinito come la borgesiana biblioteca di Babele) sembra una sadica riproposizione del Truman Show di Weir, ma fatto per telespettatori alieni. Persino il bambino inviato nella scatola che a una prima, velocissima occhiata sembra così normale all’aspetto, rivela subito una natura profondamente diversa: non piange, non cambia mai espressione. E in tre mesi raggiunge la statura e il fisico di un bambino di sette/otto anni. Con una voce che imita perfettamente quella dei loro “genitori”, e comportamenti che di umano non hanno molto.

Forse ho già detto troppo, rivelando molte delle dinamiche di un film che in sé non cova davvero alcuna sorpresa: ma è in questo loop claustrofobico, nel labirinto/laboratorio per topi privo di uscita per chissà quante altre cavie (come viene rivelato in una sequenza straordinaria) che si trova il motivo per cui Vivarium angoscia davvero. Riporta l’animale uomo alla sua condizione di esperimento orchestrato da qualche entità che non sembra avere scopi comprensibili e imita in modo scomposto l’uomo solo per reiterare un meccanismo sempre uguale, imperscrutabile, potenzialmente infinito. Sembra di essere in qualche episodio di The twilight zone, uno di quelli davvero belli, dove la speculazione sulla natura dell’uomo si alterna a un sadico gioco pirotecnico di momenti weird, dove i fake plastic trees sono lo scenario di un campo infinito di grano in cui le spighe che potrebbero essere falciate domani potremmo essere noi. E in fondo, sappiamo davvero che cos’è un essere umano?

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