Il Signor Diavolo [romanzo del gotico maggiore]

Germano Hell Greco
M E L A N G E
Published in
4 min readOct 14, 2019

Il Signor Diavolo l’ho letto durante l’estate appena trascorsa, in due pomeriggi assolati. Ed è ancora lì che, come l’estate, lascia strascichi e non s’arrende. Non s’arrende alla realtà. Vuole starsene in bella vista sullo scaffale e urlare che lui, col film, non c’entra nulla.
Perché è venuto prima, per cominciare.
E io sto qui a arrovellarmi e a cercare di non risultare tranchant. Non troppo.

M’arrovello soprattutto perché io mi sono arreso e voglio scriverlo, senza equilibrio: Avati ha sbagliato.
Avrebbe dovuto fare lo scrittore.
Perché se il film sembra, ed è così, un brutto sceneggiato RAI, che quasi con vergogna mette in bocca a un brutto attore una protesi dentaria pescata in qualche bustone di patatine e la spaccia per orrore, il romanzo è tutto ciò che il film voleva essere e non è.

Il Signor Diavolo, romanzo del gotico maggiore (edito da Guanda) non è solo un horror rurale, o padano, non è un “libbro de paura”, è quello a cui siamo disabituati in quest’epoca di analfabetismi progressivi, è la storia di un vinto, il suo protagonista, Fulvio Momenté.
Un vinto alle prese con l’Orrore. Quello grande, incomprensibile, che può solo essere sfiorato e mai compreso, tanto meno sconfitto.
Quello che ti scava solchi nella mente, che ti stria di bianco i capelli. Che ti cambia.
La storia di un passato, quel dopoguerra cadenzato dalla dittatura morale democristiana, che ci ha imposto il way-of-life posto fisso, casa, famiglia, Fiat Cinquecento, villeggiatura che sfuma sempre più, coi suoi importanti significati e innegabili influenze. Se oggi siamo quello che siamo lo dobbiamo anche allo Scudo Crociato, nel bene e nel male. È ingiusto che se ne perda il ricordo.

Ma il ricordo di quel periodo storico, per l’appunto, Avati lo conserva ancora. Insieme alla suggestione che, laddove la terra da coltivare e strappare alle paludi e la storia anche più antica risuonano più vive, dove il confine col mondo altro s’assottiglia, è proprio nella campagna che, in qualche modo, l’orrore si cela, sonnacchioso, a negare il positivismo e ad asserire dominanza sulle passioni umane.
La storia di un mostro umano, tenuto nascosto per la vergogna, e di un coetaneo che per paura, superstizione e forse anche odio puro, lo uccide.
Aiutato, si vocifera, nell’atto criminale, dagli spiriti dei morti.
Chi frequenta la campagna sa benissimo che queste storie si sussurrano ancora oggi. La campagna resiste. Quell’irrazionale scaturito dal sonno della Ragione non si mette mai a dormire, specie in campagna.

Ma Il Signor Diavolo è la storia di un fallito, dicevo. Quel Momenté che è un uomo qualunque, schiavo volontario dell’apparato dello Stato, ingranaggio sacrificabile, uomo d’argilla che si fa mantenere dalla moglie che si prostituisce, e che incontra un uomo più uomo di lui, lasciandolo alla vergogna di una reputazione che già di suo stava in piedi con lo sputo.
Ecco, l’uomo qualunque che incontra il sovrannaturale, o l’irrazionale e che, sull’orlo della disfatta totale, esige di far luce su un mistero che, per sua stessa natura, non interessa più a nessuno.
Né allo Stato, che vuole solo metterci una pezza per assicurarsi i futuri voti di un mondo in ricostruzione dalla guerra, né ai locali, ché sanno bene che queste faccende è meglio dimenticarle e in fretta.
A Fulvio Momenté, invece, la verità irrazionale in un mondo così razionale che lo sta calpestando intriga. Essa costituisce, lo capisco bene, quasi elemento salvifico per una mente che il mondo così com’è lo rigetta in toto, che non lo comprende affatto.
E l’irrazionale, come ci si aspetta, è cattivo, affamato. Fa male.

Avati è un ottimo scrittore. E il romanzo va letto come opera a sé stante. Dimenticatevi del film, perché leggendo il Signor Diavolo ne vedrete un altro, compiuto, sottilmente inquietante, colmo di odori e passioni sfiorite, di umanità e di quel gotico così caro a Avati stesso e a sempre meno di noi.

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