La catarsi della Regina di Maggio — MIDSOMMAR

Kara Lafayette
M E L A N G E
Published in
10 min readAug 14, 2019
Adam Juresko

AVVERTENZA SPOILER LIBERI E FELICI SPARSI QUA E LÀ!

Ancora Midsommar? Sì, ancora. Ci tengo a raccontarvi la mia storia. Una domenica sera vado al cinema per vedere il secondo lungometraggio di Ari Aster, accompagnata da Germano e da un notevole bagaglio di aspettative. Il film inizia e da un certo momento in poi — ovvero dall’arrivo del gruppo di ragazzi al villaggio svedese — due poveri stronzi in sala iniziano a ridere scompostamente. Quel tipo di stronzi che se vedono il disegno di una vagina che sanguina non ce la fanno e si rotolano dal troppo ridere. Questo non è un aspetto poco importante per parlare di Midsommar, ma ci torno dopo. Alla ormai celebre danza della protagonista il film si interrompe, a causa dell’audio scassato. Ci è voluto almeno un quarto d’ora per capire se il problema potesse essere risolto. Il giovanotto del cinema, mentre smanettava con l’impianto audio, ha confessato: “Non riesco mica a capire se stanno parlando o no, è un film troppo strano.” (questo perché le musiche si sentivano, ma non i dialoghi). Quindi glielo dico un po’ bruscamente, perché nel mentre, i soliti stronzi, non smettevano di ridere, che no, fidati, stanno parlando, ci sono i sottotitoli, non vedi? Stanno parlando e non si sente. Morale della favola, me ne vado a casa sotto la pioggia con Germano, col biglietto rimborsato e col mio bagaglio di aspettative sostituite da rabbia e frustrazione. Come direbbe Earl of Lemongrab:

Ora ve la faccio breve. Sono riuscita a vedere il finale, in pessime e tortuose condizioni, ma l’importante è averlo visto tutto, cosicché io possa dirvi esattamente cosa penso di Midsommar. Dani (da dove spunta Florence Pugh? Incantevole, bravissima attrice inglese) è la protagonista, tutto il film è incentrato su di lei, su colei che porta il peso di un lutto dal dolore inenarrabile. Si parte con una telefonata tra lei e il suo ragazzo Christian (Jack Reynor — visto nella serie Electric Dreams — , molto convincente nell’essere odioso), primo piano di Dani ripreso dal basso. È importante perché noi siamo obbligati a osservare lei, il suo viso, le sue espressioni, mentre ascoltiamo la conversazione. Quella telefonata chiarisce subito la natura del rapporto tra i due: lei subordinata a lui, succube a causa delle manipolazioni che le impartisce. Capiamo nel giro di pochissimo che Christian non la ama, anzi, ne ha piene le scatole di lei e della sua costante ansia nei confronti della sorella bipolare, liquidando le crisi della sorella come una delle sue tante richieste di attenzioni. Solo un vile può definire una malattia mentale come un capriccio. Ho già i brividi, disprezzo Christian e non l’ho ancora visto in faccia.

Il passo successivo è conoscere l’omuncolo in compagnia dei suoi amici, sono tutti studenti dell’università e parlano di Dani come di una zavorra da cui il loro amico deve liberarsi. Simpatici, eh. Poi arriva la tragedia personale di Dani, passano i mesi e Christian ancora non l’ha lasciata, perché poverina, dopo quello che ha passato. Un pusillanime doc. Lui programma un viaggio in Svezia, con tappa al villaggio dell’amico Pelle (Vilhelm Blomgren), lei ne viene a conoscenza chiacchierando coi suoi amici e giustamente ci rimane male e attenti, la scena della discussione con Christian è fondamentale per decifrare lo stato psicologico di Dani. Lei azzarda una protesta, lui si difende rigirando la frittata e facendola sentire in colpa. Magia della manipolazione. Lei non può MAI espellere le emozioni che prova, è costantemente tesa, rigida, si deve nascondere per piangere e anche quando lo fa, non si abbandona mai completamente. Non lo so se vi è mai capitato di vivere qualcosa del genere (a tutti gli effetti una relazione fondata sull’abuso — no, non è necessario prendersi le botte per esserne vittima), lutto devastante a parte. A me sì e non ho potuto fare a meno di sentire il disagio di Dani nello stare praticamente ovunque, nessun posto è casa, la persona che ami è un iceberg, nessun punto di riferimento, niente. Dani è persa, è prigioniera del suo dolore, non ha uno scopo, né un’identità. L’unico che la degna di piccole attenzioni e gentilezze è Pelle. Dani si unisce al viaggio in Svezia, con lo scazzo di tutti ad accompagnarla, tranne, appunto, Pelle, che ne è sinceramente contento.

Da qui in poi i ragazzi famigliarizzeranno coi locali, alla luce di un sole che abbaglia, tornare indietro non è più possibile. Lo sappiamo noi che assistiamo all’imminente disastro, immersi negli infiniti prati verdissimi, tra fiori, abiti bianchi, rituali pagani allegri e spensierati dell’accogliente setta degli Hårga. Come fanno, direte voi, a non intuire nulla i ragazzi venuti da fuori? Ci sono disegni che raffigurano stramberie varie, simbologie sconosciute, un sacco di droghe allucinogene. Il punto è che sono stati portati lì dall’amico Pelle, un’altra coppia da un altro membro della setta (coppia affiatata, a differenza di Dani e Christian, infatti sparisce subito), sono lì in vacanza, per festeggiare qualcosa che Pelle ha descritto come molto importante nella sua tradizione, un evento che avviene ogni novant’anni, festeggiato per nove giorni. Fare festa è il motore che spinge i ragazzi a restare lì, anche dopo aver assistito al primo, sconvolgente sacrificio. Vi pare strano? A me non più di tanto. Se la prima reazione istintiva è di ribrezzo, basta una tavolata imbandita, un po’ di birra e passa tutto.

Josh (William Jackson Harper, se avete amato pazzamente la serie The Good Place lo avrete certamente riconosciuto), il ragazzo nero della compagnia, è studente di paleontologia ed è lì anche per la tesi. Lo sconcerto iniziale cede subito per dare spazio all’esigenza di fare un ottimo lavoro. L’ambizione sconsiderata infastidisce in modo particolare un membro della setta e ciò non lo aiuterà. Mark (vi ricordate Bandersnatch, l’episodio scioccherello di Black Mirror? Ecco, il programmatore tossico è lui, Will Poulter), quello che è lì solo per bere e drogarsi e urinare sull’albero sacro del luogo, è il classico essere umano disinteressato a ciò che gli accade intorno, viziato e vizioso, quello che forse capisce qualcosa solo con le cattive. È un imbecille. Un pagliaccio (non a caso, nel rogo finale, il pupazzo di paglia con la sua faccia squartata indossa un cappello da giullare). Di cosa vi stupite? Mi pare che ne siamo circondati. E infine Christian, il più subdolo, squallido, tanto da arrivare a comportarsi vigliaccamente anche nei confronti di Josh, in teoria suo amico. Quel tipo di persona che venderebbe la mamma ai cannibali pur di salvarsi la faccia e di stare sopra come l’olio. Tutti loro sono, in qualche modo, stati sedotti da Pelle, che ha l’aria del ragazzo per bene, dai modo gentili, pacato, sorridente. Quello che fa placare gli animi agitati, che sta attento ai dettagli, che ti comprende. Che ti accoglie. L’apparente accoglienza della setta è ciò che ha permesso ai ragazzi di entrare, gozzovigliare e di non tornare più a casa, perché necessari alla realizzazione del rito.

La festa di Mezza Estate pretende dei sacrifici umani e servono volontari e persone nuove, per portare avanti la specie. Il ciclo vitale all’interno degli Hårga prevede un ricambio generazionale. A settantadue anni hai finito di campare. C’è bisogno di nuovi semi, ché mica ci si può accoppiare sempre tra consanguinei e generare Ruben, l’oracolo che tutto sa. È tutto già scritto e anche simbolicamente rappresentato nell’arazzo dove dormono, quello che ha fatto tanto ridere i due stronzi al cinema, perché rappresenta una ragazza che compie un rituale ben preciso: sangue mestruale e un pelo pubico da far bere all’uomo con cui sceglie di accoppiarsi. E infatti succede proprio a Christian, che a un certo punto mi è parso quasi totalmente passivo e arreso al susseguirsi degli eventi. Ma torniamo a Dani e al suo divenire Regina di Maggio. Pelle l’ha scelta, a quanto pare, cogliendone il valore. È lui che le porge le condoglianze, è lui che la fa sentire a suo agio, è lui che si ricorda del suo venticinquesimo compleanno.

Midsommar è il viaggio fisico e spirituale di una donna intrappolata nel più infido dei mali, quello della solitudine. Vince la danza e viene incoronata, quello è il momento della consacrazione e la parte finale del film che a molti non è piaciuta. Io l’ho trovata perfettamente coerente, tutto era già stato annunciato (ma d’altra parte questo è il giochino che Aster ha fatto anche in Hereditary, con la casa delle bambole, vi ricordate?), ora possiamo solo assistere a come avvengono i sacrifici e alla catarsi di Dani che finalmente affronta e sfoga le sue emozioni. Ciò che avviene nel villaggio è l’apoteosi della condivisione. Il rapporto sessuale di Christian a scopo fecondativo viene vissuto in comune con le donne del villaggio (quelle più “anziane”, se non sbaglio), completamente nude, che incitano l’amplesso e spingono letteralmente Christian dentro la giovane Maja (Isabelle Grill, un’altra giovanissima da tenere d’occhio), mentre dall’altra parte Dani urla tutto il suo dolore, la sua rabbia, la sua disperazione, non tanto per aver visto Christian profanare una vergine — quello semmai è stata la fantomatica goccia — , ma per essersi sentita parte di una famiglia (“Ora sei della famiglia”, le dicono), di un nucleo, di una comunità. Le sue grida sono condivise con le altre donne, tutte urlano con lei inscenando quasi una sorta di parto e possiamo dire che Dani partorisce, espelle quel groviglio di angoscia che l’aveva fatta ammalare. Ed è meraviglioso.

Il suo volto imbronciato mentre guarda Christian bruciare insieme agli altri ragazzi sacrificati e a un paio di volontari della stessa setta, comunica tutto il suo disprezzo, il suo disgusto, la sua delusione, per poi lasciarci con quel sorriso pieno. Come dicevo, la catarsi è avvenuta. La Regina di Maggio è pronta.

Ari Aster maneggia il grottesco (perché in alcuni momenti Midsommar lo è) con grande maestria, conosce l’horror e i suoi meccanismi più stratificati, ha un messaggio sempre molto chiaro da mostrarci. Credevamo di arrivare al villaggio degli Hårga e trovarci il male assoluto, ma forse Ari Aster ha voluto dirci qualcos’altro, altrimenti non avrebbe creato quell’essere disgustoso di Christian. E quindi il cattivo è lui, il vero simbolo della disumanità prodotta dalla mancanza di empatia verso gli altri. E se a quei due stronzi in sala con me ha fatto tanto ridere, me ne dispiaccio. Però vorrei dir loro una cosa molto saggia, citando Otis de La casa dei 1000 corpi: “Non si va in posti che non si conoscono con la puzza sotto il naso.”

Posso capire, però, che Midsommar risulti fastidioso coi suoi 140 minuti di danze, rituali e discorsi strambi. Corpi che indossano tuniche bianche, fiorellini ovunque, corpi nudi e imperfetti, urla, gemiti, possono respingere e il meccanismo di difesa più immediato è la risata. Come successe con il balletto in The O.A., tutti a ridacchiare. Non siamo abituati a lasciarci andare, a condividere senza vergogna le nostre emozioni, ci imbarazziamo, ci sentiamo inadeguati. Lasciarsi andare, usare il corpo come linguaggio, come via di comunicazione e condivisione: ecco che ritorna l’empatia, il vero fulcro di Midosmmar.

L’empatia è la capacità di comprendere appieno lo stato d’animo altrui, sia che si tratti di gioia, che di dolore. Il significato etimologico del termine è “sentire dentro”, ad esempio “mettersi nei panni dell’altro”, ed è una capacità che fa parte dell’esperienza umana ed animale.

La parola deriva dal greco antico “εμπαθεία” (empatéia, a sua volta composta da en-, “dentro”, e pathos, “sofferenza o sentimento”), che veniva usata[Quando? In che contesto?] per indicare il rapporto emozionale di partecipazione che legava l’autore-cantore al suo pubblico.

Il termine empatia è stato coniato da Robert Vischer, studioso di arti figurative e di problematiche estetiche, alla fine dell’Ottocento. Tale termine nasce perciò all’interno di un contesto legato alla riflessione estetica, ove con empatia s’intende la capacità della fantasia umana di cogliere il valore simbolico della natura. Vischer concepì questo termine come capacità di sentir dentro e di con-sentire, ossia di percepire la natura esterna, come interna, appartenente al nostro stesso corpo. Rappresenta quindi la capacità di proiettare i sentimenti da noi agli altri e alle cose, che percepiamo.

Il termine empatia verrà utilizzato da Theodor Lipps, il quale lo porrà al centro della sua concezione estetica e filosofica, considerandolo quale attitudine al sentirsi in armonia con l’altro, cogliendone i sentimenti, le emozioni e gli stati d’animo, e quindi in piena sintonia con ciò che egli stesso vive e sente. (Fonte Wikipedia)

Se Midsommar vi ha lasciati perplessi o delusi, riprovateci tra un po’ di tempo, provate a superare lo scoglio dell’imbarazzo (non è una colpa, perché è effettivamente una questione complessa) e lasciatevi andare. Entrate in contatto con Dani e, forse, lo apprezzerete.

Se invece vi è piaciuto tantissimo come a me, facciamo un brindisi! Skål!

Va detto che il doppiaggio è agghiacciante (ma poi villaggio dei dannati cosa? COSA?), sembra ormai diventato un luogo comune, ma purtroppo è la verità, dimostrata nei momenti in cui il cast svedese parla nella propria lingua e ci sono i sottotitoli. Non appena torna il doppiaggio l’imbarazzo regna prepotente, roba da tapparsi le orecchie. Penso che questo aspetto abbia contribuito non poco a suscitare ilarità. Però da qui a sganasciarsi senza ritegno, beh, ce ne passa.

Ah, un’ultima cosa. Ari Aster ha preso spunto dalla cultura scandinava, alcuni rituali non sono frutto solo della sua fervida immaginazione. Vi viene ancora da ridere?

Melange va in vacanza (non in Svezia ^◡^), ci si rilegge a settembre. Buon Ferragosto e buone ferie!

(っ^▿^)۶🍸🌟🍺٩(˘◡˘ )

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