[Quinto Elemento]: Hollywood(land)
Hollywood (di Ryan Murphy, Ian Brennan, Darren Criss, etc…) sembra sia stata concepita per triggerare i portatori d’un moralismo sciatto e, ahimé, di ritorno. Quelli che “io non sono omofobo, ma… il fatto che Netflix produca telefilm con protagonisti omosessuali, beh…”.
La miniserie in sei episodi, disponibile su Netflix, sembra concepita con l’unico intento di rottura dell’equilibrio sociale.
Sembra.
Perché protagoniste sono le minoranze, così detestate dai benpensanti: omosessuali, aspiranti scrittori e attrici di colore, asiatici e registi dall’etnia mista. Tutti con l’ambizione di sfondare a Hollywood, sotto l’egemonia bianca caucasica.
La Hollywoodland del secondo dopoguerra, ultra-conservatrice e tradizionalista, che avrebbe — per forza di cose — imposto l’american way of life al mondo intero, a colpi di Ford metallizzate, padri di famiglia in giacca e cravatta a lavoro da mane a sera, accolti al loro ritorno a casa da american pie appena sfornate dalle loro mogliettine con la permanente perfetta e i guanti da forno. E almeno un paio di figli, tra cui la bambina con rigorose treccine d’ordinanza.
Sembra.
Triggerare vuol dire solleticare facili violenze verbali, reazioni estreme da parte di individui impulsivi, per dir così.
Le minoranze che vogliono farci abituare a forza all’idea che tutto sia normale, non è così che si dice in giro?
A ben guardare, la protagonista della serie non è solo la sete di giustizia sociale e di riscatto, ma proprio quella Hollywoodland, quella “fabbrica dei sogni” che, dall’ombra delle storiche lettere sul fianco della collina che domina la città, è stata da sempre sede di abuso.
E anche questa, non è storia vecchia.
Harvey Weinstein, il Produttore dei Produttori, è stato condannato l’altro ieri, nonostante si sia dichiarato inabile ai movimenti andando a processo con un deambulatore, un coup de théâtre degno dei mafiosi di un film di Scorsese. Per abuso, violenza sessuali, ricatti, etc…
Quindi qual è la storia di Hollywood?
È la storia di una comunità chiusa, gestita da personaggi astrusi tramite leggi eccentriche, e dominata da potenti che, oltre che alla morale, avrebbero dovuto rispondere alla legge.
E questo gioco di piccole sopraffazioni, di scambi di favori sessuali, di tangenti e violenza non risparmia nessuno.
Nessuno, direi.
Uno dei protagonisti, Jack Castello (David Corenswet) aspirante attore, per entrare nel giro giusto è costretto a prostituirsi in una stazione di benzina che oltre al pieno offre altro tipo di servizi.
Insieme all’amico, Archie Coleman (Jeremy Pope) aspirante sceneggiatore di colore. E gay.
Insieme a Rock Hudson (Jake Picking), aspirante attore rigido come un tronco. E gay.
Distributore di benzina gestito da un ex aspirante attore, che ha fallito ed è invecchiato, Ernie West (Dylan McDermott).
Si sono proposti tutti e tre, in tempi diversi, alla Ace Pictures, mandata avanti con pugno di ferro e morale american pie dal suo ricchissimo proprietario e padrone: Ace Amberg (Rob Reiner), uomo del tempo, quello con la moglie a casetta che deve cucinare per lui. E una figlia Claire (Samara Weaving), bellissima certo, ma considerata scema e/o incapace, che deve fare la gavetta per poi fallire, sotto falso nome, alla Ace Pictures, per salvare le apparenze fin tanto che non si rassegni e si sposi un buon partito.
Ace Amberg ha una tresca con una delle attrici sotto contratto per il suo studio: Jeanne Crandall — una rediviva Mira Sorvino (fuori dai giochi anche lei da troppo tempo, anche per colpa di Harvey Weinstein o dei suoi simili). Ne dispone come meglio vuole. Solo che, durante l’ultima sveltina, Ace ha un infarto e la moglie, Avis (Patti LuPone), ne prende il posto alla guida della Ace Pictures.
Quest’ultima, spinta dai più stretti collaboratori del marito (che ne facevano anche da controparte e - talvolta - coscienza) Dick Samuels (Joe Mantello) e Ellen Kincaid (Holland Taylor) decide di riscrivere la storia.
Non solo del cinema.
Producendo un film, intitolato Peg (poi Meg), scritto da Archie Coleman, diretto da Raymond Ainsley (Darren Criss), e interpretato da Camille Washington (Laura Harrier), la prima attrice di colore che avrà un ruolo da protagonista e non la solita comparsata come cameriera di qualche ricca signora statunitense.
Per Ryan Murphy riscrivere la storia è inteso in senso letterale: Hollywood è un’ucronia, che si riallaccia a alcuni personaggi reali (Hudson, Anna May Wong e l’agente di star Henry Wilson) per inscenare un what if lussuoso e appagante.
L’omosessualità, il razzismo e la discriminazione di una società a torto o a ragione conservatrice, che difende il suo potere con aggressività cavalcando l’ignoranza e la paura sono cose che non sono state inventate dai Social Justice Warrior, sono sempre esistite.
Esistevano nella vecchia Hollywoodland.
Esistono nella Hollywood contemporanea, se la vittoria dell’Oscar di Parasite di Bong Joon-Ho è stata percepita come una rottura. A tutt’oggi, anno domini 2020, la vittoria di un coreano a Hollywood è stata vissuta come un evento. No, solo per dire come stiamo messi.
Tornando alla miniserie di Murphy, essa è un ritratto — meno ipercinetico di quanto ci si aspetti, pensando allo stile di Murphy — dell’ammasso di sudiciume che è la fabbrica dei sogni.
Dove l’abuso e la sopraffazione, e il ricatto sono moneta di scambio.
E, insieme, è un’ode alla speranza. La speranza che il coraggio delle idee e le azioni di un manipolo di uomini e donne valorosi possano cambiare la percezione e lo status quo.
Come sarebbe stata la società se quelle idee, che già circolavano negli anni Quaranta, avessero attecchito con decenni di anticipo? Se una coppia omosessuale avesse fatto coming out sul red carpet? Se un’attrice di colore si fosse seduta in prima fila, per ricevere un Oscar? E se Anna May Wong, bistrattata per la sua pelle, avesse davvero vinto quell’Oscar che meritava? E non, al suo posto, un’attrice occidentale acconciata da orientale?
Murphy sposa in pieno la concezione che attribuisce al cinema, e di conseguenza alle immagini, di cambiare i suoi fruitori, perché esso veicola dei messaggi. Fatto che, piaccia o meno, influenza il modo di pensare e di agire di chi quei messaggi si trova a assorbire.
E la natura del messaggio, perciò, è fondamentale.
In chiusura, mi riservo la sola osservazione critica: Henry Wilson.
Come già accennato, uno dei pochi personaggi realmente esistiti in Hollywood. Interpretato dall’ottimo Jim Parsons.
Wilson era uno star-maker, un agente di aspiranti star del cinema, omosessuale e solito chiedere ai suoi protetti favori sessuali perché la loro carriera facesse qualche progresso. Un Harvey Weinstein del suo tempo, per di più convinto, data la morale coeva, di dover essere in qualche modo malvagio e corrotto, visto che la società è così che dipingeva gli omosessuali: come dei dannati peccatori.
Ho trovato ben poco consolatorio il destino del personaggio Wilson. Che pure ha commesso abusi di ogni sorta. Ma che conosce un pentimento tardivo scusandosi con la sua vittima più recente, Rock Hudson, e prodigandosi attivamente per la difesa delle minoranze, pensando, in chiusura, di produrre un film avente come protagonista un omosessuale, interpretato da un omosessuale dichiarato, Rock Hudson.
Lui non fa i conti con la legge come Weinstein, lui è come Darth Vader, gli basta pentirsi per essere mondato dai suoi peccati. Un po’ superficiale, credo.
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