Retrospettiva Sopranos — 1x07: “Down Neck”
- Pussy… Kevin and Matt, they ever ask you about this thing of ours?
- I lied through my teeth, but they knew. Fucking nitwits. They love me anyway.
- It’s hard to raise kids in an information age.
“Ma, per dirla tutta, ci sono bambini che se la cavano meglio senza i padri o le madri. Perché i padri o le madri creano solo problemi” (Don DeLillo — Underworld)
L’idea che dei mobster incalliti possano crescere senza conseguenze i loro figli — conseguenze non solo fisiche, ovvio, ma soprattutto emotive, psicologiche e caratteriali — è peregrina, e per uomini inciviliti e timorosi della legge come noi (assumo che tu, lettore, tenda ad abbassare al minimo la soglia di sociopatia nei tuoi rapporti con il consorzio civile) scontatissima. Eppure coi Sopranos abbiamo scoperto questo: che anche i mafiosi, alla fine del XX secolo, ne sono pienamente coscienti, e a modo loro — ovvero nel modo sbagliato — qualcosa provano a fare per rimediare alla situazione.
Ovvero?
Beh, il solito; negare in continuazione, accennare a piccolissime porzioni di verità (al contempo sommerse da altre enormi bugie), al limite mettere a parte (di parte) del sistema gli affetti con l’aiuto della moglie, sbandierando l’idea tossica che il padre/padrone e maschio alfa faccia ciò che fa per proteggere la propria famiglia. Un occhio all’onore e l’altro a una moralità d’altri tempi.
È anche normale che i mobster debbano venire a patti con il temutissimo discorso da fare ai figli (in altre famiglie conservatrici del 2000 riguarderebbe magari il sesso, ma non qui): coi Sopranos guardiamo una serie ambientata nel nostro universo, dunque con persone che hanno già assorbito i nostri stessi riferimenti culturali e pop. Anzi, li usano per comunicare. Silvio imita Al Pacino nel Padrino III. Paulie Walnuts chiama Coppola “Francis” come fosse amico suo. Ma fino a quando si tratta di cinema il problema è relativo: senza strumenti culturali un pelo sofisticati è semplice confondere Goodfellas come apologia di un certo stile di vita, e la fascinazione che film come Scarface hanno ancora oggi per la camorra napoletana è un luogo comune per chiunque abbia una minima familiarità con Gomorra (che a sua volta non è esente dallo stesso meccanismo di fascinazione). Poco conta l’arco narrativo di una vana ascesa seguita dalla catastrofica caduta: non è quello il punto. Lo stesso discorso si può applicare a tutto il resto del filone cinema-gangster.
Il grande problema dell’anno 1999 — e oltre — per i mobster del New Jersey e dell’Occidente è che comunque non puoi più evitare questo discorso (“Are you in the mafia?”) con i figli: non quando questi hanno a disposizione un internet sempre più diffuso, tg e televisioni ovunque che parlano di genitori e parenti, e compagni di scuola che sanno che lavoro fa tuo padre. Le voci circolano.
In “Down Neck” c’è un’ennesima sospensione della trama criminale orizzontale che questa prima stagione sta portando avanti e si torna, come in “College”, a uno storytelling che cerca di concentrarsi più sulla psicologia e i rapporti ereditari tra padri e figli. È anche il primo episodio dei Sopranos che rompe una regola non stabilita: quella che ha visto Tony e la dottoressa Melfi dialogare nello studio senza che i ricordi del protagonista della serie irrompessero sullo schermo in forma di flashback. Per la prima volta ci sono delle finestre sul passato, più e più volte: e sono il piatto forte della puntata*.
In una serie che fa della psicanalisi e tutto il calderone che ne concerne (memoria, infanzia, inconscio, sogni) il meccanismo principale di narrazione, non sorprende che il flashback sia dedicato ai ricordi di un Tony bambino nel 1967, nei quartieri operai di Newark. Ad innescare il ricordo è l’enorme preoccupazione di Tony Soprano nei confronti del figlio. AJ viene infatti sospeso per tre giorni dalla scuola cattolica dopo essersi ubriacato con del vino consacrato. Lo psicologo della scuola pensa che questo, come altri comportamenti di AJ, possa essere collegato a un possibile deficit dell’attenzione, ma Tony, anche se per vie traverse e senza mai davvero affrontare il problema, teme che il figlio sia condannato a diventare come lui a causa della cultura criminale in cui entrambi (volenti o nolenti) sono stati cresciuti.
È vero: AJ già sospetta che il padre non sia in realtà quello che dice di essere ma faccia parte della mafia. Questo sospetto, unito alle incredibili somiglianze caratteriali dei due (lo scarso rispetto delle regole in primis) allarmano Tony, che ricorda dunque la sua infanzia e la maniera traumatica (ma negherà sempre di aver subito dei traumi) in cui è venuto a conoscenza della vera natura del padre Johnny e dello zio Junior. E se in questi flashback non assistiamo a omicidi abbiamo comunque un quadro terribile della situazione: pestaggi — la scena ricorda il primo pestaggio in assoluto visto nell’episodio pilota: non è un caso -, l’uso dei figli come copertura per racket clandestini, bugie, e violenza domestica. D’altra parte lo strumento preferito di educazione di Johnny Soprano era la cinghia, dice un Tony sorridente a Melfi (trattata più volte in maniera verbalmente aggressiva, a causa del rifiuto opposto alle insistenze di un Tony in pieno transfert nella scorsa puntata). Va da sé che in questi ricordi il padre sia una figura che non esercita una violenza visibile sui figli, perché è una figura distaccata (è stato un padre assente: sia per il suo “lavoro”, sia perché spesso in prigione), dunque mitizzata. Ma ci sono pochi dubbi sul fatto che le cose stiano diversamente da come Tony cerca di raccontarle, e che quest’uomo sia in realtà il principale colpevole — non l’unico, ovviamente — di ciò che diventerà Tony Soprano.
Il monopolio della violenza domestica più evidente durante l’episodio è esercitato ancora una volta da Livia. Nel flashback si dimostra senza grandi sorprese la madre terrificante che già è nel presente: fredda, anaffettiva ed egoista.
Avendo introiettato come norma comportamenti del genere Tony li stempera in sorrisi e scrollatine di spalle mentre li ricorda di fronte a una sconvolta Melfi, ma per ben due volte — nei momenti clou dell’episodio –, nei picchi di aggressività della madre, amplificati da una memoria che rende questi flashback più delle sceneggiate napoletane o melodrammi ispirati a Tennessee Williams che veri e propri ritratti realistici, una Livia fuori controllo e ai limiti della psicosi minaccerà i figli di morte. La prima volta urla a un Tony terrorizzato che vuole cavargli gli occhi, agitando un forchettone da cucina**; la seconda volta minaccia di soffocare con un cuscino sia Tony che la sorella Janice (la cocca di suo padre: tenere a mente per il futuro) come ritorsione nei confronti del marito se questi decide di accettare un’opportunità lavorativa lontano da casa.
Nei dialoghi tra Tony e Melfi mai come in questo episodio torna spesso l’idea della dannazione come predeterminata dai geni, contro la possibilità di scelta che un libero arbitrio può offrire. È la vecchia storia della natura vs cultura. Ma se da un lato la preoccupazione di Tony che ci sia una corruzione nella genetica della sua famiglia (come se il Male si trasmettesse per via ereditaria) è in effetti sincera, come sincero è l’affetto che prova per il figlio (è pur sempre un atto di altruismo ed affetto quello di non voler vedere tuo figlio commettere i tuoi stessi errori) c’è sempre il rovescio della medaglia: Tony potrebbe pensare di “salvare” suo figlio dallo stesso percorso così da non dover cambiare il suo, di stile di vita. Perché, esattamente come Johnny Soprano, Tony ama vivere così (“He knew how to have a good time”). E dunque per redimere ai suoi occhi il padre condannerà Livia per non averlo spronato a cambiare vita quando ce n’era la possibilità. Per l’ennesima volta, pur avendo compreso dove risiedono i problemi che lo rendono vulnerabile e depresso, Tony non riesce (o meglio: non vuole) capirne la vera natura. E se un po’ irrita l’ingenuità di Melfi che gli mette sotto il naso l’American Dream come risposta al destino ineluttabile (“Within that, there is a range of choices. This is America!”), anche Tony quando riduce tutto all’essere nato così (“You’re born to this shit. You are what you are”) attua dei meccanismi di difesa così da poter perpetuare ancora il Male senza prendersene la responsabilità.
*Il primo episodio della serie che si concentra completamente sul rapporto padre-figlio è anche (purtroppo) l’unico della serie diretto da una donna, Lorraine Senna Ferrara. Anche la maggior parte dello staff degli sceneggiatori dei Sopranos sarà maschile, con le notevoli eccezioni di Robin Green (una delle sceneggiatrici regolari assieme a Mitchell Burgess) e Diane Frolov nell’ultima stagione.
**Il racconto di ETA Hoffmann sul Der Sandmann, con il terrificante uomo della sabbia che cava gli occhi ai bambini cattivi che non vogliono dormire, è una delle basi letterarie su cui Freud teorizzò il concerto di perturbante. Ora, David Chase è ossessionato dai concetti freudiani e dalla memoria: che la Madre minacci di accecare i figli non è dunque un caso, anzi è un preciso ricordo d’infanzia dello stesso Chase, così come le anatre in piscina che rappresentavano un affetto familiare mai ricevuto, così come l’anatra che nel sogno di Tony vola via con il suo pene (Tony quando uccide Febby Petrulio in “College” vedrà volare via uno stormo di uccelli: anatre?), o la primissima scena della serie (Tony che osserva una statua di una donna misteriosa e terribile nello studio della Melfi) e insomma: ci siamo capiti. Non c’è nulla di gratuito. Anche il dettaglio secondario è studiato per concatenarsi a una lunga serie di significati più o meno nascosti.
E a proposito di Livia, in quest’episodio viene a sapere da un ingenuo AJ che Tony frequenta uno psicanalista: la sua primissima reazione è di nuovo una sceneggiata melodrammatica, poi la paranoia — peraltro ben riposta: Livia è intelligentissima e di sicuro sa bene come funzionano i meccanismi base psicanalitici — che il figlio ora parli di lei e la incolpi di tutto ciò che ha avuto di male nella vita. D’altra parte la psicanalisi è una truffa per far arricchire gli ebrei. Parole sue. Parole di quella che se fosse nata in un’altra epoca (“di femministe” dice Tony) sarebbe diventata la gangster più temuta di tutti. Ha ragione.
Nicola Laurenza