Retrospettiva Sopranos — 1x12: “Isabella”

Nicola Laurenza
M E L A N G E
Published in
6 min readJun 15, 2023

“Talk about a jolt to the system. Try gettin’s shot at. It’ll give you a nice kick start.”

Se tra i primi episodi “College” era la dimostrazione memorabile di cosa potesse essere una serie come i Sopranos rispetto al resto del panorama televisivo, “Isabella” è l’episodio più potente della prima stagione sul piano puramente cinematografico.
Non ci piove.
E non dovrebbe sorprendere: i Sopranos nascono proprio per dare un taglio cinematografico alla serialità televisiva come mai prima di allora.
Il regista dell’episodio, Allen Coulter, diventerà una sicurezza (come i colleghi Alan Taylor, John Patterson e Tim Van Patten, tutti poi veterani delle serie HBO e della miglior serialità in generale), dimostrando in “Isabella” di avere le idee chiarissime. Basti dare un’occhiata a quel capolavoro di sequenza che è l’attentato fallito a Tony, ma anche a quelle che si concentrano sulla sua depressione giunta al picco massimo e rese in una maniera sensoriale di impatto, alla visione “italiana” con Isabella che culla il bambino, più una scena finale ispirata nientepopodimeno che a “Giulietta degli spiriti” di Fellini.

Non che sul piano della sceneggiatura l’episodio non sia una bomba. Si potrebbe anzi dire che se non ci fosse il tredicesimo e ultimo, “Isabella” è un perfetto — o quasi — finale di stagione, perché la maggior parte dell’azione ha luogo qui più che nel successivo “I dream of Jeannie Cusamano”. È un pattern che David Chase utilizzerà in ogni stagione dei Sopranos, quasi a voler sfidare le aspettative dello spettatore pungolandolo con continui anticlimax.

Ma “Isabella” è importante anche perché ha costruito un ruolo in cui Maria Grazia Cucinotta risulta finalmente perfetta — e non è uno scherzo: la studentessa italiana che è ospitata dai Cusamano sembra essere il classico escamotage narrativo per fare allucinare il protagonista sotto bombardamento farmacologico. E non giriamoci attorno, è proprio così, perché si dimostrerà tale alla fine: nient’altro che una allucinazione di Tony, un trucchetto di sceneggiatura talmente abusato che potrebbe essere in mano a qualche altro sceneggiatore la dimostrazione di tanta pigrizia e convenzionalità nella scrittura. Ma gli sceneggiatori Robin Green e Mitchell Burgess riescono a giocarsi la carta nel modo giusto, facendo partecipare all’allucinazione anche un personaggio esterno come Carmela (in quel momento parte dell’allucinazione ma terribilmente realistica), che minaccia di evirare Tony dopo aver notato che guarda la bellissima vicina dalla finestra; è una minaccia credibile, proprio da Carmela in modalità berserk, ma dovrebbe avere risonanze inconsce che abbiamo già notato più volte: il sogno dell’anatra che vola via col pene di Tony, Livia che minaccia di accecarlo. Nei dialoghi successivi di Tony con questa vicina dall’inglese pessimo, ma spontanea, quasi irreale, si inizia a sospettare che Isabella possa essere davvero una donna vera e non una nuvola di fumo evocata dal mix di Prozac e Lithium. Quando Tony, durante un pranzo con lei, ha una allucinazione nell’allucinazione, il depistaggio può dirsi completo: ed è la visione della bellissima ragazza/madonna (su cui Tony non ha pensieri sessuali di alcun tipo) che, in un ambiente domestico tipicamente italiano e rustico fuori dal tempo, culla un bambino di nome Antonino; sequenza che non risulta pacchiana e sarebbe piaciuta a un Olmi.

Naturalmente alla fine Isabella si dimostra un prodotto dei farmaci e della psiche. Ma non c’è mai nulla di gratuito nei Sopranos, non esiste una sequenza scollegata in qualche modo dagli altri segmenti di trame e sottotrame. Tutto è studiato nel minimo dettaglio. Tony — e la Melfi lo sa bene — sta elaborando sempre più la mancanza di affetto che ha vissuto tutta la vita da parte della madre, e la proietta in immagini di eterni femmini ancestrali (per di più italiani: doppiamente sacrale come immagine) che promettono una vita alternativa — una vita diversa, felice, fuori dal tempo e dallo spazio. Tutto questo mentre l’attentato che la sua stessa madre ha contribuito a organizzare in maniera decisiva si avvia alla fase finale. Tony nel suo subconscio sta iniziando a realizzare che sua madre parla sempre di infanticidio a tavola per un motivo ben preciso.

E qui c’è l’altra parte dell’episodio di cui tener conto: Tony ha toccato il picco massimo di depressione dall’inizio della serie. Non sente più nulla, non ha più emozioni. La sua anima è un buco nero. Quando Mickey Palmice assolda due scagnozzi di fuori città per farlo fuori l’attentato ha luogo in una maniera che dialoga a distanza con quello subito da don Vito Corleone nel primo Padrino: don Vito viene sparato mentre sta controllando delle arance, Tony mentre torna con un succo d’arancia in macchina.
Entrambi gli attentati saranno degli attentati falliti.
Tony infatti (e la scena è davvero pazzesca), che fino a un secondo prima dello sparo a vuoto è completamente perso nell’imbambolamento dovuto ai farmaci (i suoni sono ovattati, tutto ciò che è attorno a lui è distante), si riprende quando deve lottare per la sua vita: è come vedere un animale che riacquista improvvisamente la propria vitalità quando viene predato, ed è tanto assurdo quanto realistico che una persona arrivata anche a dichiarare pochi minuti prima di voler morire perché non sente più nessuna emozione e voglia, all’improvviso subisca un risveglio come da un profondo sonno, lottando per la propria vita (psicologicamente e neurologicamente possiamo citare tutti gli studi che vogliamo: ma Leopardi era già arrivato a teorizzarlo prima). Questo focus sulla psiche borderline di Tony Soprano non ha più bisogno di perdersi in troppi dialoghi: è tutta resa visivamente, è puro cinema ora diventata pura televisione, in un processo di contaminazione che fa bene a entrambi i mezzi audiovisivi.

Parliamoci chiaro: in “College” Tony uccide una spia ed è felice mentre lo fa, ed è felice dopo averla accoppata. Qui addirittura ride dopo essere scampato all’attentato (e aver ucciso uno dei due scagnozzi assoldati per ucciderlo). Nei prossimi episodi, nelle prossime stagioni, basta dare un’occhiata alla performance di Gandolfini e ai suoi sguardi nei momenti precedenti o successivi a situazioni in cui ha dovuto ordinare degli omicidi per rendersi conto di una cosa che lascia scombussolati: è sempre felice. È di buon umore. Come se avesse una iniezione di gioia primordiale, come se provasse finalmente qualcosa che più si avvicina all’idea di felicità. In questa prima stagione abbiamo visto solo una minima porzione di Tony Soprano e di cosa è capace di fare. Ma l’abisso che abbiamo guardato dovrebbe già far venire la pelle d’oca. E anche se lo shock di adrenalina lo ha riportato nella terra dei vivi, anche se il modo in cui minaccia sul finale i mandanti (per ora ignoti) dell’attentato non promette nulla di buono, la sua posizione non è mai stata tanto vulnerabile come in questo momento — perché che uno zio gerarchicamente più in alto voglia farti fuori, è brutto: ma nel business criminale potrebbe starci. Ma che a volerlo fare sia tua madre…

Nicola Laurenza

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