The Irishman (o del crepuscolo degli dèi)
— You don’t know who I am, do ya? Remember Johnny? Johnny Boy? Your kid brother? This thing of ours.
— I was involved with that?
— You and my dad. You two ran North Jersey.
— We did?
— Yeah.
— Hmm. Well, that’s nice.
(dialogo tra Tony e Junior Soprano dall’episodio finale dei Sopranos “Made in America”)
Una delle scene più famose di “Quei bravi ragazzi” è l’ingresso del protagonista al night club Copacabana. Il Copacabana è una sorta di gotha che riunisce l’aristocrazia mafiosa, e quindi un punto d’arrivo per Henry Hill e consorte: il paradiso sociale per un ragazzo che ha iniziato a farsi rispettare e sta conducendo la sua personale scalata al crimine organizzato — seppur tra le leve meno potenti. Scorsese sottolinea questo traguardo con un sinuoso piano sequenza che ci immerge nel locale mostrandone il backstage (le cucine, i corridoi), il palco, la platea, quindi protagonisti e comparse. Ecco, se volessimo individuare un cambio di segno, un rovescio simbolico drastico, in “The Irishman”, dovremmo seguire il movimento di macchina iniziale: che mette da subito le cose in chiaro portandoci in un ospizio dove c’è poco da vedere, solo un vecchissimo De Niro che in voice over pronuncia un lapidario “I don’t believe in America”.
Sembrano sideralmente lontani i tempi in cui l’impresario funebre Federigo Bonasera esordiva nel Padrino di Coppola con un “I believe in America”. Sembra lontana anni luce quella mafia ammantata di tragicità greca (specie nel controverso terzo capitolo), laddove lo stesso Scorsese ha contribuito per anni a spogliarla di ogni residuo “classico” per fondarne una nuova, che poi è quella vecchia, la vera, presa di peso dalle strade del Lower East Side che ha bazzicato per anni, un post dove bastava una parola sbagliata alla gente sbagliata per ritrovarsi massacrato a sangue o crivellato di pallottole.
Ascesa e caduta di imperi, ascesa e caduta del cinema gangster. The Irishman è il capitolo finale, tremendo e spietato, di una quadrilogia ideale iniziata con Mean Streets, proseguita con il seminale Goodfellas (entrambi una sorta di infanzia del crimine, bildungsroman immorali della giungla urbana), e per anni bloccata su Casinò (la maturità, la cupola di un potere che consuma e macina denaro nei paradisi artificiali fino ad esploderne). Sembravano aver detto tutto, eppure mancava il capitolo sulla vecchiaia: ed eccolo qui, lento e lunghissimo, quattro ore, tante, forse troppe, quattro ore grevi ma dove non c’è nulla che non risulti significativo, foriere di tensioni che possono esplodere da un momento all’altro in un lampo di sangue, come nei film di Kitano.
Irishman sta al cinema gangster come Unforgiven di Eastwood sta al cinema western: il crepuscolo di un genere dove il romanticismo e la mitografia (seppur di segno negativo e criminale) lasciano posto alla vecchiaia, alla tomba e alla dannazione senza ritorno, quella dell’oblio. Un vortice che trascina con sé la storia dell’America — e quindi le sorti mondiali — di mezzo secolo, che ha il passo imbolsito di un De Niro ringiovanito in modo superbo con effetti digitali ma che non può nascondere di essere fisicamente irrigidito, così come tutti i suoi amici. E in questa caparbia scelta, rischiosissima ma che risulta dare un tono ulteriore di significato al film, persino di disturbo, sta tutto il senso del film di Scorsese: un film di un vecchio, su dei vecchi, e su una nazione vecchia, sclerotizzata, con un piede nella fossa.
A raccontarci questa storia è il veterano della seconda guerra mondiale e sicario mafioso Frank Sheeran, che in una lunghissima retrospettiva racconta tutta la sua vita confessandosi con lo spettatore: lo fa dall’inizio, con l’incontro fortuito e l’amicizia col boss Russ Bufalino (Pesci), per poi proseguire con l’amicizia stretta con il potente sindacalista Jimmy Hoffa (Pacino), e il modo in cui questi due mondi simili ma inconciliabili arrivano all’incontro e alla collisione. Dall’inizio il film si snoda in svariate linee temporali che con una maestria impressionante il regista e lo sceneggiatore Zaillian intersecano gestendole per oltre tre ore e mezza, snocciolando date, informazioni, personaggi e nomi a non finire, senza però mai perdersi.
I personaggi di Irishman sono realmente esistiti: una prassi scorsesiana classica questa del trattare biografie difficili di soggetti psicologicamente borderline che vivono una vita ai limiti delle loro possibilità, tra denaro e passioni sfrenate, in un microcosmo selvaggio che li condiziona per poi spazzarli via al minimo errore (il pugile Jake LaMotta, il gestore di Casinò Sam Rothstein/Frank Rosenthal, l’aviatore e regista Howard Hughes, il mafioso e collaboratore di giustizia Henry Hill, il broker Jordan Belfort). Non sorprende allora la naturalezza con cui Sheeran, Hoffa e Russ si piazzano in questa ritrattistica estrema. E sono ritratti di una mitologia sporca, da “dietro le quinte”, trattata già varie volte, dal cinema alla letteratura alla serialità televisiva .
Chi ha letto “American Tabloid” di James Ellroy — a cui il film si avvicina per la trama e la rudezza — sa quanti intrecci ci sono tra mafia e politica in quegli anni, al punto da insinuare che l’elezione di Kennedy sia stata favorita dai voti della mafia, e gettare il sospetto ancora più terribile che la stessa mafia centri nel suo omicidio. Ecco, la materia plasmata in Irishman è proprio questa: sporca, intricata e dissacrante. Tutto Made in America. Ma questa America ha la memoria cortissima, e in fondo chi la ricorda più? (E chi vuole ricordarsene…). L’oblio erompe con prepotenza nei discorsi di Sheeran/De Niro: quell’America non esiste più, anche il cinema gangster non c’è più, e i personaggi escono di scena con la stessa chimerica sfacciataggine con cui vi sono entrati, letteralmente spariscono (come sparì Hoffa nella realtà) — in modo quasi irrealistico, ringiovaniti quando è inutile farli ringiovanire, quindi già vecchi, e poi vecchi in modo estremo, irriconoscibile e grottesco, vecchi che per una vita hanno (dis)educato alla violenza parlando di alti ideali pur non avendone nessuno, una vita “domenica in chiesa, lunedì all’inferno” a cui hanno sacrificato tutto — e tutti.
A chi interessa oggi di vecchi gangster che ricordano il proprio passato?
Ha ancora senso il cinema gangster, e il cinema di Scorsese?
Nell’episodio finale dei Sopranos un vecchio zio Junior, rincoglionito dalla demenza senile e in carcere, continua a non capire cosa voglia dire il nipote Tony quando parla di Cosa Nostra (“this thing of ours”). L’hanno fatta anche loro, l’America, cosa loro: e ora cosa resta? L’oblio, ancora, sempre e solo l’oblio. Un vecchio sdentato rugoso e con un plaid sulle ginocchia che manco ricorda più perché ha vissuto nel modo spietato in cui ha vissuto. E Scorsese sembra ricalcare proprio quella scena quando ci getta nel finale in un vecchiume insistito, agonizzante, dove le performance degli attori, che per tutto il film sono solcati dal tempo che passa e qui diventano maschere funebri, inchioda un’intera storia del cinema al suo trapasso (De Niro, Pesci e Pacino sono incredibili, raggiungono livelli che da anni non toccavano).
Cè poi da dire che, mentre la vicenda di Irishman prosegue, alternando momenti di frenetica violenza a un tono persino compassato, fatalistico e irredento, notiamo anche come questa si snodi in un continuo scontro speculare tra i personaggi (vero fulcro del film, al punto da fagocitare anche la narrazione), nel conflitto insanabile tra una cosa e il suo contrario, tra una parola detta e il suo implicito, e nel cortocircuito che si viene a creare quando avviene quella che l’antropologo e sociologo britannico Gregory Bateson chiamava schismogenesi: in sintesi e parole povere, una relazione cumulativa tra individui o gruppi altamente distruttiva che, se non retta da equilibri, porta al conflitto e poi al collasso dell’intero sistema. Scorsese, avido lettore di libri di storia sulla Roma imperiale e sull’America, affascinato da guerre civili da cui nascono nuovi ordini, da imperi che raggiungono l’apogeo per poi crollare, dal potere tribale e dalla gestione che si deve farne nelle strade ricorrendo a violenza e omicidi, in tal senso è il più grande regista/antropologo della storia del cinema.
Frank Sheeran deve gestire per tutta una vita la famiglia (moglie e figli) con la Famiglia (Russ), l’amicizia (Hoffa) con gli Amici (il microcosmo mafioso), e inconsapevolmente o meno ha già scelto a quale santo votarsi, corpo e anima — ma lo stesso si potrebbe dire di quegli altri irlandesi, i Kennedy.
Da una parte o dall’altra.
Nessuna via di mezzo.
Un amico dice a un amico che la faccenda va sistemata.
L’emergenza rientra, lo status quo viene ristabilito. Fino a quando non si deciderà, da una parte o dall’altra, di intervenire di nuovo.
La mentalità americana, ribadiscono Scorsese, David Chase e company, è sociopatica a prescindere dal nucleo italoamericano. È sociopatica nel midollo. Ed è un corpo in putrefazione da tanto,troppo tempo. Forse il cinema gangster ha davvero detto tutto quello che aveva da dire, ma continua a dirlo con un linguaggio che è persuasivo come nessun altro.
Made in America.