The Stand — Ep 6

Lucia Patrizi
M E L A N G E
Published in
5 min readJan 25, 2021

OCCHIO AGLI SPOILER

Colare a picco, affondare, sprofondare, naufragare.
Il sesto episodio di The Stand è un disastro e, se nella scorsa puntata forse era ancora possibile riprendere una rotta quantomeno dignitosa, ora la serie ha scelto una direzione che la può portare solo a schiantarsi.
Stavamo tutti aspettando The Vigil, questo il titolo dell’episodio, per l’arrivo alla buon’ora e con tutta calma di un personaggio chiave del romanzo, nonché di uno dei più riusciti nella miniserie di Garris, ovvero il caro Pattume, il piromane destinato a grandi cose qui interpretato da Ezra Miller.
Ecco, oltre a essere stato coperto di ridicolo, Pattume riesce anche a essere offensivo, cosa evitata in maniera molto saggia e oserei dire sensibile con Tom Cullen.
Tutti i cliché e gli odiosi stereotipi evitati nel mettere in scena Tom, tornano prepotenti e persino estremizzati con Pattume, ridotto a una macchietta che si masturba davanti alle esplosioni mentre sbava.
Pattume, nel romanzo e nella miniserie, era un personaggio complesso, con un arco narrativo ben preciso e strutturato. Era un piromane, sì, ma non era la sua unica caratteristica, e mi sarei aspettata di assistere, almeno in parte al suo viaggio per arrivare a Las Vegas. Invece no: fa saltare un serbatoio, si masturba, stacco ed eccoci subito alla presenza di Flagg, che gli comunica di avere per lui degli importanti e misteriosi progetti, mentre il resto della ciurma corrotta e ninfomane di Las Vegas lo schifa perché è troppo evidentemente fuori di testa.
Ora, non so se ricordate che Pattume, nel romanzo, restava stupito al suo arrivo nella città di Flagg (Cibola, secondo lui) perché tutti lo trattavano come una persona normale, come un essere umano, e anche questo contribuiva di molto alla sua fedeltà alla causa.
Era un passaggio determinante, quello dell’integrazione di Pattume a Las Vegas, perché persino nel brutale manicheismo messo in piedi da King, questi dettagli riuscivano a preservare quel minimo di ambiguità relativa alle nozioni di bene e male, qui completamente azzerata.
Il bene è rappresentato da villette a schiera e posizione del missionario; il male da casinò dove la gente si accoppia a ogni angolo di strada, e la questione è così risolta.

Ma fosse questo l’unico problema di The Stand, uno ci potrebbe anche passare sopra, perché non è che il bigottismo di certa tv americana sia una roba inventata appositamente per l’adattamento del romanzo di King: è storia vecchia, spesso tuttavia compensata dalla qualità della scrittura e dalla presenza di personaggi interessanti.
Qui sono assenti entrambe le cose: la scrittura è confusa, raffazzonata: la narrazione non lineare delle prime 4 puntate viene abbandonata a partire dalla quinta, e si segue passo passo il libro, senza deviare da esso di una virgola; non c’è quindi alcuna coerenza, perché tutti i cambiamenti apportati all’inizio finiscono nel nulla.
Dal canto loro, proprio per questa scelta priva di raziocinio, i personaggi non hanno un senso, non hanno uno scopo, non hanno uno spessore.
E qui, se volete il commento di una tecnica e addetta ai lavori, credo sia stato lasciato parecchio materiale sul pavimento della moviola, o meglio, nella cartelletta “scene tagliate” del progetto Avid della serie, altrimenti non si spiega. Non possono averla scritta così.
Prendiamo, per esempio, la giudice Farris, una delle tre spie mandate da Boulder a Las Vegas: non solo non ci è proprio stata introdotta, ma tutto ciò che le viene concesso in questo episodio e di stare per pochi minuti in una camera d’albergo. Poi la rivediamo dentro a un sacco con un buco in testa. Per quale motivo la sua fine ci dovrebbe interessare? Perché abbiamo letto il romanzo?
Stessa cosa anche con personaggi più importanti, tipo il povero Nick Andros, sparito quasi dalla circolazione e poi saltato per aria nell’attentato ordito da Nadine e Harold.
Ora, la domanda è: ce ne dovrebbe fregare qualcosa della fine di Nick, tra l’altro enfatizzata da un ralenty che neppure Garris si sarebbe sognato. Parlando poi di Garris, almeno nella sua miniserie i personaggi avevano un senso, era quello che King aveva dato loro, senza cambiare una virgola, certo, senza una minima interpretazione personale, ma con un arco narrativo preciso, solido, efficace.
Qui, gli unici ad avere un senso sono Harold, Frannie e in parte Tom.

Uno dei tre lo perderemo nel prossimo episodio, credo, sempre che la serie continui a seguire senza spostarsi di un millimetro la linea narrativa del libro, cosa di cui non dubito, e a questo punto mi aspetto addirittura la mano di Dio, perché non c’è limite al peggio.
Giuro che sto scrivendo queste righe con estremo dispiacere: ho fatto il tifo per The Stand sin dall’inizio, e pure di fronte a un trailer poco convincente, ho continuato a crederci; ho apprezzato i primi quattro episodi, soprattutto il quarto, fino a ora il più riuscito del lotto, ma arrivati a questo punto, credo di non avere più speranze.
Il prossimo episodio si intitola The Walk e chi ha letto il romanzo sa perfettamente cosa aspettarsi: i quattro partiranno a piedi da Boulder per dirigersi alla volta di Las Vegas, in missione per conto di Dio, se mi passate la citazione.
Stu, Larry, Glen e Ray, ecco i quattro. Si può affermare senza tema di essere smentiti che di nessuno di loro ci frega quel tanto che basta da vederli attraversare mezzi Stati Uniti a piedi.
Chiedo quindi agli showrunner: per quale motivo dovremmo continuare a guardare la serie?
Per quanto mi riguarda, ormai ho cominciato il diario che leggete tutte le settimane e intendo arrivare fino in fondo.
Ma che fatica, signori miei, che fatica.

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