The Stand — Ep 7

Lucia Patrizi
M E L A N G E
Published in
4 min readFeb 1, 2021

C’è una cosa che non riesco a spiegarmi rispetto alla piega che ha preso questa serie dopo i primi quattro episodi: il cambio repentino di rotta non soltanto a livello narrativo, ma proprio strutturale.
Erano partiti con un racconto non lineare, mischiando i piani temporali, e aveva anche funzionato. Poi tutto ciò è stato rapidamente accantonato in favore di un’aderenza quasi assoluta al testo di King, roba che lo stesso Garris potrebbe scandalizzarsi. Non ha avuto, quindi, uno sviluppo affatto coerente, anche perché tutti sanno che la forza della scrittura di King risiede nell’approfondimento psicologico dei personaggi, e qui purtroppo non ci siamo proprio.
Prendiamo l’inizio del settimo episodio, The Walk: Abigail è sul letto di morte, c’è appena stata una strage in seguito all’attentato dinamitardo di Harold e Nadine, ed ecco che l’anziana guida spirituale incarica Stu, Glen, Larry e Ray di andare fino a Las Vegas a piedi e poi crepa. Whoopi Goldberg, per te The Stand finisce qui!
Noi di Mother Abigail non sappiamo niente, è un personaggio cui gli showrunner non sono stati capaci di dare vita, eppure ci sarebbero state svariate possibilità per renderla parte attiva della serie, e non soltanto un simulacro messo lì a fare non si sa bene cosa. Per esempio, nel 1978, anno della prima edizione del romanzo, l’idea di un’America bianca e cristiana poteva ancora starci, ma non sarebbe stato interessante, nel 2021, mettere Abigail di fronte a religioni diverse dalla sua, a concezioni di divinità anche distanti da quella del classico Dio cristiano vendicativo e incazzoso?
Questo per dire che i temi cui si presta una storia come quella di The Stand, calata nel XXI secolo, potrebbero essere innumerevoli, e si è scelto di non sfruttarne neanche mezzo. A partire proprio da come una pandemia così letale potrebbe essere vissuta tramite i social. Ma ci hanno tenuto a precisare sin dal primo episodio che internet è stato “chiuso” dal governo subito dopo i primi focolai. E così ci liberiamo di un bel problema, giusto?

Una volta sbrigata con rapidità la pratica Mother Abigail, i quattro, previa foto ricordo scattata da Frannie che resta a Boulder a non fare altro se non partorire, partono per la loro passeggiata di salute in direzione Las Vegas. Ora, la camminata potrebbe benissimo prendere da sola un’intera stagione di una serie e qui viene sbrigata in pochi minuti, con tanto di montage su canzone opinabile dei nostri in viaggio col cane Kojak al seguito.
Stu cade e si rompe una gamba, gli altri tre arrivano a Las Vegas, che ora non è più lo scintillante bordello a cielo aperto degli episodi precedenti, ma un luogo tetro, col faccione di Flagg che appare a ogni schermo e la gente frustata e picchiata agli angoli delle strade. E va bene.
Nel frattempo, Nadine provoca l’incidente in moto che porta alla morte di Harold, lo abbandona agonizzante e raggiunge il bel Randall per convolare a giuste nozze.
Come nel romanzo, Flagg si rivela un mostro durante il rapporto e Nadine dà fuori di matto, ma (e qui si devia rispetto al testo di King) non diventa catatonica. Somiglia più a un incrocio tra Morticia Addams e un incubo da peperonata di Tim Burton. È ancora senziente, è visibilmente incinta ed è lei ad accogliere Larry, Ray e Glen quando arrivano a Las Vegas scortati da Lloyd.
Fine della puntata.
È un pochino meglio dell’episodio precedente, ma è sempre fiacca, sempre superficiale, sempre vuota.
Qualche giorno fa, parlando su FB di The Stand, un mio contatto ha scritto che forse, se non si riesce a vederne una buona versione su schermo, è perché il romanzo non è poi questo granché. Comincio a pensare che abbia ragione, o meglio: il nucleo del libro è, ancora oggi, formidabile: la pandemia di influenza, la costruzione di due modelli sociali contrapposti, l’idea che, una volta azzerato tutto, si formeranno comunque gruppi pronti a farsi la guerra tra loro.
Quello che nel 2021 non funziona più è proprio l’epica battaglia manichea tra bene e male, perché è così priva di sfumature da risultare posticcia. Eppure, i nostri showrunner hanno deciso di non parlare d’altro se non di questo: bene e male, bianco e nero, buoni e cattivi. Ma non c’è un radice del male, come non esiste un motivo per cui Boulder dovrebbe essere la sede del bene. Dio non è sufficiente, non lo è più , forse anzi non lo è mai stato.
Alla fine la colpa non è di The Stand, il romanzo, ma di non aver sentito la necessità di doverlo adattare ai tempi che stiamo vivendo.
La serie andrà quindi a spegnersi nella sua quiete democristiana, salvo inaspettati colpi di coda da parte dell’ultimo episodio, scritto apposta da King per dare una nuova conclusione alla sua storia.
Staremo a vedere.
Con sempre maggior sfiducia ci sentiamo alla prossima.

--

--