The Stand — Ep 8

Lucia Patrizi
M E L A N G E
Published in
5 min readFeb 8, 2021

E alla fine è arrivata anche la mano di Dio, signori, non come quella della miniserie di Garris, dove era proprio una mano realizzata nella primitiva CGI di metà anni ’90, ma quasi. Il concetto è lo stesso, identico: il Dio spietato e punitivo di un romanzo del 1978 è stato riproposto nel 2021 senza alcuna modifica sostanziale e forse con un senso ancora più reazionario.
Come è stato possibile tutto questo?
Siamo al termine della serie, manca soltanto il nuovo finale che King ha riscritto appositamente e che, in tutta sincerità, non sono poi così curiosa di vedere. Non è possibile, infatti, riparare ai danni di almeno 4 episodi in costante calando con cinquanta minuti. Ormai è quasi un’agonia persino scrivere questa specie di diario, perché c’è pochissimo da dire o analizzare. Mi limiterò quindi a riportare la successione degli eventi dell’ottavo episodio, intitolato proprio The Stand, e a chiuderla il più velocemente possibile.

Avevamo lasciato Stu, con la sua bella caviglia slogata e le pillole letali di Glen, da solo in un crepaccio ad aspettare o la morte o che i suoi tre allegri compari tornassero indietro.
Ma loro, una volta arrivati a New Vegas e aver incontrato la Nadine incinta e frutto di una cena a base di detergenti per il pavimento degli sceneggiatori, finiscono subito in gabbia, ove si dedicano a profonde conversazioni atte a spiegare a noi pubblico che gli accoliti di Flagg sono cattivi cattivi cattivi.
Il povero Glen, che si salva non solo perché a interpretarlo c’è un attore serio, ma anche perché è il solo ad aver mantenuto un minimo di raziocinio, prova a insinuare il dubbio, stabilendo un interessante parallelo tra Abigail e Randall Flagg: fra noi di Boulder e loro di New Vegas non c’è differenza; entrambi gli schieramenti sono formati da gente disperata alla ricerca di una ragione per quanto accaduto, e di un posto nello schema delle cose, ed entrambi gli schieramenti hanno incontrato qualcuno capace di offrire facili risposte.
Finalmente un discorso di un qualche interesse! Potrebbe spalancare scenari narrativi nuovi, portare questa serie deragliata su un percorso che nessuno si aspettava.
E invece no.
Ray, personaggio più inutile della storia dei personaggi inutili, zittisce il povero Glen con un: “Loro sono cattivi”, e la conversazione finisce lì, perché la malvagità degli abitanti di New Vegas non ha bisogno di essere discussa o analizzata, è così e basta, altrimenti poi come fai a polverizzarli tutti per giustizia divina?
Glen paga il suo eccesso di intelligenza crepando per mano di Lloyd durante un processo farsa allestito alla stregua di un spettacolino da reality, credo con l’intento di dimostrare al pubblico che The Stand è una serie al passo coi tempi. Una Fiona Dourif mai così sprecata in tutta la sua carriera si occupa della regia dell’evento, mentre a Lloyd, vestito da giudice con tanto di martelletto per l’occasione, tocca emettere la sentenza.
Sbrigata la pratica Glen, una fine ingloriosa lungo la strada del misticismo d’accatto, dopo aver rappresentato la voce della ragione per tutti gli episodi, gli scagnozzi di Flagg separano Larry e Ray. Della seconda non avremo più notizie fino alla scena finale; il primo, tanto per dargli qualcosa da fare, si occuperà della redenzione di Nadine.

Chi ha letto il romanzo lo sa: Nadine si redime da sola, rifiutando di mettere al mondo il figlio dell’Uomo in Nero e preferendo morire. Un sussulto di dignità tardivo per un personaggio con un arco narrativo pessimo, in ogni sua incarnazione. Nadine è la mia preferita, da sempre, e quando ho saputo che sarebbe stata realizzata una nuova serie su The Stand, ho sperato che qualche magnanimo sceneggiatore riuscisse ad aggiustare il tiro.
Sono riusciti a fare peggio del romanzo, peggio della miniserie di Garris: quello che, alla fine, era un atto spontaneo di Nadine, una sua scelta dovuta alla comprensione di cosa fosse realmente Randal Flagg, qui è una reazione a un incontro con Larry.
Larry la fa specchiare. Nadine si vede sciupata. Nadine si suicida. Questo è. Lo so che state ridendo, che pensate sia un’esagerazione ai fini di ridicolizzare la serie, ma non lo è. È esattamente quanto accade, è la conclusione della storia di Nadine Cross.
“Nadine, guardati, guardati come stai sciupata!” urla Larry.
Nadine, folgorata dalla rivelazione che è diventata brutta (ma poi, brutta Amber Heard, ma chi volete prendere per i fondelli, e dai), capisce che Larry ha sempre avuto ragione. Anzi, le sue ultime parole sono proprio: “Larry was right”.
Che mi sembra davvero una roba che si poteva fare negli anni ’50.

Flagg, vagamente contrariato per la morte prematura di suo figlio, allestisce quindi un grande spettacolo vendicativo, in cui giustiziare per annegamento i due emissari di Boulder rimasti in vita e, allo stesso tempo, far decollare l’aereo con a bordo la testata recuperata da Pattume per sganciarla su Boulder.
Ma ha fatto i conti senza la mano di Dio.
Esattamente come nel romanzo, Pattume arriva con la bomba e i fulmini della furia divina la fanno saltare per aria, cancellando New Vegas e i suoi cattivi abitanti dalla faccia della terra.
Prima che ciò avvenga, tuttavia, dobbiamo assistere a:
Balletto di Randal Flagg.
Ray che si caga sotto tuto il tempo, perché si sa che noi femmine abbiamo i nervi fragili.
Pattume che continua a emettere i suoi versi scricchiolanti, ma con un trucco da esposizione alle scorie nucleari che neanche negli horror italiani a basso budget degli anni ’80.
I fulmini di cui sopra che colpiscono e inceneriscono la povera Fiona Dourif e anche Julie Lawry, che sono troppo malvagie per un annientamento misericordioso e, ancora, guarda caso, sono entrambe donne.
Lloyd che muore come il coglione che è stato in vita, in una scena plagiata dal primo Final Destination.
Finalmente l’atomica arriva a porre fine alle nostre sofferenze, ma manca ancora l’incontro fortuito di Stu e Tom e lo stacco finale sui cittadini di Boulder che assistono da lontano all’esplosione, mentre Fran comincia ad avere le doglie.
Sipario.
Che schifo.

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