The Stand — Ep 9

Lucia Patrizi
M E L A N G E
Published in
6 min readFeb 17, 2021

OCCHIO AGLI SPOILER!

King ha scritto apposta un nuovo finale alla sua storia. È da dicembre che gli showrunner della serie ci martellano con questa informazione a ogni intervista concessa e a ogni podcast cui hanno partecipato. Ovvio che la faccenda sia stata caricata di aspettative, anche perché il finale di The Stand, romanzo, non era tra i più forti della produzione letteraria del Re.
Ma, quando ci si riferisce al finale, non ci si riferisce alla coda con Stu e Tom che compiono a ritroso il percorso verso Boulder, né al racconto dell’allontanamento di Fran e Stu dalla stessa Boulder. Anzi, le ultimissime righe del libro sono, a mio modesto parere, tra le cose più belle mai scritte da King, ma forse perché amo le storie che si chiudono in sospeso, e quel “non lo so” di Frannie mi è sempre rimasto dentro.
Il problema è che, quando si parla di riscrivere un finale, vai a riscrivere quello che zoppica, non quello che funziona.
Invece la serie, come abbiamo visto con costernazione la settimana scorsa, ha lasciato invariate la mano di Dio e la distruzione atomica di New Vegas.
Come si poteva peggiorare una situazione già così compromessa?
Ma con la nuova coda scritta da King, logico!
Procediamo con ordine, perché non penso sia proprio tutto da buttare, ma pochi dettagli non sono sufficienti a salvare un’operazione che (ormai siamo alla fine e si può dire) si è rivelata fallimentare.

L’apertura dell’episodio non è affatto male, a voler essere sinceri: a Boulder hanno tutti smesso di aspettare il ritorno dei quattro inviati dal Mother Abigail a New Vegas con scopi imprecisati. Noi sappiamo che il loro destino era morire non si sa bene perché. Ma i disegni di Dio sono imperscrutabili, c’è sempre una ragione anche se noi non la comprendiamo e bla bla bla.
Nel frattempo, nasce la bambina di Fran, ma si becca Capitan Trips. Il diario di Fran, anzi, la lettera che scrive alla figlia, è una delle cose migliori non soltanto dell’episodio, ma proprio della miniserie tutta. Da Fedele Lettrice, io so in anticipo che la superinfluenza della neonata Abigail è un falso allarme: la bimba guarisce e col la sua guarigione garantisce un futuro all’umanità. E tuttavia, quando ho sentito tossire quella minuscola creatura appena nata tra le braccia di Frannie, ho sentito un brivido di orrore, e il pianto straziante della mamma un po’, giusto un pochino, mi ha fatta stare in pena. Questo per dire che, con una brava attrice e la giusta scelta di parole, si poteva fare qualcosa di buono. Peccato abbiano tutti preferito adagiarsi sul vetero-cristianesimo draconiano e punitivo.
Stu ritorna a Boulder, e fa appena in tempo a dire ai suoi concittadini che Tom gli ha salvato la vita, prima che quest’ultimo cada completamente nel dimenticatoio e non abbia più alcun ruolo o semplice riconoscimento; da un lato apprezzo che abbiano tagliato tutta la parte del viaggio di Stu e Tom in direzione Boulder, con tanto di apparizione fantasmagorica di Nick; dall’altro mi domando cosa abbia fatto di male agli sceneggiatori il povero Brad William Henke per essere stato così maltrattato.
Ma, si sa, a Boulder si fa molto in fretta a cadere nel dimenticatoio e a non essere più menzionati, quindi a Tom è andata anche meglio rispetto a tanti altri.
Nel frattempo, Fran si accorge che a Boulder le cose stanno prendendo una piega non proprio rassicurante: circolano armi, già ci sono un paio di persone in carcere per reati minori, tipo vandalismo, e quindi decide di partire con Stu per tornare nel Maine e rivedere l’oceano.
Ora, voi che come siete Fedeli Lettori, vi starete chiedendo cosa ci sia in effetti di nuovo in questa coda scritta apposta da King per concludere la miniserie.
C’è, innanzitutto, un agghiacciante barbecue del 4 Luglio che propone un immaginario degli Stati Uniti rimasto congelato agli anni ’50, con tanto di balli country di gruppo da lavarsi gli occhi con la candeggina; e c’è Mick Garris che si intravede di sguincio a cuocere salsicce e a ridersela di gusto perché, lui lo sai, con tutti i limiti della tv anni ’90, ha comunque fatto di meglio.

Dopo la festa e i saluti ai tizi anonimi di Boulder più Tom, per il quale Stu sembra provare un certo imbarazzo (ricordo che gli ha salvato la vita, ma forse gli sceneggiatori lo hanno dimenticato), la nostra coppia con infante e simpatico cagnolone al seguito se ne parte per le strade deserte d’America e qui non ci viene risparmiato il classico montage musicale della famigliola on the road. Aiuto. Salvatemi prima che io cominci a rimpiangere i vecchi spot Barilla.
Arrivano in Nebraska, sì in mezzo ai filari, dove c’è persino una figlia del grano che si nasconde con fare minaccioso e lì, mentre Stu va a fare provviste, Fran cerca di tirare su l’acqua da un pozzo, viene morsa da un topo e precipita sul fondo del suddetto pozzo, fracassandosi tutte le ossicine.
King si autocita andando a pescare tra i suoi lavori migliori, in cui pozzi, topi, filari e bambini inquietanti hanno sempre avuto un ruolo cospicuo. L’obiettivo di questa riscrittura che puzza lontano un centinaio di chilometri di celebrazione onanistica, è di dare anche a Frannie un’occasione per per prendere posizione nei confronti del male. Dopotutto, nel romanzo, dopo un ottimo inizio, il suo personaggio veniva del tutto assorbito dalla futura maternità e dall’essere soltanto “la donna di Stu”. Lei a fare lo Stand a New Vegas, per ovvi motivi di marmocchio in rampa di lancio, non ci era potuta andare, e così, eccola che nel regno onirico dell’incoscienza incontra Randall Flagg in veste di diavolo tentatore.
C’è da dire che l’alchimia espressa da Odessa Young e Alexander Skarsgård in pochi minuti di condivisione della scena, è più potente di quella tra Young e Mardsen per nove episodi: i due, insieme, funzionano alla grande, forse perché lei è talmente brava da trainare lui. Ho visto, per la prima volta in questa miniserie, il vero Randall Flagg.
Peccato che la tentazione sia risibile: lui le chiede un bacio e in cambio lei avrà salva la vita. Il bacio significherebbe libero accesso, per Flagg, al corpo di Frannie. Lei lo manda a quel paese, fugge e chi ti va a incontrare? Ma Abigail seduta sul portino a suonare la chitarra, che le fa notare quanto sia crudele Dio, ma in fondo che vuoi che sia: i buoni vengono premiati, i cattivi puniti e il premio di Frannie saranno la bellezza di 5 dicasi 5 figli. Che culo, eh?
Prima di chiudere, c’è spazio per il fastidioso stereotipo del magical negro, con la figlia del grano intravista in precedenza che guarisce Frannie con la sola imposizione della mani (e della croce cristiana, perché si sa, nel 2021, il bene assoluto è quello cristiano), affinché possa assolvere alla sua funzione di Madre e Moglie di Stu.
Insomma, dal 1978 non solo non è cambiato niente, ma è addirittura peggiorata la situazione.
Manca solo un controfinale, col siparietto di Randall Flagg che mostra le chiappe e poi lo strazio finisce.
Con un enorme dispiacere per l’occasione buttata al vento e sacrificata sull’altare della mediocrità democristiana.
Se non ne avete ancora abbastanza di The Stand, potete leggere il diario, parallelo al mio, di Fausto Vernazzani su Cinefatti.
Io vi saluto fino alla prossima trasposizione. Vorrei tanto potervi dire che è stato un piacere.

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