Tre posti dove (non) sono stato e dove (non) voglio tornare — II

Nicola Laurenza
M E L A N G E
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5 min readOct 21, 2022

2 - POPOLAC E PODUJEVO, DA “IN COLLINA, LE CITTA’”
Le tradizioni nella vecchia Europa non è che siano meno inquietanti. Almeno da come le mette giù Clive Barker che nella sua prima, iconica raccolta di racconti dei “Books of blood” decide di chiudere il primo volume con una delle storie più disturbanti e visionarie che si possano leggere, ovvero “In collina, le città”.
Se durante la lettura relativamente tranquilla de “La lotteria” si avverte un pulsare sordo e ritmato (“tum, tum”) che solo nelle ultime righe fibrilla fino allo spasimo, Barker è un tipo di scrittore che ha un approccio diverso rispetto a Shirley Jackson: la seconda è una maestra sostenuta, maliziosa e dal tocco gotico raffinato, capace di imbastire trame (a volte anche frustranti) aperte a varie interpretazioni: si pensi a “L’incubo di Hill House”, ma anche al racconto “Lo sposo” contenuto nella stessa edizione italiana (Adelphi) de “La lotteria”, dove non solo non ci viene spiegato cosa sta succedendo ma non siamo sicuri neanche di ciò a cui abbiamo assistito (i fantasmi esistono o no? Lo sposo è davvero dietro quella porta, e perché non apre?); Barker non perde molto tempo in questioni del genere né lascia granché all’immaginazione del lettore: ingrana la quinta, e il connubio di sessualità e orrore viene spiattellato in faccia al lettore sin da subito, con descrizioni particolareggiate che sono ferocemente grand-guignolesche (virato alla Francis Bacon).

L’horror di Barker non ha freni né, verrebbe da dire, la minima decenza. Leggendo i suoi racconti sappiamo di poterci aspettare visceri e interiora sparse senza ritegno ovunque. Ne “In collina, le città” però qualcosa sembra cambiare: anche lì, come ne “La lotteria”, ciò che sembra l’orrore è lontano; lo è almeno all’inizio, quando assistiamo alla difficile storia d’amore tra due inglesi, Mick e Judd, in viaggio lungo la Jugoslavia dopo aver visitato l’Italia. Il loro rapporto sessuale nei campi e la successiva distensione di nervi in automobile sono gli unici momenti sereni di un racconto che monta l’aspettativa con quello stesso ritmo (“tum, tum”) che in Shirley Jackson restava sordo per esplodere alla fine con una sassaiola. Qui invece si fa sempre più potente, come i passi di un gigante. E la rivelazione — non finale, perché sin da subito Barker ci descrive la strana tradizione di Popolac e Podujevo in modo visionario e particolareggiato — che il ritmo del tamburo sono i passi di un vero gigante, un ammasso di esseri umani, decine di migliaia di persone, uomini donne vecchi bambini, imbracate con corde e lacci a formare un enorme leviatano, arriva con una potenza disarmante.
La tradizione è inventata anche qui: non esiste né è mai esistita da nessuna parte in Jugoslavia o nei paesi slavi una “gara” di giganti formati da ammassi umani con cui intere città si muovono, si scontrano o si schiantano al suolo lasciando a terra grumi di sangue e carne umana. Personalmente ricordo (grazie a Sciascia ne “La corda pazza”) processioni sicule con statue di santi rivali che i portatori fanno scontrare per far primeggiare un santo sull’altro: che è pur sempre, su scala minore, materiale e grottesca, una interessante rivisitazione corporea della lotta metafisica tra due potenze celestiali, o un’ennesima rivendicazione di appartenere a una collettività che si muove all’unisono sotto uno stesso simbolo. Ma non è importante quanto ci sia di vero in una lotteria che finisce con un sacrificio umano o in due città che decidono di replicare simbolicamente — cosa? Una guerra mondiale, una lotta civile intestina, una rappresentazione ultra-fanatica del corpo sociale che richiama tutti gli individui a diventare un solo enorme conglomerato? Nel momento in cui uno scrittore riesce a creare in poche pagine la condizione per cui un avvenimento del genere, una situazione incredibile, ci sembra più vera della realtà, allora il racconto fantastico tracima nel racconto realista — lo fa senza che ce ne siamo resi conto. Lo fa senza prendere mai una parte decisa verso la sponda realista ma nascondendo bene i suoi trucchi. Infatti a quel punto, proprio come Mick sul finale de “In collina, le città”, abbracciamo per intero la visione che ci si è parata davanti, avvinti e sconvolti. Ci fagociti pure, ormai è troppo tardi.
La magia orrorifica della letteratura sta soprattutto in questo rapimento dove nulla ha più senso, almeno non con le parole con cui siamo abituati a formulare dei pensieri compiuti. Clive Barker fa parte di un genere di scrittori che, come Shirley Jackson, sono diventati materia rarissima: di quelli che non hanno bisogno di spiegarsi al di fuori di ciò che hanno scritto, o di elemosinare riconoscimento politico o sociale per elevare la propria opera, perché dovrebbe essere — ed è — già tutto lì, chiaro e tondo, per chi sa leggere tra le righe e nelle parole.

Si può pensare che Shirley Jackson, donna scrittrice che per tutta la vita ha combattuto l’incomprensione e lo stigma sociale che la società — e la famiglia — statunitense le imponeva, abbia voluto rappresentare ne “La lotteria” quel grumo di pregiudizi e di arretratezza che sacrifica agli altari della propria sopravvivenza le vite innocenti delle minoranze pur di continuare a perpetuarsi all’interno del proprio corpo sociale; che Barker, cosciente di un’Inghilterra che stava attraversando uno dei periodi più turbolenti del ‘900, avesse tirato i remi in barca contro ogni -ismo che richiamasse ai sacri doveri tradizionali per smantellare, contemporaneamente, i diritti dei più fragili. O addirittura che avesse presentito la tragedia immane che sarebbe scoppiata di lì a qualche anno con le guerre che avrebbero portato alla dissoluzione della Jugoslavia. Probabilmente è così. Ma ciò che resta è quel luogo descritto sulla carta: ovvero una certa maniera di intendere la realtà e il fantastico con la scrittura; non un’evasione bensì un focus su elementi che proprio perché fantastici sono più veri del vero. Un evento che sembra normale, in un posto qualunque, che si rivela tutto tranne che normale, e rende quel luogo il centro di una catastrofe, di una apocalisse. E con una apocalisse finiremo il nostro viaggio.

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