Tre posti dove (non) sono stato e dove (non) voglio tornare — III

Germano Hell Greco
M E L A N G E
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6 min readNov 10, 2022

3- SOLENTINAME, DA “APOCALISSI DI SOLENTINAME
Nella raccolta di racconti del 1977 intitolata “Uno qualunque” (anche conosciuta come “Uno che passa di qui”) lo scrittore argentino Julio Cortàzar ci ha lasciato una delle sue storie più memorabili: “Apocalissi di Solentiname”. Ora, dei luoghi fin qui tracciati — tutti più o meno localizzabili geograficamente, ma in un certo senso simbolo di un’intera nazione o continente condensati in un punto impreciso e vago, dunque posti che potrebbero esistere ma non sono da nessuna parte — Solentiname è l’unico che esiste davvero, che ha una storia concreta e importante in quella che è la storia in gran parte ignorata dell’America Latina.
Apocalissi di Solentiname” è, per usare le parole di Cortàzar stesso, “totalmente fedele ai fatti che sono realmente accaduti”. Solentiname è infatti il nome di una comunità di povera gente, pescatori e contadini, che “il poeta nicaraguense Ernesto Cardenal ha guidato per molti anni su un’isola del Lago Nicaragua” e che Cortàzar visitò negli anni più turbolenti per il Nicaragua.

È necessaria una digressione: negli anni ’70 Cortàzar divenne noto e (negli ambienti di destra) controverso per l’impegno politico che investì a sinistra, soprattutto nelle cause di Cuba e del Nicaragua, contro ogni forma di imperialismo e dittatura. È soprattutto da quel decennio che nella sua opera si fanno sempre più spazio racconti e storie impegnate esplicitamente a sinistra sul versante della lotta per i diritti umani. Ricordiamo che Cortàzar è la stessa persona che ha dato alle stampe in quegli anni “Fantomas contro i vampiri delle multinazionali”, rimontando un fumetto dozzinale messicano in pieno stile surrealista e ribaltandone il senso in un attacco politico esplicito, facendo distribuire nelle edicole la versione “insurrezionale” del fumetto spogliato di ogni ingenuità bidimensionale.

In “Apocalissi di Solentiname” il narratore in prima persona è Cortàzar stesso, arrivato in Costa Rica per una visita alla comunità di Ernesto Cardenal. Questo ci viene confermato già dalle prime righe, un incipit che introduce il lettore nel racconto con grande naturalezza quando, durante una conferenza stampa, al narratore viene chiesto “perché non vivi nel tuo paese, ma cos’è successo con Blow Up così diverso dal tuo racconto, secondo te lo scrittore deve essere impegnato?”. Il racconto che Cortàzar cita è “Le bave del diavolo”, uscito nel 1959 nella raccolta “Le armi segrete”, un racconto che divenne la base per l’adattamento (molto libero) che ne fece Antonioni nel suo capolavoro cinematografico del 1966. Il riferimento di Cortàzar alla sua stessa opera e ad Antonioni non è un vezzo per l’autocitazione o un dettaglio cronachistico neutro: anche in quel racconto, come nel film, l’idea di fotografie che nascondono dettagli agghiaccianti è il nucleo che trasfigura la realtà, alludendo all’orrenda possibilità che ciò che vediamo possa non essere vero ma solo la scorza lucente e banale di un frutto marcissimo. In un certo senso sia il racconto che il film di Antonioni sono un commentario ulteriore ad “Apocalissi di Solentiname”. E anticipano il trauma verso cui il racconto si slancia.

Difatti il narratore visita la comunità di Ernesto, e resta incantato dalla vita dei contadini e dai quadri che dipingono: inizia a fotografarli per avere il ricordo dell’esperienza, “bambini e palme e mucche su uno sfondo violentemente turchino di cielo e di lago appena un po’ più verde” e i quadri con visioni primitive da infanzia del mondo, disegni che puoi immaginare fatti da tanti doganieri Rousseau. Tutto si svolge senza intoppi. Una volta tornato a Parigi il narratore/Cortàzar riafferra i ritmi della sua vita di sempre, fino a quando un giorno ritira gli otto rullini che ha portato a sviluppare. A casa prepara lo schermo nella solitudine della sua stanza, si riempie un bicchiere con rum e ghiaccio, e inizia a scorrere le diapositive col telecomando. Ed è qui che la realtà crolla — o meglio: chiede il conto.

“Passarono le diapositive della messa, piuttosto brutte perché troppo esposte, e così i bambini giocavano in piena luce con denti troppo bianchi. Premevo svogliato il pulsante del cambio, avrei voluto soffermarmi e osservare ogni diapositiva luminosa di ricordo, piccolo mondo fragile di Solentiname circondato dall’acqua e dagli sbirri come lo era il ragazzo che guardai senza capire, avevo premuto il pulsante e il ragazzo era là in un secondo piano nitidissimo, una faccia larga e tesa, piena d’incredulo stupore mentre il suo corpo si rovesciava in avanti, il foro esatto in mezzo alla fronte, la pistola dell’ufficiale che ancora segnava la traiettoria del proiettile, gli altri da una parte con le mitragliatrici, uno sfondo confuso di case e di alberi.”*

Andando avanti con le foto in una trance inarrestabile il narratore si rende conto di aver scoperchiato uno scrigno di orrori, con foto che si fanno sempre più violente: immagini di torture, esecuzioni sommarie e fughe.
Quando torna Claudine, compagna di Cortàzar, questi ha già azzerato il caricatore e sconvolto — ma cercando di non darlo a vedere — si chiude in bagno a vomitare, mentre Claudine ignara comincia a guardare le foto. Foto che non hanno nulla di strano: “Come ti sono venute bene, quella del pesce che ride poi e la mamma con i due bambini e le mucche nel prato; ah, senti, e quell’altra del battesimo nella chiesetta, dimmi chi li ha dipinti, non si leggono le firme”.

Nelle Lezioni di letteratura a Berkeley del 1980 è lo stesso Cortàzar a parlare di “Apocalissi di Solentiname” quale esempio di quell’uso del fantastico che fa nella propria opera: fantastico che non è la costruzione astratta di un mondo che evade consciamente dalla realtà per evitarla ma “serve in fondo per proiettare con maggior chiarezza e forza la realtà che ci circonda. […] Penso che in un racconto di questo tipo l’irruzione di un elemento assolutamente incredibile, assolutamente fantastico in definitiva, renda più reale la realtà, faccia arrivare al lettore quello che, se fosse detto esplicitamente o raccontato letteralmente, sarebbe solo uno dei tanti resoconti sulle cose che accadono, e che invece nel racconto viene proiettato con forza grazie al meccanismo del racconto stesso”.
Forse è per questo che pur (parzialmente) non esistendo né essendo accadute davvero, le storie e i luoghi narrati da Shirley Jackson, Clive Barker, Julio Cortàzar e altri colleghi hanno questa forza archetipica che ci costringe a considerare, almeno per un attimo, il terrificante dubbio che stiano descrivendo la realtà, che questi posti esistano o che, se esistono, comunque sia accaduto realmente ciò che viene narrato e, in definitiva, che il fantastico, l’irruzione di un elemento incredibile in un contesto che non dovrebbe contenerlo, non sia mai gratuito, né un mezzo di evasione.

In un saggio intitolato “Wonder Tales” contenuto nella raccolta (a oggi inedita in Italia) “Languages of truth”, Salman Rushdie, uno che conosce sulla propria pelle il significato di quanto il fantastico possa essere sovversivo e pericoloso, scrive quanto segue (la traduzione è mia):
Vale la pena dire che la fantasia non è un capriccio. Il fantastico non è innocente né evasivo. Il paese delle meraviglie non è un luogo di rifugio, né necessariamente un luogo attraente o simpatico. Può essere — in effetti, di solito lo è — un luogo di carneficina, sfruttamento, crudeltà e paura. La metamorfosi di Kafka è una tragedia. Capitan Uncino vuole uccidere Peter Pan. La strega nella Foresta Nera vuole cucinare Hansel e Gretel. Il lupo in realtà mangia la nonna di Cappuccetto Rosso. Albus Silente viene ucciso e il Signore degli Anelli progetta l’assoggettamento dell’intera Terra di Mezzo.” In definitiva, insomma, “Il Paese delle Meraviglie può essere un luogo imperfetto come la terra”.
Viaggiare con la letteratura non è solo una terapia o un mezzo economico in mancanza di soldi per biglietti aerei. Può voler dire immergersi in acque oscure, affrontare dei traumi e avere mezzi in più per processarli. Senza essersi mossi da casa.

*Le traduzioni citate da Cortàzar provengono da “Apocalissi di Solentiname” ne “I Racconti” (traduzione Flaviarosa Nicoletti Rossini) e dalle “Lezioni di letteratura, Berkeley 1980” (traduzione di Irene Buonafalce), entrambi usciti per Einaudi a cura di Ernesto Franco.

Nicola Laurenza

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Germano Hell Greco
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Kick-Ass Writer. Short Tempered Blogger. Editor in chief.