Ecologia dei Media: maestri di pensiero?

Enrico Viceconte
Management Stories
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14 min readAug 21, 2021

di Enrico Viceconte

Aggiungo un ulteriore contributo per una ”ecologia dei media”, prendendo spunto da un recente articolo di Massimo Cacciari e Giorgio Agamben il cui contenuto è entrato in circolo tra stampa, televisione e web.

Me la prendo, per la seconda volta, con gli intellettuali che rinunciano, non so se consapevolmente, al loro ruolo (migliorare il modo in cui pensiamo) per entrare invece nel processo di produzione di micro-contenuti, dannosi come le microplastiche, che è tipico dell’industria dei media. Maestri del pensiero che dovrebbero insegnarci a ragionare in modo migliore e che invece, credo per accattonare click di attenzione, si adeguano a logiche di produzione e commercializzazione di contenuti il pillole che, come abbiamo detto altre volte, contribuiscono alla tossicità dell’ecosistema dei media.

Metto in guardia dai micro-contenuti, anche se proposti da un filosofo famoso. Che temo un giorno apparire su TikTok con una sentenza filmata, un aforisma a mezzobusto sulla verità, un balletto davanti alla lavagna. Ci attendiamo dagli intellettuali studi estesi e ben argomentati da cui imparare a ragionare. Invece troviamo brevi esternazioni semplificate o invettive che mirano a rimbalzare nei media, come in un flipper emozionale che energizza il moto della palla, creando discussione animata e scomposta nei talk show. Ripeto, a scanso di equivoci, che la mia posizione non è contro il ruolo degli intellettuali ma contro il tradimento di quel ruolo atteso. Posizione “di sinistra”, la mia, opposta a quella “di destra” che vede gli intellettuali come una élite supponente e parassita che parla difficile e vuole fottere le persone di “buon senso” che lavorano sodo e si confrontano con lo stipendio a fine mese.

Quando si lancia una palla nel flipper, o nel bigliardino sulla spiaggia su cui si accaniscono alle manopole le due squadre contrapposte, è difficile prevedere quello che succederà. Cacciari e Agamben, in vista dell’estate, hanno buttato una palla nel bigliardino sulla spiaggia. Ma purtroppo, credo per ingenuità, l’hanno buttata a favore della squadra sbagliata.

In coerenza col mio rispetto del ruolo dell’intellettuale, qualche post fa presi posizione in difesa di una opinione estiva quasi indifendibile di Giorgio Agamben sul tema della didattica a distanza nelle Università.

https://www.linkedin.com/pulse/leggere-frettolosamente-scrivere-concisamente-enrico-viceconte/

In un brevissimo articolo, il filosofo parlava di “barbarie” e tuonava contro i professori che si assoggettano all’aula virtuale “professori che accettano — come stanno facendo in massa — di sottoporsi alla nuova dittatura telematica (sic) e di tenere i loro corsi solamente on line sono il perfetto equivalente dei docenti universitari che nel 1931 giurarono fedeltà al regime fascista (sic). Come avvenne allora, è probabile che solo quindici su mille si rifiuteranno, ma certamente i loro nomi saranno ricordati accanto a quelli dei quindici docenti che non giurarono”.

Detta così, quella opinione, accompagnata dall’esempio esagerato del giuramento di fedeltà al fascismo, mi parve molto discutibile. Però sostenni benevolmente:

1) che a un intellettuale è consentito essere esagerato per stimolare energicamente la riflessione critica e per opporsi al pensiero corrente

2) che leggendo Agamben nei suoi testi più articolati, in particolare quelli sullo “stato di eccezione”, si poteva ascrivere quella opinione, che appariva strampalata, ad un’interessante critica all’ampliamento strisciante della zona di accettazione di certe cose pericolose per la libertà.

3) che l’errore di Agamben fosse nella scelta, per formulare la sua teoria, invece che di un saggio, di un testo breve: un’ invettiva in formato Tik Tok finita in pasto ai media.

In altre parole, dicevo che pur non essendo d’accordo sul contenuto e la forma di quel testo breve del filosofo, lui avesse il diritto e qualche ragione a sollevare il problema, per la questione dello “stato di eccezione” da lui precedentemente lodevolmente sollevata in alcuni saggi. Se solo si fosse letto il suo post nel complesso della sua opera filosofica. Insomma ritenevo che l’errore fosse nella semplificazione con cui egli aveva enunciato e lanciato nel bigliardino quella opinione, rischiando di essere frainteso dai più che non ne hanno letto l’opera omnia e che faticano con il linguaggio filosofico.

Fui molto tollerante con una posizione che non condividevo, nel rispetto del lavoro intellettuale che c’era dietro. Mi dava invece fastidio l’adeguarsi dei filosofi ai format che richiedono testi brevi che catturano l’attenzione. Mi sembrava che Agamben si fosse spostato progressivamente verso l’approssimazione dell’invettiva colorita richiesta dal web, contravvenendo non solo allo specifico del discorso filosofico, ma anche alle sue proprie convinzioni in tema di stato di eccezione. Uno stato di eccezione che giustificava — secondo lui — l’esagerazione retorica e offensiva dell’esempio dei professori acquiescenti al giuramento fascista. Da professore che ha usato la didattica a distanza scossi la testa pensando a un incidente di percorso che non si sarebbe ripetuto. Anche per l’eco delle pernacchie che aveva suscitato.

Invece pochi giorni fa il filosofo Agamben si ripete. Assieme con Massimo Cacciari, nello stesso sito dell’Istituto Italiano per gli Studi filosofici, egli scrive un’altra invettiva, con un testo breve e sopra le righe.

In questo caso il tema è il “Green Pass” che, secondo i due filosofi, rappresenta uno slittamento verso il controllo delle masse, giustificato dallo stato di eccezione. Insomma se la “Didattica a Distanza” è associata ad una presunta “dittatura telematica” (sic) qui siamo ad evocare la “dittatura sanitaria”, così come nei bar sport e negli autobus, e non nei circoli filosofici, viene intesa.

Qualche secchione come me si è preso la briga di andarsi a leggere alcuni testi di Agamben pubblicati sula rivista Quodilibet da lui diretta che mettono in relazione COVID19 allo stato di eccezione e provare a capire l’origine di quell’invettiva. Tutti gli altri, invece, (opinionisti da talk show, vicini di ombrellone, leader della destra e libertari-integralisti) si sono lanciati senza approfondire sull’opinione tascabile apparsa su Facebook come cani a cui è stato buttato un osso.

A questo punto mi sento in pieno diritto di far notare che perseverare è diabolico. A un intellettuale è chiesto di essere “maestro di pensiero”, vale a dire di insegnarci a pensare in modo ben formato. A un intellettuale è chiesto anche di non fare strafalcioni nei fondamentali del pensiero, anche quando è forte la tentazione della frase a effetto, detta nel momento in cui il flipper dei media non cerca altro. Mi fa incazzare vedere le parole e il ragionamento dei rispettati Cacciari e Agamben, assoldati in “Libero”, “Il Giornale” e “il Tempo”, per i fini politici che tali quotidiani perseguono. Chi va al mare questi pesci piglia.

Correggiamo gli strafalcioni del pensiero.

Cacciari e Agamben, quando scrivono che il Green Pass può portare alla dittatura, sembrano non guardarsi dalla fallacia dell’induzione: se in Unione Sovietica la tirannide è iniziata con l’imposizione di un passaporto per gli spostamenti interni, allora potrebbe succedere in futuro anche con il Green Pass nel resto del mondo.

L’argomento anti-induttivista di Bertrand Russel del tacchino che inferisce la benevolenza del padrone che lo nutre, fin quando, a Natale, questi gli tira il collo, dovrebbe valere anche se inferiamo la malevolenza del governo che mette misure restrittive della mobilità avendo osservato molti governi che lo hanno fatto in quanto malevoli (URSS e Cina). La benevolenza del padrone del tacchino o la malevolenza del governo non possono essere dedotte ma indotte. Un precedente, una osservazione, anche se ripetuta, non dà diritto a un’ inferenza, insegna Russel. Ma forse Russel non rientra tra gli autori preferiti dai due filosofi, che, mischiando una propria teoria (derivante da un ragionamento induttivo) con un sospetto, sembrano sussurrare nell’orecchio dei cittadini che esiste un sistema occulto che vuole la tirannide (ma Cacciari in televisione, più che sussurrare, urla sgarbatamente come Sgarbi). I sospetti, si sa, sono una ghiotta occasione per l’immaginazione di complotti. Che è un hobby di certa gentarella di destra (ma anche di certa sinistra) a cui i due filosofi forniscono stupidamente un bel giocattolo.

Forse li ho fraintesi. Io che di solito mi sforzo di capire, forse li ho fraintesi perché non sono alla loro altezza. Ma a maggior ragione possono essere fraintesi da certe destre (e certe sinistre) complottiste che credo non si sforzino, come me, di capire i filosofi ma di cercare conferme ai propri sospetti. Un filosofo può essere ostico (e forse lo deve essere) ma dovrebbe essere un professionista della parola, capace di non essere frainteso quando a parla a dei non filosofi. E poi… può capitare di essere frainteso a un filosofo, ma non a due contemporaneamente, che si prendono la briga di scrivere un testo congiunto senza che uno chieda all’altro: “Massimo, aspetta, non ti pare che stiamo dicendo una cazzata?”

Sono convinto che li abbiamo tutti fraintesi. Però la cosa non mi piace. Anche perché a suggerire prudenza nell’uso delle parole non serve sposare la logica di Russel o il concetto popperiano anti induzionistico di falsificazione delle teorie. Non serve aderire alla filosofia anglosassone contemporanea, nei suoi filoni analitico e neopositivista, sarebbe difficile per Cacciari e Agamben intrisi di filosofia tedesca. Basterebbe dare retta ad Aristotele che nella “Retorica” affronta certi rischi insiti nel linguaggio. Ad esempio quello degli “entimemi”.

Cosa sono gli entimemi? Sono forme della retorica che sollecitano una inferenza per analogia. Insomma presentare un esempio particolare per sollecitare un ragionamento induttivo che porta a una generalizzazione.

Dice Aristotele: «Si è già detto che l’esempio è una forma di induzione, e intorno a quali soggetti tale induzione si eserciti. Esso non sta né nella relazione della parte verso il tutto, né del tutto verso la parte, né del tutto verso il tutto, ma della parte verso la parte, del simile verso il simile — quando entrambi i termini rientrino nello stesso genere, ma uno sia più noto dell’altro, si ha appunto un esempio. Ad esempio, Dionisio aspira alla tirannide, perché ha domandato un corpo di guardia personale (una scorta); infatti anche Pisistrato in precedenza, complottando, aveva chiesto una scorta, e, dopo averla ottenuta, conquistò la tirannide — e lo stesso fece Teagene a Megara […] Tutti questi esempi fanno parte dello stesso concetto universale, cioè che colui che aspira alla tirannide domanda una scorta».

Insomma Agamben e Cacciari fanno balenare l’idea che siccome in URSS e in Cina la tirannide si è manifestata con il tracciamento dei movimenti delle persone, anche nei paesi che introducono il passaporto per il COVID19 si può manifestare la tirannide. L’entimema che sollecita un’ inferenza analogica è considerato fallace da Aristotele. Seppur utile nelle dispute politiche per muovere le emozioni di chi giudica.

L’entimema (ἐνθυµηµάτων) sta a indicare il sillogismo retorico fondato su premesse che sono null’altro che esempi. L’inferenza dalle premesse è di tipo analogico perché non è possibile un’ inferenza logica (che richiederebbe premesse certe).

Nella sua accezione non filosofica, cercando sul mio Rocci del liceo ἐνθυµηµάτων, trovo: “pensiero”, “riflessione”, “considerazione”, “cogitazione”. Il suo etimo è composto da θύµος più la preposizione ἐν. Il sostantivo θύµος è una parola dal sanscrito per indicare il fumo, il vapore; da qui il suo significato di animo inteso sia come sede della volontà che delle passioni, che del pensiero più in generale. Sulla validità di un’inferenza derivata da un entimema, Aristotele è categorico: “esse non trattano di null’altro se non di come suscitare nel giudice un certo sentimento, mentre non mostrano nulla a proposito di quelle argomentazioni atte a ottenere credibilità, conformi all’arte, ma (proprio) questo è il punto a partire dal quale uno diventa abile nel dimostrare per entimema [uno è abile se sa suscitare un certo sentimento]” (οὐδὲν γὰρ ἐν αὐτοῖς ἄλλο πρα γµατεύονται πλὴν ὅπως τὸν κριτὴν ποιόν τινα ποιήσωσιν, περὶ δὲ τῶν ἐντέχνων πίστεων οὐδὲν δεικνύουσιν, τοῦτο δ’ ἐστὶν ὅθεν ἄν τις γένοιτο ἐνθυµηµατικός).

La paura della tirannia sovietica è il sentimento alla base dell’entimema usato da Agamben e Cacciari: far temere la possibile tirannide di Dionisio evocando la tirannide di Pisistrato e Teagene; suscitare, per analogia, l’immagine del povero ministro Speranza con le sembianze di un Lavrentij Berija. Immagine che è sicuramente piaciuta a Giorgia Meloni e che le sarà utile per raccattare qualche altro voto in vista delle prossime elezioni.

La nostra Giorgia è una persona che cerca continuamente, stimolando il pensiero analogico, di far valere il sillogismo difettoso (un immigrato A è un delinquente, B è un immigrato, allora B è un delinquente). La leader dell’opposizione (“Io Sono Giorgia: Sono Una Donna, Sono Una Madre, Sono Cristiana”), d’altro canto omette di ricordare (o forse non lo sa) che Medea era una Madre (che uccise i figli), che Lucrezia Borgia era una Cristiana (figlia di un Papa) avvelenatrice ed incestuosa ed entrambe erano Donne.

La leader si è diplomata all’Istituto Tecnico professionale “Amerigo Vespucci” di Roma e poi ha cominciato subito a fare politica senza perdere tempo con la laurea. Le manca però, temo, un po’di cultura classica e storica. Non credo che la leader della destra, il cui pensiero, a quanto pare, ha influenza sul suo elettorato si sia mai confrontata con Pisistrato e Teagene. E le va bene perché quegli esempi sarebbero scomodi a chi invita a leggere il fascismo con un’ottica negazionista.

Se conoscesse la storia di Pisistrato, la Meloni avrebbe però una ghiotta occasione di dir male della sinistra, ricordando che in Francia il socialista Mitterrand, esattamente come Pisistrato e Teagene, invocando lo “stato di necessità” per il terrorismo, ottenne un corpo di guardia personale e subito dopo cominciò a intercettare politici, giornalisti ed intellettuali a lui ostili (“colui che aspira alla tirannide domanda una scorta”).

Se qualcuno, più colto della Meloni e del suo elettorato, usasse il caso di Mitterrand per screditare la sinistra ne avrebbe un profitto politico a destra, ma incorrerebbe nell’errore logico segnalato da Aristotele. Perché il contesto della Francia della Quinta Repubblica di Mitterrand non è quello della Siracusa di Dionisio e della Megara di Teagene e perché in Francia il sistema democratico seppe (compresa la sinistra) reagire a quella tentazione di tirannide, se mai ci fu. Tanto meno il contesto di Mitterrand è il contesto della pandemia in cui qualcuno ipotizza dittature telematiche e sanitarie. La democrazia della Grecia antica è ben diversa da quella occidentale del ‘900, e Aristotele sapeva astrarre il suo ragionamento dai contesti, portandosi a un livello logico superiore a cui il testo di Cacciari e Agamben non arriva avendo indebitamente cortocircuitato l’universale con il particolare che sono a due livelli diversi.

La fallacia dell’analogia

L’inquinamento dei media con immagini “suggestive”, basate sull’analogia, per quanto già presente all’epoca di Aristotele, come si legge nella “Retorica”, oggi è ancora più pericoloso per la presenza dei media elettronici. Ci aspetteremmo dagli intellettuali di oggi una vigilanza lucida, almeno come quella dello Stagirita.

Tra l’altro, il filosofo greco se la prende col ragionamento per analogia non solo nella Retorica ma anche negli “Analitici primi” con il seguente ottimo esempio.

Schematizziamo.

· Per i Tebani la guerra contro i Focesi, popolo ad essi confinante, è stata un male.

· Da questo precedente storico gli Ateniesi dovrebbero trarre un prezioso insegnamento, evitando di fare guerra ai Tebani, che sono appunto un popolo confinante, come i Focesi lo erano per i Tebani.

Nell’esempio Aristotele mostra due situazioni che presentano una serie di caratteristiche analoghe:

1. Situazione A. I Tebani sono confinanti dei Focesi; i Tebani hanno mosso guerra ai Focesi; la guerra ha avuto conseguenze negative per i Tebani.

2. Situazione B. Gli Ateniesi sono confinanti dei Tebani, gli Ateniesi vorrebbero attaccare i Tebani.

L’inferenza analogica procede da A a B, nel senso che le proprietà comuni alle due situazioni considerate (l’analogia) consentono di proiettare le restanti proprietà della situazione meglio nota A (le conseguenze negative della guerra fra confinanti) sulla situazione B. L’ argomento analogico procede da un caso particolare a un secondo caso particolare.

Passando dai Tebani ai Talebani (c’è un’assonanza; si può inferire qualcosa?), oggi qualcuno suggerisce, in base all’esperienza di secoli di guerre in quel teatro, che è sempre meglio lasciare in pace l’Afghanistan. Come nella barzelletta del Cavaliere Nero di Gigi Proietti.

Credo che alcune tragedie strazianti della storia, dipendano da errori banali e ridicoli del ragionamento. Dobbiamo prendere sul serio gli strafalcioni della logica.

Non ho fatto l’Istituto tecnico come la Meloni. 5 anni di liceo classico (poi ho studiato ingegneria) mi sono bastati per andarmi a trovare il parere di Aristotele in rete sulle argomentazioni analogiche che mi facevano storcere il naso. Forse proprio per formazione scientifica e tecnica non direi mai: “non imbarcatevi mai su quella nave, ricordate il Titanic?”. Spiegherei invece perché quella nave non è sicura. E darei una valutazione del rischio. In genere, per le navi attuali, molto basso.

Cacciari e Agamben, che fanno un altro mestiere, non hanno bisogno di Googlare come ho fatto io perché conoscono bene ogni frase della “Retorica”, degli “Analitici primi” e dell’”Etica Nicomachea”. Prima di dire che una guardia personale o un passaporto verde “fanno tirannide”, potrebbero anche usare le naturali difese anti-induttiviste del buon senso comune che avverte: “una rondine non fa primavera”. Frase che, forse non tutti sanno, è ancora di Aristotele (Etica Nicomachea).

Sorge spontanea allora la domanda: i due filosofi hanno volontariamente usato un entimema per suscitare un’inferenza analogica e un’induzione fallace? Hanno corso il rischio volontariamente di apparire dei retori che, attraverso un’analogia sofistica, vogliono muovere le passioni del θύµος delle masse, privilegiando il πάϑος rispetto al λόγος? l’analogico al logico? Lo hanno fatto volontariamente, pur sapendo di quanto πάϑος si nutrono la rete e i talk show? Volontariamente hanno desistito ad opporsi nelle opportune sedi tecniche e scientifiche, per la sacrosanta questione dello stato di necessità, alle deliberazione dei comitati etici e bioetici che hanno supportato le decisioni governative? Volontariamente hanno usato, invece, i post e i talk show per contrapporsi agli scienziati di formazione medica usando toni da bar?

Parlo, ad esempio, di un dibattito TV di Cacciari con l’infettivologo Galli in cui il filosofo accusa il medico di non capir nulla (vedi immagine di copertina). Urlando come suo solito; mettendoci pathos, appunto. Che piuttosto chiamerei scostumatezza. Un dibattito sul quale i post facebook della stampa di destra titolano: “Cacciari demolisce Galli!” Per inciso quel tipo di titoli di cui ha beneficiato l’argomentazione di Cacciari ha una serie di varianti usate per attirare un certo pubblico avvezzo agli stilemi sportivo-pornografici (Tizio umilia caio! Tizio asfalta Caio!). Immondizia. Piena solidarietà a Galli che fa bene signorilmente a ridere come a una barzelletta e che avrebbe potuto aspettarsi di essere insultato, come è avvenuto, da una Santanchè, ma non da una persona di cultura.

Per usare anch’io come Cacciari il linguaggio zoppicante e immaginifico delle analogie: chi va con la Rete questi pesci piglia. Chi va al forno (o a Rete4) si infarina. Chi va con lo zoppo (o con lo zapping) impara a zoppicare.

“Capisce o no?” sbrocca Cacciari. Il ragionamento scazonte di Cacciari non può essere capito (né da Galli che ragiona da scienziato né tanto meno dallo spettatore di Rete 4 o dal lettore di Libero che credono invece di averlo capito). Non può essere capito perché zoppica volendo correre, nei pochi minuti del dibattito, col piede zoppo di un’analogia fallace e su un carico di virulenza del tono della voce. Il ragionamento Tik Tok urlato da Cacciari è sbagliato. Nel contenuto e nella forma, nel merito e nel metodo.

Un modo alternativo di ragionare

Abbiamo due diritti in contrapposizione:

· Tizio, che è goloso ma non vaccinato, rivendica il diritto di poter entrare quando gli aggrada in un ristorante per gustarsi una pizza al chiuso

· Caio, che è immuno-depresso e fragile, rivendica il diritto di potersi sentire sicuro di non essere contagiato perché potrebbe morire

non c’è bisogno di aver studiato etica per dare una risposta. Basta considerare i rischi per Tizio e per Caio. Nei quali rischi, apprezzando il discorso sul pericolo dello stato di necessità, vogliamo includere il rischio, per Tizio e Caio, che in un futuro, per effetto della logica del tracciamento introdotta dal Green Pass, si potrebbero trovare a vivere sotto un governo tirannico come quello Sovietico, Cinese, Siracusano o Megaridese che se ne approfitti.

· Il rischio Green Pass per Tizio è dunque la somma del rischio di non poter andare al ristorante quando ne ha desiderio più il rischio di trovarsi, in futuro, in una dittatura.

· Il rischio Green Pass per Caio è la somma del rischio di ammalarsi gravemente più il rischio di trovarsi, in futuro, in una dittatura.

Il rischio dittatura lo stiamo calcolando in base ad un entimema, vale a dire un ragionamento analogico ed induttivo basato sui casi osservati in Urss e in Cina. Come nel caso di Pisistrato e Dionisio. In questa valutazione del “rischio tirannia” non sto però tenendo conto di azioni di mitigazione che possono essere prese da un governo ancora democratico, come la V Repubblica di Mitterrand, per evitare futuri orwelliani.

Aristotele non aveva a disposizione i concetti di risk management oggi disponibili. Se li avesse avuti, li avrebbe sicuramente inclusi nelle sue opere e quindi anche Cacciari e Agamben avrebbero ragionato così. Ho parlato del rischio per Tizio e per Caio e non del rischio per la comunità in cui vivono. Se lo avessi fatto avrei dovuto soppesare il rischio di prolungare la pandemia (alto) e quello di trovarsi in una dittatura (basso).

Il dibattito tra Cacciari e Galli non è andato così. E’ giusto ridere, come ha fatto Galli, della dittatura sanitaria come a una barzelletta di Proietti. E’giusto disperarsi per l’imperversare di talk show con queste regole di ingaggio. E del flipper dei social media che fa rimbalzare ovunque la pallina.

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