La leadership di Adriano Olivetti

Enrico Viceconte
Management Stories
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4 min readMar 12, 2016

Nel 2012 le Edizioni di Comunità, fondate da Adriano Olivetti, hanno ripreso la loro attività con un programma editoriale che prevede la pubblicazione di tutta l’opera e di alcuni inediti di Adriano Olivetti, dei migliori studi critici, e di alcuni titoli significativi del suo catalogo storico. Di quelle edizioni trovo, nella sede dell’Istituto Adriano Olivetti di Ancona, una copia del volume “Ai lavoratori” e, sfogliando il libro, provo commozione. Ringrazio Sabrina Dubbini dell’ISTAO che me ne ha regalato una copia.

Quel libro mi emoziona forse perché uno dei due discorsi di Adriano Olivetti, quello ai lavoratori di Ivrea, è del 1954, l’anno in cui sono nato e, leggendo quelle parole, mi sembra di veder scorrere il tempo della mia vita, in parte trascorso in fabbrica, all’Italsider, in parte, la mia infanzia, trascorso in una comunità, quella di Bagnoli, che viveva intorno a quella fabbrica dove avevano lavorato mio padre e mio nonno. L’altro discorso è del 1955 ed è rivolto ai lavoratori dell’Olivetti di Pozzuoli, nel giorno dell’inaugurazione della fabbrica, affacciata su uno dei golfi più belli del mondo ed immersa tra i pini, la macchia mediterranea e le vestigia archeologiche. Un capolavoro dell’architettura moderna che fioriva nel paesaggio, allietando le passeggiate flegree della mia giovinezza. Una fabbrica metalmeccanica che si fonde al tessuto di bellezza del paesaggio italiano.
E’ dello storico dell’arte Slavatore Settis, e non di uno storico dell’industria, l’introduzione ad un altro libro di Adriano Olivetti, Il cammino della comunità, in cui si parla delle “piccole patrie” degli italiani, le cento comunità dei luoghi, delle opere e i giorni degli uomini. Salvatore Settis sostiene da anni l’unicità italiana, in cui lo spazio vive di continuità e contiguità tra monumenti, opere d’arte, tessuto architettonico e urbanistico, paesaggi naturali antropizzati, documenti. L’utopia realizzata da Adriano Olivetti era quella di un progetto industriale non disgiunto da un progetto sociale, da un progetto etico, da un progetto estetico che spaziava dai luoghi del lavoro alle relazioni di questi con il territorio, al design dei prodotti, all’immagine coordinata dell’azienda alla comunicazione d’impresa. Un progetto globale di autentica e completa innovazione che, visionariamente, aveva previsto con largo anticipo e poi realizzato, qui in Italia e prima che nel resto del mondo, la tecnologia per l’ elaborazione elettronica in ogni luogo di lavoro. Una visione che aveva creato nel tempo competenze e capability straordinariamente avanzate non solo nelle tecnologie, ma anche nell’industrial design, nella comunicazione. Un mileu culturale che portava in fabbrica, accanto agli operai e agli ingegneri, intellettuali, poeti, artisti, scienziati come Cesare Musatti, Ettore Sottsass, Furio Colombo, Giovanni Giudici, Franco Fortini, Paolo Volponi, Leonardo Sinisgalli, Geno Pampaloni, Giorgio Soavi, Ottiero Ottieri, Libero Bigiaretti.
Nei discorsi di Adriano Olivetti ai lavoratori non c’è traccia di paternalismo anche quando l’Ingegnere dice:
“Può l’industria darsi dei fini? Si trovano questi soltanto nell’indice dei profitti? Non vi è al di là del ritmo apparente qualcosa di più affascinante, una destinazione, una vocazione anche nella vita di una fabbrica?” o quando dice: “….così, di fronte al golfo più singolare del mondo, questa fabbrica si è elevata , nell’idea dell’architetto, in rispetto della bellezza dei luoghi e affinché la bellezza fosse di conforto al lavoro di ogni giorno. Abbiamo voluto che anche la natura accompagnasse la vita della fabbrica. La natura rischiava di essere ripudiata da un edificio troppo grande, nel quale le chiuse muraglie, l’aria condizionata, la luce artificiale, avrebbero tentato di trasformare giorno per giorno l’uomo in un essere diverso da quello che vi era entrato, pur pieno di speranza. La fabbrica è stata quindi concepita alla misura dell’uomo, perché questi trovasse nel suo ordinato posto di lavoro uno strumento di riscatto e non un congegno di sofferenza…”
Non c’è traccia di paternalismo come non c’è nessuna affinità con il marketing interno delle newsletter e delle intranet di oggi. Né dell’epos del Corporate Storytelling in Power Point, che celebra la sfida e il successo, né della messa in scena dell’identità e dei valori aziendali degli enfatici rituali paratelevisivi e metatelevisivi di scenografiche convention. C’era invece allora la volontà che la fabbrica fosse luogo di diffusione della cultura, di elaborazione di uno “stile industriale” che fosse per tutti i lavoratori.
In Italsider, in quegli anni lontani, mio padre e ogni lavoratore ricevevano i libri aziendali con racconti commissionati ai maggiori scrittori del tempo e classici del Teatro che venivano poi recitati da grandi attori al cinema teatro Ferropoli di Bagnoli. Di quegli anni resta un lontano ricordo, come se quelle narrazioni moderne fossero, post modernamente, svanite nel nulla. Senza dare spazio ad altro.
Dalla conoscenza di quella eredità formatori e consulenti di organizzazione possono cercare di ridare sostanza ed anima al discorso vuoto delle Carte dei “valori aziendali” e delle dichiarazioni stereotipate di assunzione di una Corporate Social Responsibility. Una narrazione che, dati gli esempi di oggi, non convince affatto. Che non parla al cuore dei lavoratori. Che non fornisce alcuna visione del business, forse perché chi immagina il “marketing interno” tale visione non ce l‘ha.
Ciò che è bello e buono funziona anche bene. Questo dovrebbe essere un messaggio che stimola lo sguardo etico e quello estetico sull’organizzazione, ristrutturandone la percezione.
Scrive Luciano Gallino nella presentazione al volume “in questi discorsi colpiscono i modi del comunicare e alcune affermazioni che si potrebbero definire datate, salvo poi scoprire che sono quanto mai attuali anche se ignorate dai contemporanei. Olivetti non vuol sembrare un imprenditore amico che parla agli amici operai, ma parla come un dirigente cosciente delle proprie responsabilità e determinato a farvi fronte”.
La leadership, di cui si parla oggi in un numero infinito di occasioni formative, può nascere anche da un modello di circa sessanta anni fa. Che ancora stupisce per forza e capacità di generare innovazione.

Di Enrico Viceconte, ripubblicato dal Blog del Bicocca Training & Development Center

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