Camminando camminando

Spunti dal concerto di Angelo Branduardi

Marco Castellani
StarDust
7 min readMar 12, 2017

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C’è sempre un po’ di timore riaccostandoci ad una persona che, tramite a sua arte, è stata (ed è ancora, nel profondo) così importante per la tua scoperta del fascino della musica, della magia profonda di cui è intrisa, che ti mette in contatto quasi con altri universi, ti collega alle stelle tramite connessioni velocissime ed inondabili, varchi nello spaziotempo e nella coscienza, inaccessibili all’indagine razionale. C’è quel timore che non riesci a cacciar via, che nasce da tutte le inevitabili aspettative che hai nell’incrociare in carne ed ossa chi ha reso possibile questa magia, chi se ne è reso tramite.

Quasi ti chiedi se è meglio rimanere nei tuoi sogni, evitare il confronto con il reale, sfilarti da ogni paragone scomodo tra quanto ti aspetti e quanto esiste, coltivando il tuo sogno musicale solo in te stesso, in una sorta di riottosa distanza da ogni incarnazione reale.

Però la realtà è testarda. E ti chiama.

Allora ci vai pur con questa inevitabile trepidazione, ed insieme con una curiosità luminosa. Di vedere se il sogno che ti ha portato fino a qui è ancora integro, se vince il passare del tempo.

E quanto, quanto tempo.

Quella storia con Angelo, che per chi scrive iniziò quando acquistò il suo primo vero 33 giri di canzoni, Alla fiera dell’est. Colpitissimo per un ascolto (a quanto ci si può ricordare) radiofonico. Fu colpo di fulmine, amore a prima vista. O meglio, dalle prime note.

Quel ragazzo poteva avere tredici anni, più o meno. E quel ragazzo, quarant’anni dopo, era all’Auditorium Parco della Musica, con la moglie, per ascoltare ancora colui che fece vibrare il suo cuore così profondamente, nel lontano 1974.

Ogni amore è una storia, peraltro. E ogni amore ha momenti di vicinanza, di distacco, poi di ritorni. Corsi e ricorsi. Così la mia storia con la musica di Angelo.

Ci fu un tempo che, chissà come mai, decisi che ormai ero cresciuto (che parola sconveniente e banale!), che la avevo superata, che mi era servita e me ne ero nutrito, ma ero pronto per altro. Grazie al cielo il cuore è sovranamente indifferente alle decisioni della testa, ed è il cuore che mantiene quella pulsazione sonora che manda avanti il mondo — quello tuo personale e quello universale (molto più intrecciati di quanto tu pensi).

Lo so. Sto raccontando di me, e non del concerto. Non ancora, almeno. Ma ogni storia d’amore è una storia che non può essere oggettivata, che è carne e sangue di chi la vive. Che si connette alle fibre costitutive di chi la sta vivendo.

E Potrei scrivere ancora tanto, di questa mia storia che si snoda sui decenni. Ma no, ora mi forzo ad un avanti veloce… ed eccomi. Eccomi all’Auditorium, e siamo arrivati all’altro ieri.

Arrivo e la prima bella sensazione è di ritrovare gli amici della Locanda, donne e uomini cresciuti con la mia stessa passione. E’ già bello sentire una condivisione di quanto senti più profondo nel cuore, che si rivolta come un guanto (l’interno diventa esterno) e si connette così con quello d’altri, in una dimensione sociale che è più profonda e robusta, più importante che mai in questa società tendenzialmente atomizzata.

Ora però siamo seduti. Ora si aspetta davvero l’inizio di qualcosa. Che speriamo sia una festa.

Angelo ha alternato sapientemente violino e chitarra

Così si poteva leggere nella presentazione dell’evento, dal sito dell’Auditorium. Lo riporto perché mi pare, a valle di ciò che ho visto ed udito, di una piacevolissima esattezza e precisione.

Angelo Branduardi asseconda da tempo la sua versatilità in campo musicale presentandosi al pubblico con concerti basati su diverse formazioni. Può così passare dalla classica formazione “rock”, con basso e batteria, all’esecuzione del repertorio di musica del passato, che fa parte della collana “Futuro Antico”, accompagnato dagli strumenti d’epoca del gruppo “Scintille di Musica”, diretto da Francesca Torelli. Ultimamente Branduardi è molto attratto dall’idea del “meno c’è, più c’è”, dal gusto della sottrazione, dalla volontà di spogliare i suoi brani. La sua musica, tornando ad essere totalmente acustica, acquista un respiro diverso, quasi esoterico, alla ricerca dell’emozione profonda e il suo partner naturale in questa esperienza non poteva che essere Maurizio Fabrizio, compositore, arrangiatore polistrumentista, autore di grandi successi, scritti per gli interpreti storici della musica italiana, oltreché collaboratore e amico di Angelo fin dagli anni 70. Il “Concerto in due” sarà basato sull’abilità dei due musicisti, sulla loro capacità di passare con grande facilità da uno strumento all’altro, dalle chitarre al violino, ai flauti, al pianoforte e chissà a quanto altro! Il pubblico potrà così apprezzare da vicino ogni particolare dell’intesa che lega Angelo e Maurizio. Un concerto intimo per favorire lo scambio d’emozione tra il musicista e il pubblico, con una scaletta ricca con brani poco eseguiti e i “classici” di Branduardi reinterpretati privilegiando il sentire con l’anima, chiedendo allo spettatore di riempire lo spazio lasciato libero.

E’ un Angelo in buona forma, mi sembra, quello che spunta sul palco pochi minuti dopo le 21 di venerdì sera. Anzi sono in due, lui e Maurizio Fabrizio, suo collaboratore — a quanto mi risulta — fino dal secondo album, La luna.

Iniziano con i brani di musica antica. E quello che apprezzi subito è intanto la voce di Angelo. Che c’è, c’è ancora, segue bene e cesella i brani. E’ duttile, dolcemente espressiva, delicata. L’altra impressione — parallela-— è l’affiatamento mirabile che regna nella coppia. Maurizio non l’avevo mai visto dal vivo, e di per sé è una sorpresa magnifica. Bravissimo con la chitarra, sobrio e quasi umile nel presentarsi, ammirabile nel mettersi a servizio dell’evento senza rivendicare in alcun gesto o espressione uno spazio e una attenzione speciale, che pur si meriterebbe ampiamente.

Mauruzio Fabrizio, umile e grande

Il duo è capace di far musica d’incanto.

E’ musica che richiede più attenzione della classiche canzonette, quelle con basso chitarra e batteria (eventualmente, tastiere). Ma che ripaga. Gli applausi non mancano, da subito. Angelo è visibilmente rallegrato, tanto che dopo qualche brano tradisce la sorpresa… Ma la domanda s’impone: allora, vi piace davvero!

Il menestrello passa dalla chitarra al violino, Maurizio lo accompagna (ma il termine è assai riduttivo, in questo caso) con la chitarra e a volte con una tastiera. Sempre nella massima semplicità di suono, in un ricercato ed efficace minimalismo. Che ristora le orecchie — Deo gratias! — da tanta superflua opulenza sonora, in cui siamo quasi sempre immersi.

La sala relativamente piccola e le luci, oltre alla formazione ridotta (ma qui è un modo per esprimere ricchezza, appunto) riescono quasi da subito a donare un tono di intimità alla serata. Non è un concerto da stadio, grazie al cielo. Qui tu sei parte dell’evento, non sei spettatore passivo: sei anzi in un silenzio attivo, mentre anche i cori da stadio al confronto sono un dimenarsi sostanzialmente passivo, secondario rispetto a quanto avviene sul palco.

Non qui. Palco ed uditorio assai presto sono integrati, procedono insieme. Una cosa sola. Grazie ad Angelo che, come sua consuetudine, parla con le persone, cerca il contatto, spiega la musica. Né troppo né poco. A volte, in passato, mi è parso un po’ eccessivo nella parte verbale, forse. Non certo qui. Un equilibrio ed una misura che fanno bene al cuore. Le parole, quelle giuste per farti entrare ancora più addentro all’intimità soffice di questo evento.

Dopo un po’ mi meraviglio che la voce calda di Angelo e due chitarre, siano riempitive come un’orchestra. Che quel meccanismo di sottrazione stia creando davvero la magia che prometteva. Presi tutti, tutti afferrati da una seduzione antichissima: un uomo che canta, uno o due strumenti appena. La magia di una storia che si ripete, si snoda nei secoli, nei millenni. Un menestrello, un trovatore… ed è significativo che Angelo ammetta di gradire, di nuovo, questi appellativi.

Davvero difficile, a questo punto, essere oggettivi. Ancora più difficile, quando le tue orecchie vengono raggiunte da canzoni che ascoltavi quando eri più piccolo della tua figlia più piccola… Sotto il tiglio, La luna, Canzone del rimpianto (deliziosissima e poco conosciuta), Il dono del cervo, Confessioni di un malandrino… E’ un tuffo nel te stesso come eri prima, un tuffo nel cuore di te stesso, che non ha mai smesso di essere il tuo cuore, anche se tu spesso hai fatto finta di niente — l’hai ignorato, hai cercato altrove. Con che risultati? Tutto è sempre arrivato, gratis, quando sei ritornato ad accogliere il tuo cuore. Tutto arriva, ancora, con la stessa modalità e alle stesse condizioni.

Quello che le note di questo concerto stanno sollecitando, stanno richiamando. Sì, quello che la musica mi sta dicendo, è prezioso. E’ l’unica cosa che voglio veramente sentire. Esiste quello di cui è fatto il mio cuore.

Non riesco a dirlo in altri termini, infatti, che citando Don Giussani:

Dove si può ritrovare la persona? Dove io mi posso ritrovare? Da sempre l’uomo ritrova se stesso solo nell’incontro vivo con una presenza che sprigioni un’attrattiva; una presenza che lo provochi a riconoscere il fatto che il suo cuore — con le esigenze che lo costituiscono — c’è, esiste. Quella presenza gli dice: «Esiste quello di cui è fatto il tuo cuore».

E’ stato così, venerdì sera. Ogni vero evento è così. Una presenza che ti rassicura, ti rassicura sul fatto che quello che il tuo cuore cerca, esiste.

Allora, solo allora, c’è una ragione vera per camminare.

Anche tra le note.

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