Cura

Marco Castellani
StarDust
Published in
3 min readMay 20, 2013

No, no. Certo non mi fa piacere riconoscere di avere delle ferite. Non mi fa piacere nemmeno ammetterlo perché — dopo l’imbarazzo iniziale — questo mi lascia più scoperto, più esposto. Ma anche, devo dirlo, “stranamente” più lieto. Insomma, come se mi fossi tolto un peso di dosso che non mi faceva respirare.

Perché l’istinto è quello: quando mi trovo addosso l’evidenza della ferita, quando avverto il disagio, l’istinto è quello di correre a nascondermi. Ok, aspettiamo tempi migliori, momenti più adatti. Poi ci ripresentiamo in pubblico, davanti al mondo. Mi costa molta più fatica ammettere il disagio — ammetterlo prima di tutto davanti a me stesso. Accettarlo, farlo entrare nella vita, dargli cittadinanza. Mi è costato molta fatica e molta incertezza, percorsi tortuosi, indecisioni e tormenti, ammettere il mio bisogno di aiuto, di “cura”.

Segui il sentiero...

Cammina, segui il sentiero…

E’ una decisione di ogni giorno, di ogni momento. Accettare il proprio limite o no, le proprie parti oscure, oppure no. Accettare il fatto di non poter decidere di “guarire”, di non poter gestire la cosa completamente “da soli”. Bello schiaffo alle proprie pretese di autosufficienza, tra l’altro! E anche così, anche assodato che da soli non siamo capaci, resta l’accettare che c’è prima di tutto da fare un cammino.

E anche questa non è una cosa immediata. Riflettevo tempo fa, come in pochi ambiti siamo ormai disposti a permettere che vi sia un tempo di svolgimento, di evoluzione. Tutto e subito, altrimenti non sembriamo efficienti! Eppure — grazie al cielo, mi verrebbe da dire — la cura dell’anima, della psiche, insomma ogni percorso psicologico e spirituale, è qualcosa che ordinariamente richiede tempo. Richiede tempo, perché si innesta nel tempo e lo rende significativo.

Uso il termine cura nel senso più allargato possibile, che può certo comprendere un percorso strettamente terapeutico ma non si esaurisce in esso. Cura, per come lo intendo, è qualcosa di opposto alla “angosciosa illusione dell’autonomia” (Giussani), cura è essere disposti ad uscire da sé per trovare davvero una fratellanza umana, cura è anche accettare i propri fantasmi e cercare di parlarci (ecco un bel compito): scendere nell’ombra per incontrarli, andare a vedere qual è il tesoro che proteggono — invece di schiacciarli o nasconderli sotto il tappeto. Che poi tanto vengono sempre fuori più incattiviti (penso sempre a San Franscesco e al lupo… a come il lupo sia diventato mansueto solo quando Franscesco ha accettato di “parlarci”, di ascoltarlo, di dargli legittimità di esistenza, in pratica).

Ecco. Dar loro legittimità di esistenza, un primo passo per muoversi verso la pace. Tutt’altro che scontato, nella pratica quotidiana di vita.

Ecco perché i momenti in cui sto veramente giù, sto davvero male, sono quelli in cui agisco e penso fuori dal “contesto della cura”. Azioni e pensieri che si muovono fuori da questo contesto di guarigione/conversione (fatemelo pensare così, morbido e dorato) sono quelli più duri, meno articolati. Sono i pensieri malati, proprio quelli che negano ogni svolgimento nel tempo: vorrei essere arrivato ora a star bene, ad avere le idee chiare, ad avere un comportamento magari lineare e coerente. Con le mie sole forze è impossibile, ma faccio orecchio da mercante, non lo voglio intendere. Nonostante l’esperienza me lo suggerisca ogni giorno. Eppure bisogna ammetterlo, una buona volta: concepirsi artefici di sé stessi è davvero angosciante. All’opposto abbassarsi a domandare è risanante, è liberante…

Ogni giorno convivo con idee di cura e idee ‘malate’. Queste ultime si riconoscono facilmente, perché fanno fuori prima di tutto la mia umanità, in nome di un malinteso efficientismo e un asfissiante e sterile perfezionismo. Ma quando le seguo mi ingrippo, mi metto presto fuori gioco da solo. Allora devo riconoscerle come sono, riconoscere che sono appunto idee malate, e che invece c’è una cura, un percorso, che traversa regioni più assolate, schiude panorami più confortanti. E che la cosa più semplice e sicura che posso fare è affidarmi, riconoscere pacificamente l’enormità del mio bisogno, contemplare di più e ragionare di meno, seguire il sentiero…

E’ il lavoro di ogni giorno. Più lo accetto, più lo faccio mio, più respiro.

E più tornano a risplendere, ai miei occhi, i colori del mondo…

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