Dell’incontro con Alessandro D’Avenia, a Roma

Marco Castellani
StarDust
Published in
8 min readDec 3, 2011

Quello che segue è la mia personale elaborazione di quanto ho trattenuto, largamente a memoria, dell’incontro con lo scrittore Alessandro D’Avenia in occasione della sua presentazione del libro “Cose che nessuno sa”, il pomeriggio del 2 dicembre, a Roma. Naturalmente le cose che riporto dette da Alessandro possono essere imprecise o anche inesatte, perché filtrate dalla mia (scarsa) memoria e dalla mia sensibilità. Inoltre molto di quanto è stato detto è rimasto fuori. Tutto questo per dire di non prendere ciò che segue troppo alla lettera (e di non prendervela con lui se qualcosa non vi piace), ma di trattenerne magari, se vorrete leggere, lo spirito, il colore, o appena l’idea…

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Allora… alla fine mi decido. Nel senso che mi decido proprio alla fine. Cerco quasi di fare tardi per non andare. Non so, a volte ci ho addosso questa inerzia micidiale, o forse, piuttosto, questa paura di star bene…

Incredibilmente non riesco a far tardi, arrivo alla metropolitana e non ho scuse, il tempo c’è, c’è. Ora andiamo.

Arrivo a Via Nazionale — che bello andare a Roma davvero, ogni tanto. Le luci, i negozi. C’è aria di Natale. Trovo la libreria ed entro. C’è il libro di D’Avenia vicino all’entrata, faccio un giretto esplorativo (è ancora presto, ci ho messo proprio poco ad arrivare), poi prendo il libro e anche quello di Simon’s Cat. Vado alla cassa, pago e chiedo dove sarà l’incontro. Proprio qui nella sala grande, mi dice l’addetto.

C’è già un buon numero di persone sedute, la sala comincia a riempirsi. Mi accorgo che ho perso i posti a sedere davanti, devo stare in piedi. Pazienza. Mi metto lì con i miei libri. Mi guardo in giro, mi levo il cappotto (fa un caldo…), sfoglio i miei libri, guardo i messaggi. Aspetto.

Ad un certo punto arriva, proprio dietro di me. Sorride, parla con degli amici. Adesso sta presentando, mi pare, la sorella a qualcuno. Sta proprio accanto a me. Una persona assolutamente normale, normalissima. Dopo aver parlato con un gruppetto di gente che evidentemente conosce, si avvia verso il tavolino già preparato. Ci guarda e dice “ma vuoi siete tutti qui per D’Avenia eh?”, sempre sorridendo.


Al tavolino che sovrasta leggermente la sala, sono lui ed un intervistatore, giornalista che ha praticamente la mia età. Si sono conosciuti, se ben capisco, a Mosca in occasione delle traduzione del primo libro, in russo.

Aspetto con una certa impazienza che possa parlare Alessandro. Lui ascolta paziente l’introduzione dell’amico giornalista, ringrazia. E’ sempre molto cortese, con tutti. Ma non è una cortesia forzata (di quelle che vedi dappertutto, ormai), è una cortesia sincera, te ne accorgi facile.

Risponde alla domanda sul titolo del libro. E’ un libro che nasce dalla consapevolezza di non poter dare delle risposte, di non poter esaurire le domande che gli arrivano, soprattutto dai ragazzi, dopo l’uscita del primo libro. Quella ragazza che gli scrive, la madre malata di tumore a letto. Lei comunica con la mamma solo con lettere, perché ha paura ad entrare nella sua stanza, anche tenerle la mano. La mamma ormai sta proprio molto male. Non regge a tanto. E gli chiede come fare, ha bisogno della mamma e gli chiede come devo fare, come fare a raccontare un amore, una interrogazione andata bene, un problema, qualsiasi cosa. Soprattutto gli chiede, Perché questo succede?

Come si può avere risposta a domande così, come si può avere una risposta facile. Quello che riesce a dire è che la mamma ha bisogno di lei più di quanto lei ha bisogno della mamma. Che deve vincere la sua paura ed andare da lei, passare del tempo con lei.

La mamma se ne andrà presto, ci racconta. Ma lei scrive di nuovo, a distanza di qualche tempo dalla morte di sua madre, e dice che il mese che ha passato con la sua mamma, l’ultimo mese, è quello in cui il loro rapporto è stato più bello. E lo ringrazia.

Alessandro dice tutto questo con una umiltà e una sincerità palpabile. Non si fa bello di niente, anzi confessa la propria impotenza a trovare risposte, la propria fragilità, il timore di parlare anche in questa sala, tutto sommato, non troppo grande (“Devo dire che me la sto facendo sotto…”). Soprattutto guarda le persone come persone, come individualità, uno per uno. Saluta chi riconosce. Non è frettoloso con nessuno, supponente con nessuno. In effetti ha una semplicità che ti conquista, ti avvince. Non ha difese artificiose, si espone.

Dice che il punto è se esista una ricetta per amare anche le ombre. Che la questione è svegliarsi la mattina ed amare le persone che hai intorno. Il collega che ti sta antipatico, quelli che ti stanno vicini… tanti piccoli fallimenti da cui, di solito, scappiamo per paura.

Ragiona sulle domande che ci si fanno da adolescenti, poi si mettono da parte crescendo. Epperò non si possono eliminare, perché ad un certo punto la vita “urge” queste domande. Parla tanto dei sogni, del fatto di essere voluti bene. Lui ha seguito il suo sogno solo perché è stato voluto bene, tanto.

Ammonisce a guardarsi dalle persone che hanno rinuciato ai loro sogni, e scoraggiano gli altri, per paura che loro sì, possano riuscire. Per invidia. Invece bisogna fidarsi dell’altra categoria di persone, di quello che sono più amici di te stesso in certi momenti, e ti aiutano quando dubiti, a fidarti di te stesso. Fa il caso, al proposito, di quando era incerto tra fare ortodonsia (poiché il padre aveva uno studio dentistico, la scelta poteva sembrare naturale…) e seguire la sua propensione verso la letteratura. Fu un amico che lo tolse dal dubbio, quando lo portò a pensare a cosa avrebbe volto fare anni dopo: se lavorare su una bocca aperta o spiegare Omero. Questo fugò ogni dubbio (però non trascura di mostrare rispetto per l’altra scelta, non viene per nulla ‘ridicolizzata’ da quache malinteso senso di superiorità — proprio assente, in Alessandro)

Mi papà alla fine è andato in pensione. Ha chiuso lo studio E sorride. Dice Alessandro.

Racconta di sè, che il motivo per cui è scrittore è nel primo libro che.. NON ha letto. I ragazzi di Via Pal. Qualche anno fa era un must, dovevi leggerlo per forza. Già il titolo non sembra allettante. Quei nomi strani poi… Allora avrebbe deciso di scrivere una storia diversa, più interessante. Tutti sorridono, il clima è disteso.

Parla della necessità di riscoprire la bellezza di ogni singola persona. Siamo bellissimi, tutti. Poi non ce ne accorgiamo più, in pratica. Magari entri in macchina, uno ti taglia la strada… e tu, sì, in quel momento lo ammazzeresti. Allora c’è qualcosa che non va, è un campanello d’allarme. Non trascura di dire, è per questo che vado in bicicletta e non guido…

Si vede che della letteratura è innamoratissimo. Non è che ho scelto l’Odissea, spiega, E’ lei che ha scelto me.

Cita un proverbio ebraico “Dio ha creato l’uomo per sentirgli raccontare storie”. E la storia di ogni singola persona, che va raccontata. Che ognuno può raccontare a Dio.

E’ bello quello che dice della scrittura. E’ qualcosa che suona familiare anche a me. Scrivo, dice, perché sono fragile, per trovare un filo nella realtà, scrivo perché scrivendo riesco a comprenderla meglio, viene fuori un senso.

E certo l’insegnamento trova il suo spazio. Come non potrebbe? Spiega, da quando ho capito che se uno è felice, aperto, tutto era diverso, il mio metodo di insegnamento è cambiato da così a così. Pensavo di dover essere come il professore dell’Attimo fuggente, poi ho capito di no. E’ pericolosissimo. Il protagonista infatti, non porta le persone a scoprire delle cose, le porta verso di sè: lui ha bisogno di un pubblico.

Racconta di episodi di vita, minuti, piccoli, ma sempre illuminati di una attenzione gentile. Di una curiosità per la vita. Come per la anziana zia che acconsente a mostrargli la lettera del marito che conservava gelosamente, in cui lui le chiedeva di sposarla. Dice, acconsentì a farmela leggere solo ad un patto, che rimanesse tra noi due. E infatti… Fa una pausa e sorride. Poi precisa, ma io ne perlo in termini generici….

Finisce sulla cosa più importante. Fondamentale. Se la vita non ha un senso profondo o se invece ci sta un Tu che ti ama. Vi auguro — dice — di affrontare questa domanda e di non accontentarvi mai di risposte facili.

Naturalmente ha detto tanto altro. Come l’importanza del semplice sorriso, dell’attenzione alle piccole cose. Al fatto che cerchiamo la felicità chissà dove e poi siamo a fine giornata come arrabbiati, scontenti. Perché forse abbiamo cercato troppo di far felici noi stessi e poco di relazionarci agli altri. Nel semplice sorriso c’è nascosto un atteggiamento diverso. La felicità forse non è in chissà cosa vogliono farci credere, ma è da cercare forse anche attraverso l’attenziona a cose semplici. Nelle radici. Per slanciarti avanti devi mettere radici solide.

Io sono contento, contentissimo. Ho il cuore sollevato come da un peso, un peso tremendo che mi schiaccia tutti i giorni. Come si fosse alzato per un poco, a contatto con una cosa buona, autentica. Una persona che trasmette gioia, che non ti cerca di attirare a sè, ma ti incoraggia invece a credere in te, nei tuoi desideri, nei tuoi sogni. Nel tuo cuore. Questo non lo dico per un ragionamento, ma per una evidenza immediata. Sentendolo parlare, stai bene.

Aspetto per farmi autografare il libro, voglio regalarlo a Paola per i nostri vent’anni di matrimonio. L’attesa si rivelerà lunghissima. Siamo in fila e non ci muoviamo di un passo. Penso più volte di rinunciare, ma ormai ci sono…

Finalmente quando arrivo “in vista” di Alessandro, la cosa si fa chiara. Ci mette tanto, perché lui dialoga con tutti, con ogni persona che incontra. Ed è un dialogo vero, non formale. Se è uno studente, chiede cosa fa, come si trova. Ha davanti quattro pennarelli di colore diverso, chiede perfino di che colore si preferisce la sua dedica.

Quando finalmente arriva il mio turno (perfino una simpatica suora, con due libri da far firmare, mi fa passare avanti perché ha sentito che devo tornare da mia moglie…) gli chiedo di dedicarlo a Paola, “che sono venti anni che mi sopporta”. Lui ci pensa, mi guarda un pò, chiede come mi chiamo io. Mi guarda, realmente. Eppure ormai è tardissimo, sta lì sotto i riflettori da due ore, potrebbe essere legittimamente stanco, tirar via. Metter un sorriso di mestiere e sbrigarsi. Io sono anche uno degli ultimi. La librerie sta chiudendo, in pratica aspetta lui. Eppure mi guarda con occhi attenti, vispi. Ha una intuizione, mi dice “Ahh ma ho capito! Tu sei quello che mi ha fatto la domanda su facebook per la faccenda dell’ebook!”

Rimango colpito. Per una singola domanda, che io magari pensavo fosse stata evasa da qualcuno di un suo ipotetico staff, mi aveva ricordato. E ha collegato senza che io ne facessi riferimento! Sono grato non perché la cosa riguardi me, ovviamente, ma per quanto mi dice sulla persona che ho davanti.

Mi scrive “Per Paola, che ha il suo sogno in Marco”. Il sogno. Che cavolo. Altro che il “sopportare” che avevo avanzato io. Quello sapeva di rinuncia. Questo mi sembra decisamente più positivo. Aperto davanti alla realtà, con lo sguardo sgranato, non con i gomiti davanti. Io trovo una assonanza incredibile con tante cose che va dicendo Juliàn Carron, negli ultimi tempi. Vivere sempre intensamente il reale. Ecco. Tutte cose vissute, anche cose che nessuno sa. Vissute comunque, con la faccia spalancata davanti al reale. La realtà è positiva. Ecco una dimostrazione, in un pomeriggio come tanti.

Una persona come tante. Niente di straordinario, in apparenza. Ma che ascolta il proprio cuore, lo prende sul serio.

E tutto cambia. E tutti lo vedono. E tutti sono più se stessi.

Perché nessuno cerca altro, in fondo.

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