E vissero felici e contenti…

Marco Castellani
StarDust
Published in
2 min readSep 19, 2010

Dopo la bella sorpresa di Toy Story 3, era ora di tornare al grande schermo. Sono andato finalmente anch’io a vedere questo capitolo conclusivo di Shrek, “E vissero felici e contenti”; con la scusa di portare al cinema i due più piccolini, Simone e Agnese (ma quando saranno tutti grandi, che scusa potrò mai adottare?)

Diciamo subito che a livello di grafica (già anche il 2D) e di musiche, il film è più che godibile e certamente ben realizzato. Per quanto riguarda la scenaggiatura, a mio avviso il film riesce abbastanza bene nell’esercizio di delicato equilibrio — ormai proprio dei migliori titoli del genere — di parlare, nella stessa storia, a due livelli diversi, ossia quelli del pubblico bimbo e quello del pubblico adulto, tipicamente il genitore “accompagnatore”.

Se pure il messaggio che viene proposto per l’adulto è a tratti piuttosto scoperto e abbastanza esplicito (il tema è chiaramente quello del rischio — modulato intorno ad uno Shreck “papà” affannato nella vita quotidiana, progressivamente provato fino alla tentazione della fuga — di non percepire più la bellezza e la profondità di quello che si ha, in termini di cose e di affetti), nondimeno la fantasia della storia assieme al suo carattere scoppiettante e deliziosamente burlesco, riescono a scansare le possibili cadute retoriche in una festa assai godibile di colori, luci ed episodi davvero divertenti (il gatto che fa “gli occhioni” lo metterei da solo nella storia del grande cinema di animazione…)

I bimbi sono stati ovviamente presi dalla narrazione incalzante, senza un momento di noia. Alla fine siamo usciti tutti e tre contenti. E non è poco.

Pensavo uscendo, sì il messaggio sarà pure scoperto, facilmente tracciabile. Perché allora ero contento di aver visto il film? Azzardo allora una interpretazione, necessariamente personale. Per me è sempre più bello trovarmi di fronte a qualcosa che non cede alla tentazione del nichilismo, che in tante forme, più o meno gaie, attraversa le opere culturali della nostra epoca. C’è qualcosa qui, qualcosa che ha a che fare con la mia evoluzione.

Prima lo assorbivo, questo nichilismo (chiamo così quell’opzione per cui niente vale davvero, ovviamente operando una drastica semplificazione) cercandone le motivazioni culturali. Ora mi fa venire più il mal di pancia, mi sembra frutto di un’opzione ultimamente disonesta, nel senso di un’opzione che non è aperta del tutto alla realtà: che nel proporne un modello, censura dei fattori importanti.

E’ meglio stare con gli occhi spalancati come un bambino, allora.

O come il gattone del film….

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