Fede, e verità

Un connubio inscindibile, nonostante le apparenze

Marco Castellani
StarDust
4 min readApr 26, 2017

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E’ appena uscito per le edizioni Paoline, l’ultimo libro di Marco Guzzi, dal titolo Fede e Rivoluzione. Diciamo subito che per la peculiare modalità di svolgimento del testo, per la struttura polifonica che innerva e struttura fin dall’inizio le densissime pagine (dense e lievi allo stesso tempo, in un felice ossimorico connubio, così tipico della poesia), lo possiamo a ragione considerare una sorte di testo fondativo, anche per questa nostra avventura di AltraScienza.

Nel libro, del resto, il riferimento alla scienza — come è evidente fin dalle prime pagine — si propone come una sorta di basso continuo. E’ un termine discreto ma sempre presente, che punteggia quasi ogni pagina. E’ uno dei molti registri su cui continuamente si appoggia l’esposizione, vi torna e vi riposa continuamente.

Vorremmo dunque poter tornare sull’argomento in una serie di occasioni diverse; prendere spunto da alcune frasi per investigare in verticale quei punti di maggior densità concettuale. Il testo, che procede per intuizioni e sprazzi di colore, si presta particolarmente a questa nostra opera di indagine e scavo — ed in fondo, probabilmente la richiede. Difatti Fede e Rivoluzione appare come un testo estremamente moderno, ovvero estremamente aperto, che apre una serie di piste e di scenari. Questo accade senza mai pretendere di chiudere il lettore su una trattazione che si pretenda esaustiva o autoreferenziale, piuttosto provocandolo continuamente verso una indagine personale e creativa. E’ un libro che richiede partecipazione attiva.

Ma partiamo dall’inizio. Già dalle prime pagine, viene definito un palcoscenico, un ambiente, che presenta caratteristiche piuttosto sorprendenti, per il pensiero comune.

… ogni ricerca della verità, tenetelo bene in mente, anche quella più scientifica, presuppone sempre un atto, più o meno consapevole, di affidamento a convinzioni indimostrate, a parole già dette e ricevute, ascoltate e credute, e quindi un atto, appunto, di fede.

Sorprendente, dicevo. Sorprendente perché è una nozione (ancora) tutt’altro che acquisita. Anzi. E’ decisamente lontana dal patrimonio comune.

Distanze propriamente siderali, direi.

C’è infatti un pregiudizio molto radicato — anche e perfino tra molti scienziati professionisti. E’ qualcosa di ormai antico, siamo d’accordo. Qualcosa da cui vogliamo muoverci, prendere le distanze: senza acredine, ma con tenacia. Non per contrapporre pensiero a pensiero, non per fare muro. Non per perpetuare gli stessi sistemi antichi.

Ma per procedere oltre. Per essere veramente moderni. Per intendere anche la scienza in modo davvero contemporaneo, un modo che non sia fermo alle acquisizioni positiviste ma abbracci e assimili la complessità del Novecento e tutto quanto ne è seguito. Una scienza che ha ormai dovuto comprendere — spesso obtorto collo — come nessuna costruzione pienamente razionale è davvero possibile senza far appello all’uomo: non tanto come osservatore, ma come parte in causa del fenomeno stesso.

Più avanti Marco Guzzi si spinge a scrivere

E’ sempre un atto di fede, più o meno consapevole, che determina integralmente la forma e i metodi del nostro pensiero, e quindi i confini di ciò che decideremo essere vero, anche nelle ricerche scientifiche più oggettive, c’è sempre un atto preliminare di fede, l’accettazione cioè di presupposti non dimostrati, in ogni impianto conoscitivo e in ogni pratica di ricerca.

E perché infine non possano sussistere più dubbi, insiste

I concetti fondamentali della fisica non sono dedotti dall’esperienza, ma è invece questa, è proprio l’esperienza empirica a essere illuminata e resa possibile da idee che arrivano all’uomo intuitiva-mente, cioè nell’ascolto fiducioso e poetico dell’Ignoto.

Varrebbe proprio la pena rileggere due o tre volte, questo ultimo assunto. Per essere sicuri di aver capito bene. La portata della cosa non è infatti di poco conto. In altri termini: siamo quanto di più lontano dall’ovvietà.

Possiamo dirla così. Molti dei miei colleghi scienziati, potrebbero giurare il contrario, l’esatto opposto: i concetti fondamentali della fisica sono dedotti dall’esperienza, ripulita da ogni scoria ideologica o metafisica. La scienza è iniziata e si è sviluppata quando si è riuscita a distaccare dal mito e dalla sfera della religione, portando finalmente quella luce che gli uomini avevano ricercato invano altrove. Portando chiarezza e maturità.

Ma non è solo questione degli altri. In fin dei conti aveva ragione Umberto Tozzi (sia pure ad un livello decisamente più profondo), quando all’inizio degli anni ’90 cantava che gli altri siamo noi.

Siamo onesti: quanta parte ancora in noi c’è che pensa così? Che sposa esattamente questa visione?

Questo è il punto davvero interessante, perché si aggancia alla complessità irriducibile dell’animo umano: che all’interno di noi galleggiano residui di pensiero antico, incrostazioni corrose e corrosive di un vecchio modo di pensare. Non lo diciamo, non lo ammettiamo, non lo teorizziamo compiutamente. Eppure vediamo il mondo così.

Eccoci. Il primo campo da bonificare siamo noi stessi.

Il che, a pensarci bene, rende questa avventura estremamente gustosa e sommamente interessante.

Tutta da vivere.

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