Quando fuori piove…
Fuori piove, ascolto smooth jazz negli auricolari. A casa le persone sono dietro le varie attività, computer, televisioni. Vedo gocciolare dalla finestra. Davanti al mio naso, non molti metri in linea d’aria, c’è un bel pino grande. Sta in silenzio, assorbe l’acqua che gli cade addosso. Oserei dire che è contento.
Alle volte sono nervoso, teso. Misteriosamente. Spesso lo sono in molti, del resto. Chissà perché mi viene in mente di nuovo, che la conversione non è, come avevo spesso immaginato, uno sforzo morale o ascetico, un nuovo obiettivo da raggiungere, un salire. Ora mi viene in mente, come mi veniva in mente qualche tempo fa, che è un nuovo modo di guardare, più rilassato, tranquillo, benevolente. Uno scendere. Come quando sai che non tocca a te di fare tutto, di sistemare tutto quanto. Tranquillo, mi dico: non tocca a te sistemare nemmeno te stesso.
Ridurre la fede ad etica, a morale, è quanto di più pericoloso ci sia per il cuore dell’uomo. Poi non si capisce più nulla, basta vedere (o immaginare) che un uomo noto (magari un politico) dichiaratamente cattolico, sbagli, e subito si grida allo scandalo.
Perdendo di vista che la partita che ci interessa non è innanzitutto per la moralità, la partita vera e decisiva è per la felicità.
Soprattutto non si capisce che la fede non è un’ennesima sovrastruttura, qualcosa per fissati. Ma è qualcosa per gente che si vuole davvero godere la vita, attimo per attimo. E siamo sempre in viaggio, sempre soggetti ad errori. Ma la strada è bella, e non è definita dagli errori. “Abbiamo ancora un lungo cammino davanti e siamo felici di poterlo percorrere”, come dice Carron nella bella lettera a La Repubblica del primo maggio.
Fuori piove e io (ri)scopro, che se porto intorno questo sguardo, questa coscienza più tenera e rispettosa di quanto esiste dentro e fuori di me, sono meno nervoso, meno teso. Mi piacerebbe essere così, come un albero che aspetta il sole e la pioggia, e respira.
Questioni di essere presi in braccio, alla fine. Come la frase di Sant’Ambrogio che era cara a Don Giacomo Tantardini, che tanto ha insistito, fino alla fine, sulla semplicità della fede.
Vieni dunque, Signore Gesù… Vieni a me, cercami, trovami, prendimi in braccio, portami.
Quando comprendiamo che abbiamo davvero bisogno di essere portati in braccio, possiamo vedere accadere miracoli. E’ quando finalmente cediamo ad un Altro, che comincia lo spettacolo.
E’ molto più bello essere cercato dalla Verità, che cercarla. Credere è ammettere di poter essere cercati, in fondo. Questo ribalta tutta la questione. Cambia il verso della freccia. Ci permette una salutare passività. Non oziosa, ma contemplativa. Come davanti ad una cosa bella.
Che bello quello che ha detto Carròn ai funerali, “don Giacomo ci ha testimoniato la bellezza dell’essere cristiano e ha trascinato tanti di noi dietro di lui. “
L’albero davanti a me. Ecco. Un albero non si giudica, per esempio. Vive e respira. Le radici ben piantate nella terra, sa cosa lo tiene in piedi. Io non giudico nessuno, nemmeno me stesso esortava tanti anni fa Don Luigi Giussani.
Rileggo. Volevo dare a questo post un’atmosfera, un senso meno diretto, più allargato, errante. Un procedere in linea curva, docile, non rettilineo. Come pensieri durante un giorno di pioggia… Non so se ci sono riuscito, alla fine mi faccio prendere la mano, cerco istintivamente di trovare una tesi e dimostrarla… e non è quello che conta, non contano le parole.
Anzi, alle volte ci vuole un vuoto di parole, uno spazio di silenzio.
Perché conta questo, la dolcezza del cuore, quando si sente grato.