Quel ritmo delle cose

I tempi di costruzione, per le canzoni e così via

Marco Castellani
StarDust
4 min readJan 21, 2018

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Di solito non mi piacciono molto le varie riedizioni “deluxe” dei dischi di qualche tempo fa. I dischi con i quali sono cresciuto, praticamente. Li conosco in un modo, li conosco così e non mi fa impazzire che tu, cara mia casa discografica — per simulare qualcosa di diverso, per farmi pensare che questo mi manca, lo compro-— mi aggiunga un CD al CD che già ben conosco, rappezzando in studio tutte le prove lasciate (giustamente) come prove dagli stessi musicisti. Proprio quelli che, che grazie al cielo e alle sue stelle, hanno trovato una soluzione migliore per un pezzo, un arrangiamento, qualcosa insomma. E giustamente, sono andati avanti.

Questo è. E sicuramente non sono il solo a pensarla così. Però ammetto anche che ascoltare di queste “prove” a qualcosa serve. Ti fa capire molto. E ti fa capire molto oltre la musica, molto oltre le canzonette (qui con Bennato, proclamo con solennità che sì, che sono solo canzonette, metto platealmente le mani in avanti, in modo da sottrarmi fin da subito ad ogni ammuffito e prevedibile dibattimento sulla “grande” musica e sulla musica “commerciale”).

Tanto per spoilerare me stesso e dove andrò a parare: ti fa capire che ogni opera è (solitamente) una costruzione, una lenta costruzione. Che ogni diamante nasce dalla terra, parte con due o tre idee, due schizzi sul foglio. Parte piccolo, (molto, molto) perfettibile. Questo me lo devo ricordare. Me lo devo proprio ricordare, quando inizio a scrivere qualcosa e mi sembra intollerabilmente incompleto e precario. Mi devo ricordare di non smettere, di lavorarci, di lavorare. Di starci.

Devi starci, come con tutto. Scappare non vale, non paga.

Però adesso torniamo indietro, a dove l’ho capito (con la testa l’avevo già capito da un pezzo, purtroppo con la testa e basta non si capisce niente per davvero, niente di ciò che conta).

Questa qui è la versione che ho sempre ascoltato, di una canzone splendida, con un testo altrettanto splendido. Mi sono sempre chiesto, tra l’altro, come hanno fatto questi ragazzetti norvegesi, negli anni ottanta, a comporre una cosa così, a scrivere una cosa così.

E poi qualche giorno fa, insomma, dopo una lunga storia di amore con questo disco e soprattutto questa canzone, mi sono ascoltato quasi per caso, su Spotify, la Demo #3 della canzone.

E allora ho capito.

Insomma qui la canzone c’è già, c’è tutta. Ma manca qualcosa di essenziale. La chitarra è molto più consueta, più ascoltata: vorrebbe graffiare, essere aggressiva, ma è abbastanza innocente. La canzone va, ma non c’è quel quid che la rende speciale, insostituibile, unica. La tastiera fa quel giro armonico (o come si dice) che è molto più inoffensivo. Ecco, quello definitivo è molto più asciutto, ed è sparato subito all’inizio del brano. E’ la vera cifra risolutiva di tutto, e ti viene presentata subito. E’ essenziale, come il testo è essenziale, senza orpelli. Ecco, è come se dalla demo avessero scavato via tutto quello che era inutile, era decorativo, come se avessero portato alla luce quello di bello che c’era già, dentro. C’era dentro, ma era come coperto, reso appunto più inoffensivo, meno capace di mordere, di colpire.

Però a questo punto, mi viene anche l’idea che magari a voi degli a-ha non vi importa moltissimo. E’ possibile, sì. Ritengo, sebbene un po’ a fatica, che sia possibile. Allora volevo dare un tono un po’ più generale al post (se ancora qualcuno mi sta dietro).

E’ che da questa demo si percepisce carnalmente (e non intellettualmente, lì son buoni tutti) una cosa generale, in effetti. Per cui forse vale la pena scriverne.

Che una cosa bella, davvero bella, usualmente non piove dal cielo già bella e pronta. Che magari, invece, parte in tono sommesso, mischiata a tanti errori, tanti giri decorativi, inutili, aggiustabili, migliorabili. E poi, scavando, lavorando, lavorandoci, assume quella fisionomia inconfondibile, perfettamente imperfetta, dolcemente, docilmente definitiva nel suo ambito.

E dici, finalmente dici: ecco, è questa.

Che è perfettamente integrata nel suo tempo, che risuona del suo tempo, anche. E’ lì dove deve essere. Per dire, nelle demo di The Wall, procedendo verso la versione definitiva, c’è come in filigrana, come in presa diretta, il passaggio esatto dagli anni ’70 agli anni ’80. Nell’arrangiamento, l’intonazione, tutto. Andate a sentirle, è stupefacente. Un mondo che cambia, come fotografato in musica. Ma questo sarebbe già un altro discorso, da approfondire un’altra volta.

Insomma, quel ritmo delle cose, per restare nel titolo del brano di cui si parlava, si acquisisce, si trasmette, non d’improvviso, ma con un lavoro umile, semplice. Con una dedizione tranquilla, nei giorni.

È dalla terra, dalla solidità, che deriva necessariamente un parto pieno di gioia e il sentimento paziente dell’opera che cresce, delle tappe che si susseguono, aspettate quasi con calma, con sicurezza. Occorre soffrire perché la verità non si cristallizzi in dottrina, ma nasca dalla carne. (Emanuel Mounier)

Nel tempo, tutto avviene nel tempo.

Anche una canzone.

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