Take five (Lucio sei grande)

Marco Castellani
StarDust
Published in
5 min readNov 28, 2013

Di solito uno non ci pensa. Fa le sue cose e non ci pensa. Se gli dici, ma hai presente che ci sono gli ultimi cinque album di Lucio Battisti? Hai presente la bellezza? Quello magari ti guarda strano, non è che capisca bene. Ti dice, ho le bollette da pagare, devo passare dal commercialista o — peggio ancora — devo andare dal dentista. Devo accudire un mio parente anziano, ho la macchina in panne. Mia moglie non mi capisce. Cosa mi importa degli ultimi cinque album di Battisti adesso?

Io pure risponderei così, a prima botta (o qualcosa di simile, ci siamo capiti).

E’ proprio questo il guaio.

Che la gente non si accorge che c’è la bellezza, in giro. Non vi attinge, nei momenti di difficoltà. C’è questa dannatissima idea che uno per attingere alla bellezza deve aver sistemato tutto, deve star bene e a posto, rilassato e ben nutrito, deve aver messo a posto tutti i desideri e gli istinti. Poi pensiamo alla bellezza. Devastante, devastante.

No, è che anch’io in fondo sono così, è per questo che è devastante. Altrimenti erano problemi vostri, e pace.

Prendiamo Lucio. Gli ultimi anni sono quelli della collaborazione con Panella, e della sperimentazione sonora. Don Giovanni, L’apparenza, La sposa occidentale, Cosa succederà alla ragazza, Hegel. Dal 1986 al 1994. Posto che sono dei capolavori ancora in larga parte non assimilati (dopo tutti questi anni!), ecco che si pone il problema.

600px Lucio Battisti Hegel svg

L’ultimo lavoro. “E” sta forse per End. La fine. O forse un inizio nuovo…

Per me questi lavori trasudano bellezza. Anche a distanza di anni, quasi dieci dall’ultimo lavoro (che stavo riascoltando in questi giorni), c’è qualcosa di coraggioso e di sublime che attraversa anche i brani meno riusciti. Ma chi glielo ha fatto fare? Chi? Prendiamo il Battisti di Una giornata uggiosa (1980). Fama, riconoscimenti, soldi. Un percorso collaudato. Con un paroliere d’eccezione come Mogol, tra l’altro. E che ti succede?

Che si cambia. E già (che — detto tra noi — non ho ancora ascoltato, ma confido che questo non indebolisca la mia tesi) è il manifesto del cambiamento.

Scrivi il tuo nome su qualcosa che vale, mostra a te stesso che non sei un vegetale. E per dimostrare che si può cambiare, sposta il confine di ciò che è normale. Bella giornata è questa qua, l’aria più fresca ti esalta già, il momento migliore per cominciare un’altra vita, un altro stile (Scrivi il tuo nome)

Così cambia tutto. Si prendono nuovi rischi, si fanno nuove scelte. Nuove collaborazioni, nuove sonorità. Nuovi testi: poetici, preziosi. E inizia l’avventura straordinaria. Ora mi permetto una digressione: la musica attuale è così tristemente immediata nella melodia e nelle parole. Soddisfazione immediata, o cambi pezzo (o stazione radio, o file mp3). Al primo ascolto hai capito tutto. Non c’è un rapporto da approfondire, se non va cambi. Poi ti stufi, e cambi. Un dongiovannesco sfrenato. Un libertinaggio forzoso (neanche deliberatamente scelto).

Qui c’è di entusiasmante che al primo ascolto non capisci nulla. Nemmeno riesci ad arrivare alla fine del disco (quasi come con Amarok, ma questa è un’altra storia). Poi riparti, e ti inizia ad entrare in testa un passaggio, una sequenza di parole. Vorrei segnalare questo fatto, vorrei avvisare: le sequenze di parole di uno qualsiasi di questi album ti possono ricorcolare in testa a distanza di settimane, mesi. Anni. Ok, non le riesci a spremere tutte subito. Non come le altre canzoni, scarti, mangi, digerisci e ciao. Una botta e via, amici come prima, non mi ti filo più, chi si è visto si è visto.

Qui invece ti ricircolano dentro, ci pensi quando meno te lo aspetti. E estrai nuovo succo, quando meno te lo aspetti. E’ più un matrimonio che una avventura occasionale. E’ il rapporto con una sposa non con una amante. Del resto,. non è una cosa nuova, non è invenzione di Lucio (meglio, della somma arte Panella, il paroliere). Si chiama in termini semplici, si chiama poesia.

La sposa occidentale che sembra quasi ridere / e invece lei respira, / quasi piangere, ma gira / dall’altra parte il viso, ma ritorna / portando sue notizie inaspettate; / amando tutto ciò che adora, / chiama con nomi fittizi le cose: /così, semmai, le rose / son spasimi, per ora. (La sposa occidentale)

Poi l’ultima canzone dell’ultimo disco. La voce del viso. La bocca. E’ come se riassumesse tutta la poetica dei cinque dischi, ma in fondo di tutto Battisti. L’elogio commosso e stupefatto della bellezza. Più che elogio: il tributo. La bellezza che addolcisce il mondo, la vita quotidiana. La bellezza che nelle canzoni prende le sembianze dolci della donna, della ragazza. Seguita e indagata con una sorta di divertita tenerezza, e insieme di sbigottimento davanti al mistero. Al mistero di qualcosa che non si può spiegare compiutamente, in parole umane.

Quest’opera sensibile:

il tuo volto che si manifesta ed è

oltre l’ordine della natura.

Il primato del principio del piacere sulla fredda razionalità. E’ paradossale perché spesso l’ultimo Battisti viene etichettato frettolosamente come cerebrale e invece secondo me non c’è niente di più passionale, di più sanguigno ed insieme di più teneramente appassionato.

Ti spadroneggia allora il tuo godio,

disincantato in quanto,

più è restio al racconto lenitivo,

al riassunto giulivo. E non è riso appunto

e non è pianto il tuo perché il racconto è il riso e pianto il suo riassunto.

Sul viso la sintassi non ha imperio, non ha nessun comando.

Vado in visibilio qui, non riesco più ad essere distaccato, nemmeno un po’. Ma vi rendete conto? Sul viso la sintassi non ha imperio non ha nessun comando. Vince la bellezza sul razionalismo! Ecco cosa canta Lucio come ultima cosa, cosa ci regala prima di partire. Vince una Bellezza su tutte le nostre preoccupazioni.

E tanti altri esempi…. per esaurire l’argomento ci vorrebbe un libro. O due. Ma qui illumino per schegge, momenti, impressioni. Epifanie.

Comunque torno al punto, perdonate la divagazione. Il punto è che uno non ci pensa. Non ci pensa agli ultimi cinque dischi di Battisti. Dite la verità, quante volte ci avete pensato? Sono tempi dure, dite. Ci sono altri problemi.

E io dico che è proprio il tempo di pensare agli ultimi dischi di Battisti, proprio perché sono tempi duri.

Proprio perché sono tempi duri, ci vuole la bellezza. Ci vuole la poesia.

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