Costellazioni familiari: (possibili) effetti collaterali

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Il cosiddetto metodo delle costellazioni familiari viene usato in ambito psicoterapeutico per cercare di riportare armonia nei sistemi familiari (ma anche, di riflesso, negli ambienti di lavoro, nelle dinamiche di coppia, ecc.). È un metodo di una certa potenza, in grado di mettere in luce i diversi condizionamenti che agiscono sugli individui, a loro insaputa, sotto forma di sentimenti e comportamenti inconsci che originano da una rete di relazioni che non apparterrebbe direttamente a loro, ma che avrebbero ereditato, e nella quale si troverebbero irretiti.

In questo articolo desidero offrire alcune riflessioni critico-costruttive su questa particolare terapia di gruppo. Nel farlo, darò per scontato che chi legge possiede una sufficiente conoscenza pratica di questo metodo, e degli assunti su cui esso solitamente si fonda. Premetto che non mi preoccuperò di fornire un’analisi completa del metodo, né di organizzare i miei argomenti secondo una struttura logica predefinita. Semplicemente, partendo dalla successione degli eventi così come si presentano durante una terapia, cercherò di fornire, di volta in volta, alcuni spunti per promuovere una riflessione più matura. Molti di questi spunti richiederebbero ulteriori approfondimenti, ma questo esula dallo spazio e dallo scopo di questo articolo.

Lo strumento delle costellazioni, di per sé, per quanto molto controverso, può essere considerato valido, o potenzialmente valido (se usato correttamente). Dalla mia prospettiva però, così come viene solitamente proposto presenta delle insufficienze, tanto da renderlo in alcune circostanze addirittura pericoloso. D’altra parte, è sicuramente possibile correggerlo, cioè renderlo più sicuro, adottando alcuni accorgimenti tecnici ed eliminando alcuni possibili errori di interpretazione, come cercherò di suggerire in questo scritto.

Generalmente, il lavoro inizia con una breve meditazione di gruppo, per armonizzare tra loro i partecipanti e favorire l’apertura. Qui si presenta subito una difficoltà comune a tutte le pratiche psicofisiche che portano a un’apertura delle persone. Spesso, purtroppo, l’apertura viene promossa in modo del tutto indiscriminato. Aprirsi non è sempre un bene. È bene aprirsi a ciò che è buono e vero, sia per noi che per gli altri. Un movimento di apertura indiscriminato, invece, può esporre un individuo a influenze sottili anche negative, a causa di un rilasciamento delle barriere difensive naturali.

Il terapista non dovrebbe mai dimenticare, soprattutto quando non è in grado di percepire quanto avviene nel luogo di pratica sul piano sottile (extrafisico), che esistono delle forze assedianti, di diversa natura, spesso all’opera nel tentativo di confondere e corrompere chi si muove secondo una logica evolutiva. È dunque importante, sin dalla meditazione di gruppo che apre al lavoro, che un intento chiaro di apertura unicamente verso ciò che è massimamente buono e vero per tutti sia chiaramente espresso.

Questa osservazione, valida ovviamente per qualsiasi pratica in cui viene incoraggiata un’apertura su più livelli degli individui, diventa essenziale in un lavoro come quello delle costellazioni, dove i partecipanti sono spinti a percepire pensieri, emozioni e sensazioni corporee solitamente ben poco edificanti, con possibili effetti anche negativi.

Passiamo ora al problema dell’assunzione di un ruolo specifico. La persona che mette in scena la propria famiglia sceglie tra i volontari del gruppo un rappresentante per ogni membro della stessa (o di quella parte che viene rappresentata), posizionandoli nello spazio fisico secondo quella che è una sua immagine interiore. A ognuno dei volontari viene dato un nuovo nome, cioè una nuova identità. I partecipanti che accettano di assumere temporaneamente questa nuova identità cominciano allora a percepire, molto velocemente e spesso molto intensamente, emozioni, pensieri e sensazioni fisiche presumibilmente attinenti alla storia della famiglia rappresentata.

Va subito detto che il lavoro sulle costellazioni si fonda su una visione puramente biologica dell’uomo. Gli unici elementi metafisici presi in considerazione sono quelli relativi a un non meglio specificato campo morfogenetico, che collegherebbe tra loro i diversi individui e guiderebbe i movimenti delle loro anime, o coscienze. Inoltre, non viene solitamente fornita alcuna spiegazione su cosa accada nello specifico quando i partecipanti assumono la nuova posizione e identità che gli viene attribuita, né come questi siano poi in grado di percepire cose che sarebbero di pertinenza di altre famiglie, a loro del tutto sconosciute.

Mi occuperò del problema della “rete energetica” in seguito. Al momento, mi limito a sottolineare che, a seconda delle particolarità dei singoli partecipanti, fenomeni assai diversi potranno presentarsi, con situazioni che possono diventare anche controproducenti per alcuni di loro. In generale, l’assunzione dell’identità di un altro individuo non è mai una pratica innocua, soprattutto quando non si conosce nulla della persona in questione. Chiunque si presti a canalizzare, più o meno consapevolmente, un’entità di cui nulla conosce, dovrebbe sempre rimanere all’erta ed essere pronto a difendersi.

Il modulo di difesa minimo per pratiche di questo tipo è quello che ci permette di recuperare in modo completo la nostra identità al termine del processo, cioè il pieno controllo della nostra sfera energetica. In altre parole, dobbiamo assicurarci di poterci liberare completamente dalla presenza della coscienza (o dei residui di energia della coscienza) con la quale siamo entrati in contatto. Questo modulo di sicurezza è però solitamente assente nelle terapie di questo genere, ed è pertanto necessario introdurlo alfine di proporre un lavoro sufficientemente sicuro e ridurre al minimo i possibili danni collaterali.

Vi sono varie possibilità per fare questo, alcune più efficaci di altre. Una piuttosto blanda, ma non per questo inutile, è la costruzione, prima dell’inizio della rappresentazione-evocazione, di una “carta di identità” personale nella quale racchiudere in modo sintetico la propria identità primaria. In pratica, lo si può fare scegliendo alcuni elementi specifici tra quelli che più amiamo e più ci rappresentano (dimmi a cosa tieni e ti dirò chi sei).

Per attuare questa possibilità, il terapista potrebbe ad esempio chiedere a tutti i partecipanti di scrivere il loro nome di battesimo e quegli aspetti che li contraddistinguono maggiormente su un apposito foglietto, da tenere sempre con sé durante tutta la durata della terapia (ad esempio piegato in tasca). Sarà allora sufficiente, alla fine di ogni lavoro, quando i partecipanti si riappropriano della loro condizione normale, che il terapista ricordi loro di pensare intensamente al contenuto della loro carta, o leggerlo, nel momento in cui viene pronunciato nuovamente il loro vero nome. Tale uscita dal ruolo va sempre effettuata correttamente, con serietà e concentrazione, senza mai banalizzarla. Ma tornerò su questo aspetto delicato e purtroppo spesso trascurato del lavoro.

Descriverò ora più nel dettaglio cosa avviene durante la terapia. Devo premettere che ogni essere-coscienza, inteso qui come entità multidimensionale (il cui corpo fisico sarebbe solo un aspetto della sua manifestazione) si trova ad occupare una particolare posizione nel reale. L’assunto del metodo delle costellazioni è che esista una rete di collegamenti sottili tra gli esseri (sebbene la complessità di tale rete va probabilmente oltre ciò che viene abitualmente descritto). Per semplificare, diciamo che ogni volta che due esseri entrano in interazione, un collegamento viene stabilito. La robustezza di questo collegamento dipende sia dall’intensità, sia dalla natura e durata dell’interazione. Ad esempio, quando il supporto del collegamento è quella misteriosa sostanza chiamata amore, questo può essere particolarmente solido e duraturo.

La dimensione intrafisica (quella in cui ci manifestiamo con il nostro corpo fisico ordinario) corrisponde solo a uno degli strati (livelli, piani) del reale dove le coscienze in evoluzione possono incontrarsi e interagire. In generale, vi sono reti di collegamenti originatisi a partire da “frequenze” fisiche, eteriche, astrali, ecc. La terapia delle costellazioni familiari prende solitamente in considerazione problematiche legate unicamente alla stirpe biologica. Pertanto, si limita a considerare una piccola sottoclasse della vastissima rete di collegamenti della grande “matrice” cosmica.

Dunque, così come vi sono strutture di collegamenti (legami) chimici tra gli atomi di una molecola, esisterebbero strutture di collegamenti sottili tra gli esseri-coscienza. È bene però fare la differenza tra i collegamenti e le coscienze. I collegamenti originano dalle storie delle coscienze, ma a causa di problematiche di natura ambientale (e in particolare a causa di quel processo chiamato morte fisica, o prima morte), si pensa che questi possano acquisire un certo grado di indipendenza dalle coscienze che li hanno originati. Questa ipotesi è alla base delle dinamiche esplorate nelle costellazioni familiari.

Cerco di spiegarmi meglio. Quando una persona muore, la sua manifestazione scompare dalla dimensione intrafisica. L’essere-coscienza non scompare, in quanto continua a manifestarsi su altri piani dimensionali, di natura extrafisica. Scompare unicamente la sua manifestazione sul piano della “frequenza” fisica.

Ora, essendo proprio sul piano fisico ordinario che i collegamenti biologici tra le diverse coscienze si sono formati e stabilizzati, la conseguenza di questa sparizione sarebbe che uno dei “nodi” di questa struttura di relazioni biologiche resterà vacante. Questo dovrebbe portare a una riconfigurazione di detta struttura da parte delle coscienze ancora presenti a livello intrafisico, ma ciò non necessariamente avviene, soprattutto a causa della poca consapevolezza delle coscienze che occupano tale struttura, e della conseguente rigidità della stessa.

Il risultato della scomparsa di uno dei membri della famiglia biologica è quindi la creazione di un “buco” nella struttura, di una “assenza”, dalla quale emaneranno un certo numero di collegamenti verso altri nodi (coscienze). L’ipotesi è che tali collegamenti aperti agiscano come un attrattore per qualsiasi coscienza desideri incarnarsi nelle vicinanze di tale struttura. Infatti, possiamo ipotizzare che ogni struttura tenda a stabilizzare la sua forma (nel bene o nel male) e che questo possa avvenire anche tramite la rioccupazione del nodo vacante (soprattutto nel caso di una struttura cristallizzata).

Seguendo questa logica, possiamo affermare che in generale un individuo, incarnandosi, entrerà a far parte di una struttura di relazioni originatasi nel corso della storia della sua stirpe biologica; una struttura che può nascondere le cause di conflitti vissuti in modo più o meno consapevole dall’individuo, e non direttamente imputabili alla sua storia personale. L’ipotesi alla base del lavoro sulle costellazioni familiari è che solo la messa in luce di questa struttura di relazioni, legata alla storia della stirpe biologica, sia in grado di liberare l’individuo da una sorta di “legge di compensazione” che gli imporrebbe di rivivere, per risolverli, i copioni degli antichi conflitti dei suoi antenati.

Possiamo però interrogarci sui fondamenti di una tale “legge di compensazione”. Dalla mia prospettiva non esiste alcuna legge di questo tipo. Esiste solamente, ed eventualmente, una struttura di relazioni biologiche consolidatasi in un ambiente poco malleabile.

La coscienza che si incarna non è necessariamente tenuta a risolvere i conflitti della sua stirpe biologica. Tali conflitti spesso non gli appartengono, ma vengono vissuti (subiti) unicamente per necessità strutturale.

In altre parole: se una determinata coscienza vuole incarnarsi su questo pianeta, potrà farlo unicamente in una specifica famiglia biologica, occupando uno dei nodi vacanti all’interno della sua struttura di relazioni. E dal momento che la coscienza si incarna non solo nel suo futuro corpo, ma anche entro tale struttura energetica di relazioni, sarà chiaramente nel suo interesse divenirne consapevole e cercare di riconfigurarla, alfine di muoversi con la più ampia libertà possibile, e completare la sua programmazione esistenziale.

Secondo questa lettura, e contrariamente a quanto spesso viene dichiarato nei lavori con le costellazioni, non c’è un vero e proprio “destino della stirpe biologica” con il quale l’individuo deve riconciliarsi per poter a sua volta riconciliarsi con sé stesso. C’è unicamente una: necessità strutturale, imposta dall’ambiente, di assumere una data posizione all’interno di una rete di relazioni biologiche precostituite, quale condizione per potersi incarnare. In altre parole:

I possibili conflitti coi nostri genitori, e altri familiari, possono sì riguardarci, ma solo e unicamente per nostra scelta, e non per obbligo o necessità di aderenza a una non meglio specificata (e verificata) legge di compensazione.

Parliamo ora più specificatamente della famiglia. Spesso si afferma che il sostegno e la forza vitale di ogni individuo provengano dai genitori biologici e, più generalmente, dall’intera stirpe dei suoi antenati biologici. Ogni individuo sarebbe il risultato dell’eredità biologica lasciatagli dai propri genitori, in quanto sarebbe da loro che avrebbe ricevuto il dono della vita. Quindi, solo guarendo i conflitti della propria stirpe biologica questi potrà ritrovare la sua piena forza vitale, e libertà. La conseguenza di questo presupposto è che ogni individuo deve imparare ad accettare il proprio posto in seno alla sua famiglia, qualunque esso sia.

Anche in questo caso dobbiamo vegliare ai rischi di applicare, nel corso di un processo di guarigione, una visione possibilmente errata. Questo può portare a commettere errori anche gravi durante la terapia, con conseguenze molto spiacevoli. Sarebbe utile qui porsi una domanda: se è vero che esiste una realtà animica, che soprassiede ai processi biologici, per quale ragione tutto dovrebbe basarsi sulla biologia?

Il ruolo dei genitori biologici è unicamente quello di offrire alla coscienza che si incarna un veicolo corporeo. Se la coscienza preesiste al veicolo corporeo (o come ritengono alcuni, viene creata da Dio al momento del concepimento), è chiaro che i genitori biologici non sono coloro che hanno realmente donato la vita, ma unicamente coloro che hanno collaborato alla sua manifestazione nella dimensione fisica. Pertanto, la visione delle costellazioni familiari circa l’accettazione senza condizioni dei propri genitori in quanto creatori della vita dei figli sarebbe semplicemente errata. I genitori non creano la vita dei figli, creano unicamente i loro corpi fisici.

La prospettiva corretta sarebbe dunque quella di riconoscere, certamente, il valore del dono ricevuto, che è però solo il dono del nostro veicolo corporeo, non della nostra vita, quindi senza che vi siano falsi “debiti di riconoscenza” impossibili da compensare (come controbilanciare il dono della vita, se non con la vita stessa?). Ritengo che solo da questa prospettiva sia possibile riportare armonia nelle strutture familiari: la credenza a leggi di dipendenza tutte da dimostrare conferisce infatti solo ulteriore rigidità a tali strutture, compromettendone la possibile trasformazione o scioglimento.

Ogni individuo, in linea di principio, nasce libero di scegliere ciò che vuole, anche di disconoscere i propri genitori, che gli donano il corpo (non la vita) senza che vi siano debiti di riconoscenza. Credere al falso bisogno di doversi riconciliare a tutti i costi con la propria famiglia (o stirpe) può condurre a situazioni drammatiche, soprattutto quando si è in presenza di individui che hanno scelto di non aprirsi a un percorso di cambiamento, guarigione ed evoluzione. Un conto è riconciliarsi con se stessi (condizione sine qua non per poter essere liberi), processo che dipende solo da noi, e un altro conto è riconciliarsi con gli altri, processo che dipende non solo dalla nostra volontà, ma anche dalla volontà altrui (che non sempre è presente).

Parliamo ora di canalizzazione. Una volta attribuiti i ruoli e posizionati i personaggi, si produce una sorta di fenomeno di risonanza. Mossi dall’intento comune di entrare in contatto con una specifica struttura di relazioni familiari, i partecipanti imprimono un forte movimento risonante verso tale struttura. Il fenomeno avviene con una certa intensità, grazie alla dinamica amplificante del gruppo. Si può descrivere questa risonanza come la creazione di un duplicato della struttura, a sua volta risonante con la struttura stessa, che viene manifestato e percepito dai partecipanti che si posizionano nei rispettivi nodi. Manifestare un duplicato risonante della struttura non significa però canalizzare i nodi della stessa, cioè le coscienze (fisiche o extrafisiche) che occupano di fatto quei nodi. Prima di andare oltre nella possibile spiegazione di questa dinamica, apro una breve parentesi sul fenomeno stesso della canalizzazione.

Tutti sono in grado, in linea di principio, di canalizzare un’altra coscienza. Ma una canalizzazione, per quanto espressione di un fenomeno naturale, non va mai praticata senza precauzioni e sufficiente consapevolezza. Vi sono persone che, beninteso, possiedono maggiori talenti come canali, nel senso che sono più abili nell’amplificare un flusso informato di energia, lasciandolo entrare nella propria sfera energetica, ma senza le necessarie capacità di difesa energetica, questa maggiore permeabilità può anche tradursi in maggiori rischi.

Torniamo ora alla rete. Stavo dicendo che la creazione di un duplicato della struttura non significa necessariamente che i partecipanti coinvolti stiano canalizzando le coscienze posizionate ai nodi della stessa. Possiamo ipotizzare che in generale la maggioranza delle persone coinvolte nella dinamica percepirà solo la struttura delle relazioni, mentre solo una minoranza, oltre a percepire tale struttura, sarà anche in grado di canalizzare direttamente le coscienze corrispondenti ai suoi nodi.

Canalizzare la struttura significa percepire unicamente la rete energetica delle relazioni della famiglia o stirpe in questione. Facciamo un esempio. La persona di nome Pippo si trova sul nodo corrispondente alla coscienza di nome Topolino. Supponiamo che Pippo non stia canalizzando Topolino, ma unicamente percependo la rete di relazioni che si trova in corrispondenza del suo nodo. Ad esempio, supponiamo che Pippo percepisca una forte antipatia per Clarabella, colei che nella terapia sta evocando un’altra coscienza, di nome Minnie. La sua percezione corrisponde al vero in quanto nella famiglia originale Topolino ha proprio in antipatia Minnie. Ora però, il modo in cui Pippo manifesterà questa antipatia potrà essere molto diverso dal modo in cui la manifesterebbe Topolino, in quanto Pippo è sempre Pippo e non sta canalizzando Topolino. Ad esempio, Pippo potrebbe dire a Clarabella che, pur standogli antipatica, non è un problema se lei rimane a una distanza di tre metri da lui, mentre il vero Topolino gli avrebbe magari detto (cioè avrebbe detto a Minnie) che il suo unico desiderio è di spedirla il più lontano possibile dalla sua vista. In altre parole, Pippo interpreta l’antipatia con il metro del suo essere e del suo vissuto, che può essere molto diverso da quello del vero Topolino. Questo è ciò che intendo dire con il percepire unicamente la struttura (o meglio, il suo duplicato).

Quando Pippo è invece in grado di canalizzare Topolino, e non solo la struttura di relazioni in cui è immerso Topolino, ecco che Pippo, in un certo senso, allinea il suo “sguardo” a quello di Topolino (modificando in questo modo la sua auto-percezione). Quando questo avviene, Pippo parlerà come se stesse parlando Topolino, poiché “vedrà” le cose dal punto di vista di Topolino (con tutte le distorsioni del caso, ovviamente). Pippo in quel momento diventerà Topolino, e ovviamente questa sua “immersione” potrà presentare delle possibili controindicazioni di cui è bene essere consapevoli.

Facciamo un passo indietro. Il lavoro con le costellazioni permette di posizionare un gruppo intero di persone in modo da produrre una forte risonanza energetica (di natura sottile) con un altro gruppo di persone (la famiglia che viene rappresentata). Ho spiegato che per la maggior parte dei partecipanti questa risonanza si limita alla percezione di un doppio della struttura energetica relazionale, e che la percezione unicamente della rete non presenta di per sé particolari inconvenienti per i partecipanti.

Tuttavia, tra i partecipanti vi può essere un certo numero di individui con più facilità a canalizzare (con maggiori capacità parapsichiche). La forza della risonanza di gruppo spingerà questi individui ad entrare in contatto direttamente con le energie della coscienza che occupa il nodo in cui sono stati posizionati. Individualmente, queste persone non sarebbero forse in grado di produrre un tale contatto: è solo con la pressione esercitata dal gruppo che questo può accadere, o accadere così facilmente. Al termine della terapia la persona deve però essere anche in grado di disassimilare le energie coscienziali con cui è entrata in contatto. Se questo non avviene, si possono presentare delle interferenze, a volte anche notevoli e relativamente durature, nella sua sfera energetica, in grado di promuovere dei veri e propri fenomeni di assedio inter-coscienziale.

Possiamo notare un elemento di asimmetria nella terapia. Da una parte una forte spinta iniziale esercitata dall’intero gruppo induce i partecipanti a entrare in contatto con altre coscienze e con la loro struttura relazionale. Per i meno ricettivi l’effetto sarà unicamente quello di portarli a percepire energeticamente la rete. Per gli altri invece, tale movimento risonante li porterà in contatto con la sfera energetica della coscienza in questione (e degli essere che orbitano attorno ad essa). Al termine della terapia però, la forza del gruppo non è più presente nel riportare i partecipanti alla posizione originaria, che sono così costretti a farlo da soli, con purtroppo a disposizione ben pochi strumenti (o nessuno strumento). Il rischio è che per costoro la riappropriazione della propria sfera energetica non avvenga in modo completo.

Possiamo a questo punto apprezzare il valore del suggerimento iniziale, quello cioè di costruire una “carta” in grado di racchiudere l’identità di ogni partecipante. Lo sforzo iniziale e il tempo necessario alla costruzione di questa carta verranno ben ripagati al termine della terapia, quando il gruppo si scioglie e abbandona gli “attori” al recupero della loro identità originaria.

Non sono così rari, purtroppo, i casi di persone che terminano la terapia con la sfera energetica “sporcata” da energie poco edificanti, assimilate nel corso della stessa. Il terapista non dovrebbe mai permettere che questo avvenga e dovrebbe sempre intervenire per riportare tutte le persone al pieno recupero della loro condizione iniziale, anche interrompendo la terapia se si presentassero dei processi di assimilazione energetica troppo importanti. In casi particolarmente difficili, la carta personale (tenuta in tasca dal partecipante) potrebbe essere usata direttamente dal terapista come “mantra di ritorno”.

È bene però non illudersi: il foglietto di carta, riportante i puntatori personali della persona, resta per forza di cose uno strumento estremamente blando, dal valore più che altro simbolico, più utile a riportare le persone un sufficiente livello di “presenza a sé stesse” che realmente a liberarle da eventuali energie residue. Più interessante ed efficace sarebbe insegnare ai partecipanti come attivare uno stato vibrazionale al termine della terapia (vedi ad esempio il Numero 1 di AutoRicerca, interamente dedicato a questo particolare stato energetico), o studiare e sperimentare dei processi specifici in grado di riportare il gruppo, nel suo insieme, al recupero delle identità primarie. Infatti, se è il gruppo nel suo complesso a imprimere tale movimento di ritorno, questo potrebbe permetterebbe alle componenti che si trovano nella situazione peggiore di sfruttare l’onda collettiva per riprendere possesso delle loro percezioni e autopercezioni abituali (delle loro energie coscienziali).

Un modo per fare questo potrebbe essere il seguente. Quando chi ha messo in scena la costellazione ridà a ognuno il proprio nome di battesimo, il gruppo potrebbe assumere questa nuova identità anche in senso relazionale, cioè osservando come la ri-attribuzione delle identità originali modifica il loro modo non solo di percepire sé stessi, ma anche gli altri. Questo cambiamento andrebbe reso il più esplicito possibile, consentendo al gruppo di creare una nuova struttura relazionale e verificare che tale geometria non porta residui relativi al lavoro precedente.

Naturalmente, sarebbe anche auspicabile che prima del lavoro il terapista istruisca i partecipanti che alcuni di loro potrebbero essere portati, per predisposizione naturale, a percepire non solo la rete di relazioni, ma anche a canalizzare direttamente le coscienze che si trovano, o si trovavano, nei nodi in cui verranno posti. E che se questo accade è preferibile, onde minimizzare i rischi di assedio inter-coscienziale, mantenere la piena padronanza della propria sfera energetica, quindi spiegare concretamente come fare per non lasciarsi indebitamente invadere dalla coscienza canalizzata, soprattutto se animata da sentimenti negativi. Purtroppo, nelle terapie i partecipanti entrano solitamente nel ruolo attribuitogli senza alcun tipo di avvertimento, quindi rischiando assimilazioni energetiche anche profonde (e quindi durature). Anzi, solitamente vengono incoraggiati ad amplificare il più possibile le percezioni delle energie con cui entrano in contatto, producendo così una piena assimilazione e somatizzazione delle stesse.

Detto questo, un’ulteriore precauzione che sarebbe bene prendere in considerazione prima di mettere in scena una rappresentazione (che altro non è che un’evocazione di gruppo) è quella di rispettare sempre il sentire dei partecipanti, quando gli viene chiesto se sono disponibili ad assumere uno specifico ruolo. Possiamo ritenere che le persone siano in grado di percepire, intuitivamente, se questo potrebbe comportare dei rischi per loro. Pertanto, non solo è importante chiedere sempre ai partecipanti se se la sentono di entrare in un dato ruolo, ma alla più piccola esitazione, o sensazione di disagio, è bene non insistere (pensando magari che si tratta solo di una resistenza).

Passo ora brevemente a considerare il lavoro del terapista. Durante la terapia questi svolge il ruolo di guida. Idealmente, si tratta di un elemento neutro e imparziale (rispetto alla famiglia), che offre la sua chiarezza e le sue conoscenze al gruppo, alfine di portare i conflitti irrisolti in piena manifestazione, permettere un confronto e suggerire delle vie di uscita. Quando il gruppo si è stabilizzato nella percezione della struttura e, per una minor parte dei partecipanti, dei nodi della stessa, il terapista ha il compito di contemplarla, rilevare le parti più disarmoniche, individuare i punti più malleabili, e incoraggiare i partecipanti a muoversi verso una possibile direzione di guarigione.

Un punto importante è quello di limitarsi sempre a suggerire delle soluzioni, senza mai imporle. Ad esempio, il terapista potrà suggerire delle parole, o un movimento, ma mai renderli obbligatori. Deve sempre essere la persona coinvolta a decidere se vuole, o può, pronunciare certe parole, o effettuare un certo movimento. Ci può essere, certamente, una forma di incoraggiamento da parte del terapista, ma mai una pressione.

Si potrebbe obiettare che se questo avviene è unicamente per velocizzare la terapia e bypassare certe resistenze, ma si tratta di un errore. Infatti, unicamente le persone che si trovano all’interno della struttura di relazioni sono in grado di stabilire (purché sufficientemente consapevoli) quali sono i movimenti e le parole realmente pronunciabili. Il terapista, infatti, pur godendo di una visione panoramica della struttura, non è solitamente in grado di valutarne le rigidità e i gradi di libertà operabili, percepibili correttamente unicamente da chi si trova al suo interno. È dunque importante che qualsiasi parola o movimento venga attuato liberamente dai partecipanti, senza forzature. Il rischio altrimenti è di produrre dei movimenti incompatibili con la struttura stessa, solo apparentemente guaritori, che aggiungerebbero ulteriori tensioni e sovrapposizioni.

Uno dei problemi è che chi guida il lavoro a volte possiede un’idea precisa (ma non per questo corretta) di quale dovrebbe essere l’ordine da ristabilire nelle strutture familiari. Come già accennato, spesso questo ordine viene considerato in base unicamente a una logica di tipo biologico, fondata sul bisogno, anziché di tipo coscienziale, fondata sul libero desiderio. Ad esempio, ritenendo che i figli siano sempre obbligati a riconoscere l’amore dei genitori (anche quando assente), verso i quali intratterrebbero una sorta di dipendenza permanente (senza il collegamento coi genitori, verrebbe meno il collegamento con la stirpe, erroneamente considerata l’unico sostegno per l’essere-coscienza).

Spesso si ritiene, dalla mia prospettiva erroneamente, che tutti i problemi individuali siano il solo effetto di un irretimento, e che una volta ristabilito il corretto ordine nella famiglia e riconosciuti i rispettivi ruoli, chiunque potrà rivelare la propria vera natura, che sarà sempre amorevole e buona. D’altra parte, ci si dovrebbe anche chiedere quale sia l’origine degli irretimenti negativi, chi li ha creati e perché. È il vecchio problema dell’uovo e della gallina: è l’irretimento che causa la scelta del male, o è il male che causa l’irretimento? Sono domande difficili, che è bene non banalizzare. L’irretimento è sicuramente parte del problema, ma ognuno di noi è la risultante di un percorso personale, multi-millenario, che ha portato alla costruzione di una realtà interiore, individuale, che non sempre si rispecchia nella strutture di relazioni che di vita in vita andiamo esteriormente ad occupare.

In altre parole, siamo tutti “vittime” di una rete di condizionamenti-irretimenti esteriori, la cui intensità può certamente stordirci e offuscarci, e molte persone, una volta liberate da questi irretimenti, saranno indubbiamente in grado, o più facilmente in grado, di volgere il loro sguardo verso la luce, scegliendo il bene, la verità e l’amore nella loro vita. Vi sono però anche delle persone che pur trovandosi nella posizione di poter scegliere nuovamente, non per questo necessariamente lo fanno, imponendo a chi gli sta vicino di subire il ritardo del loro movimento. E questo ovviamente non è un bene. Infine, vi sono coloro che, apparentemente consapevolmente, scelgono di propagare la sofferenza anche quando una scelta differente sarebbe possibile, perché questa è la cosa giusta da fare secondo la loro visione del mondo.

Insomma, è importante che il terapista tenga sempre conto di queste diverse tipologie di coscienze, onde non incorrere nel disastro di una visione troppo “all’acqua di rose” che lo porterebbe ad esempio a cercare di ricomporre un rapporto con dei membri della famiglia, o della stirpe, il cui copione di vita è dichiaratamente e irrimediabilmente ostile. In altre parole, a volte è un bene provare a ricongiungere, altre volte rompere definitivamente una relazione è il male minore, e nessuna idea precostituita a riguardo deve poter condizionare il processo terapeutico.

Concludo con un’ultima considerazione. Le costellazioni familiari sono uno strumento terapeutico di una notevole potenza, in quanto in grado di “portare giù” e “plasmare” diverse tipologie di energie coscienziali, tramite la forza di un gruppo che le evoca. Lo strumento in quanto tale è ovviamente neutro; pertanto, il modo in cui questo verrà utilizzato è responsabilità unicamente del terapista. Scopo di questo mio scritto è solo quello di accrescere la consapevolezza sia dei terapisti che dei partecipanti circa i rischi di un suo utilizzo non sufficientemente consapevole, suggerendo alcuni possibili accorgimenti e punti di riflessione che mi auguro contribuiranno a renderlo più sicuro.

Originally published at www.zenon.it on December 15, 2014.

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