Extended Reality Experience

Davide Rossi
meduse
Published in
6 min readJan 11, 2022

Osservazioni e dubbi sulla progettazione di esperienze ibride e virtuali, partendo da Mario Kart.

Photo by Vinicius "amnx" Amano on Unsplash

Il mercato dei videogame è da sempre strettamente legato all’innovazione tecnologica e storicamente si è dimostrato precursore e stimolo per l’applicazione di nuove tecnologie in ambiti differenti.

È il caso della Extended Reality, termine che racchiude sotto lo stesso cappello Virtual Reality (VR), Augmented Reality (AR) e Mixed Reality (MR); tecnologie simili ma profondamente differenti per quanto riguarda la loro applicazione e la conseguente esperienza utente.

Ho passato buona parte di questo ennesimo periodo natalizio in quarantena fiduciaria giocando ad un prodotto che sfrutta la realtà aumentata, quelle che seguono sono una serie di osservazioni e dubbi sulla progettazione di esperienze ibride tra fisico e digitale.

Mario Kart Live: Home Circuit

Mario Kart Live: Home Circuit è il più recente gioco della serie Mario Kart, storico titolo Nintendo nonchè vero feticcio ed unica religione di meduse. Pubblicato ad Ottobre 2020, Home Circuit è sensibilmente diverso da tutti le uscite precedenti in quanto aggiunge un elemento fisico al gioco digitale.

Il kit contiene quattro porte in cartone, che vanno posizionate sul pavimento per creare il tracciato, e un kart con videocamera integrata. Il kart viene controllato tramite i joy-con, come se fosse una macchina radiocomandata, ed il software interagisce con le porte sfruttando la realtà aumentata. Sul monitor della Switch appaiono quindi le immagini girate in tempo reale dal kart che si muove per la stanza mentre avversari, armi, ostacoli sono aggiunti in digitale. Ciò che succede sullo schermo si riflette sul veicolo fisico e viceversa: usando un fungo anche il kart fisico farà uno scatto, se si viene colpiti il kart si fermerà momentaneamente e così via.

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La centralità del device

I device sono elementi chiave di esperienze phygital come quella di Mario Kart, non solo perché ne permettono la fruizione, ma perché ne diventano inevitabilmente parte. La progettazione di questo tipo di esperienze non può quindi prescindere dalla definizione del ruolo dei dispositivi coinvolti.

In primo luogo è essenziale che l’utente non subisca la presenza del device come un vincolo. Nel corso di una gara di Mario Kart il giocatore interagisce con la console come è abituato a fare con qualsiasi altro gioco. Non è richiesto l’utilizzo di supporti aggiuntivi, non è necessario spiegarne il funzionamento e il tutto è vissuto con estrema naturalezza; di fatto nel momento della corsa ci si dimentica presto del kart radiocomandato. Si potrebbe quasi dire che l’esperienza vissuta dal gamer sia completamente digitale se non fosse per l’augmented reality che la arricchisce e la rende unica proprio perché riesce ad integrarsi portando un valore aggiunto, senza sovrastare gli altri fattori in gioco.

Ma il device può anche elevarsi a parte attiva dell’esperienza nella sua fisicità.
Sempre restando in casa Switch è quello che succede con Nintendo Labo, un gioco che si basa sull’assemblaggio di strutture di cartone nelle quali la console viene inserita diventandone parte integrante ed assumendo di volta in volta un ruolo diverso interagendo con gli altri elementi fisici.

Lo stesso device, due esperienze phygital completamente diverse.

Il device diventa parte integrante dell’elemento fisico dell’esperienza

Considerare tutti gli utenti

La realtà aumentata permette di aggiungere elementi digitali ad una scena inquadrata in presa diretta. In fase di progettazione si deve tenere in conto che il contesto non potrà mai essere controllato al 100% e che le variabili in gioco derivano anche dalla configurazione fisica dell’ambiente.

Bisogna, inoltre, considerare che gli utenti usufruiranno dell’esperienza digitale nello stesso momento in cui altri utenti vivranno esperienze fisiche. A maggior ragione, con l’introduzione di un elemento mobile come il kart, anche chi non sta guidando può partecipare al gioco con un ruolo più o meno attivo e consapevole.

Tutti gli utenti coinvolti hanno uguale dignità e le diverse esperienze vanno progettate sapendo che influiranno l’una sull’altra.

Utenti pelosi

Considerare tutta l’esperienza

Spesso l’esperienza phygital è allargata, non si limita, cioè, solo al momento di gioco ma comprende anche la fase di assemblaggio e pianificazione. Succede, per tornare agli esempi presi in considerazione fin qui, sia con Mario Kart che con Nintendo Labo.

Poiché tutte le fasi incidono nel grado di soddisfazione va posta la giusta attenzione alla progettazione di tutti gli step in modo che l’esperienza possa essere appagante nella sua totalità.

In ambito ludico e videoludico esistono esempi celebri di quanto sia importante offrire una buona esperienza di preparazione. D’altra parte è più divertente montare un LEGO o giocarci? Qualcuno è mai andato oltre la creazione del personaggio di D&D? I vari giochi di simulazione da SimCity in poi non sono, in fondo, una infinita fase di assemblaggio?

Ma anche uscendo dal settore possiamo notare particolare attenzione all’esperienza end-to-end. Dalla sempre maggiore cura rivolta alla fase di unboxing, e relativa progettazione dei packaging; fino al classico esempio di IKEA che ha fatto del montaggio parte integrante dell’esperienza dei propri prodotti, tanto che in psicologia si parla di IKEA effect per indicare quel bias cognitivo che porta gli utenti ad attribuire un valore maggiore ai prodotti che hanno contribuito a realizzare.

DIY

Imitation of life

La memoria gioca un ruolo fondamentale nella buona riuscita di un prodotto come Mario Kart Live. In molti da bambini abbiamo creato circuiti in casa e giocato con le macchinine passando sotto le sedie o sfruttando oggetti di uso comune come ostacoli e ponti. Il gioco fa leva su un’emozione forte come la nostalgia ricreando situazioni già vissute e ampliandole sfruttando molto bene la tecnologia.

L’augmented reality non può prescindere dall’ambiente reale, lo arricchisce inserendo elementi digitali che, a seconda delle esigenze, possono essere fantastici, realistici, informativi, etc. È quindi insito nella natura di questa tecnologia il rifarsi alla realtà. Anche in una situazione come quella messa in atto da Mario Kart, che prevede una certa dose di sospensione dell’incredulità, l’esperienza diventa tanto più efficace quanto gli elementi digitali interagiscono in maniera verosimile con l’ambiente nel quale sono immersi.

Diverso è il discorso per la realtà virtuale che, a differenza della AR, è caratterizzata da ambienti ricreati digitalmente e dall’utilizzo di visori opachi che rendono l’esperienza totalmente immersiva e completamente distaccata dalla realtà circostante. Questo vuol dire che in teoria si potrebbero progettare modalità di interazione completamente inedite, eppure tutte le applicazioni che ho visto finora mi sembra che possano essere ricondotte ad una “imitazione della vita”.

Sicuramente uno degli utilizzi della realtà virtuale è quello di simulare esperienze “fisiche” difficilmente fruibili in prima persona perché lontane nello spazio (un luogo remoto o non accessibile) o nel tempo (l’antica Roma) e in questi casi il fattore di simulazione della realtà è fondamentale.

Ma siamo sicuri che questa sia l’unica applicazione possibile di questa tecnologia?

Il metaverso annunciato da Zuckerberg al momento sembra essere una sorta di evoluzione di Second Life, ossia la ricostruzione di un mondo virtuale all’interno del quale muoversi, incontrarsi e fare acquisti. Anche applicazioni di virtual office come Immersed, che vorrebbero portare il lavoro quotidiano in VR, sono strenuamente attaccate alla fisicità alla quale siamo abituati e quindi si indossa un visore per visualizzare un monitor e lanciare comandi attraverso una tastiera.

Davvero?!? - Image by Il Post

Ad oggi, nessuno è in grado di prevedere come verrà sfruttata questa tecnologia e quale sarà il suo grado di diffusione in futuro, ma il giorno in cui lavoreremo tutti in VR forse penseremo alla fase che stiamo vivendo adesso un po’ come pensiamo allo skeumorfismo delle prime interfacce touch: un approccio naif, non molto elegante ma probabilmente necessario.

In ogni caso queste tecnologie sembrano mature per essere applicate su molteplici ambiti e la sensazione è che i limiti delle esperienze ibride o virtuali siano oggi fortemente dovuti alla progettazione della user experience stessa, perché qualsiasi tipo di tecnologia che non viene messa al servizio degli utenti rischia di essere fine a se stessa.

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