Il progettista invisibile

Erik Ragni
meduse
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6 min readMay 13, 2019
Photo by Alex Iby on Unsplash

Ciclicamente da ormai una decina d’anni notiamo come il tema dell’intelligenza artificiale (AI) si stia insinuando nelle nostre vite. Un argomento ricorrente e sempre più “caldo”, di cui leggiamo articoli non sempre ottimistici, soprattutto quando si parla di lavoro.

Mesi fa al Milano Digital Week ascoltavo Jerry Kaplan, autore di “le persone non servono” parlare di impatto dell’AI nel nostro prossimo futuro: incremento e riduzione di opportunità professionali, consumi, inclusione ed esclusione sociale. In sala c’era il tutto esaurito.

L’ AI ha sempre suscitato un certo fascino, sembra essere un fertilizzante potentissimo per l’immaginario comune: è dalla nascita del calcolatore che sentiamo parlare di robot che ci ruberanno il lavoro o che, nella peggiore delle ipotesi, causeranno la nostra estinzione. Le nuove tecnologie tanto per cambiare sono viste come una minaccia.

Liberarci dai clichè legati all’AI e al Machine Learning non è banale, basti fare una ricerca su Google Immagini per farsi un’idea. Kaplan si chiede quanto realmente sappiamo quando e dove viene applicata l’AI, quanto siamo stati influenzati dall’immaginario comune, e quanto veramente siamo consapevoli del loro utilizzo.

Se vi dovesse mai capitare di visitare il museo nazionale per l’innovazione Miraikan a Tokyo noterete come anche in una cultura tecnologicamente avanzata come il Giappone l’idea di AI venga rappresentata ancora in forma di androide o manichino parlante (a seconda dei punti di vista). Come se un sistema intelligente in grado di agire umanamente debba per forza assomigliargli fisicamente. Oggi l’industria dei servizi è pervasa dai robot, ma di sicuro la loro “umanità” non è definita da una bocca, occhi o da mani. Che forma ha quindi l’AI? Quali sono gli utilizzi che più mettono in evidenza il suo valore aggiunto?

AI si, ma dove?

Sentiamo sempre parlare dell’importanza di avere accesso ai big data, ma avere a disposizione enormi orecchie per ascoltare un disgregato e caotico fiume di dati non ci aiuta a estrapolare quei preziosi indizi utili a prendere la decisione giusta.

Estrarre valore dai big data attraverso la generazione di insight rilevanti, oggi questo è il migliore utilizzo che riusciamo a fare dell’AI. Un utilizzo a cui ancora è difficile conferire qualità umane.

Youtube, Spotify, Netflix, Booking.com. queste aziende leader di settore hanno una cosa in comune: tracciano i loro clienti sul sito web o sull’app per un lungo periodo, poi lavorano su uno storico considerevole di dati e generano in tempo reale una serie di proposte e indicazioni ottimizzate per essere il più rilevanti possibile rispetto a uno specifico cluster di utenza.

L’ AI per come viene utilizzata oggi è una scatola chiusa, invisibile, senza connotati, ma per alcuni specifici aspetti sembra conoscerci meglio di nostra madre.

Quali minacce legate al suo utilizzo?

Molti articoli sono stati scritti su come l’AI impatterà su società e lavoro. E’ indubbio che innovazioni come Intelligenza artificiale, e Machine Learning, stanno avendo un impatto fortissimo sui servizi. Queste trasformazioni stanno mettendo alla luce numerose questioni anche etiche, le cui implicazioni non erano ad oggi ancora state previste.

Esiste un aspetto etico legato alla delega decisionale alle macchine, e alla responsabilità di suoi eventuali errori. La causa di certi errori non è però un problema legato solo alla tecnologia, spesso ci dimentichiamo che non è il robot la causa, ma chi ha progettato l’algoritmo, il programmatore che inconsapevolmente può aggiungere i propri “pregiudizi” o “inquinare” la fonte del dato.

Ricorderete il caso di Tay, l’algoritmo parlante implementato da Microsoft nel 2016. Apprendendo dagli utenti che interagivano con i suoi post su Twitter, ad un certo punto ha cominciato a generare commenti razzisti, al punto da dover essere rimosso. Riguardo a questo tema consiglio un articolo molto interessante di John Murray su come i pregiudizi umani influiscono sullo sviluppo di applicativi basati su intelligenza artificiale.

“Dati distorti portano a risultati distorti, ma tendiamo a fidarci dei risultati dell’IA perché è “Intelligenza Artificiale”. Il pericolo principale è riporre la nostra fede dove non dovremmo“

E qui si evidenzia un altro aspetto etico legato alla naturale leggerezza con cui consideriamo gli insight di un algoritmo per il solo fatto che si basa su dati che consideriamo oggettivi. Vedo sempre più spesso aziende che basano le scelte di UX i UI su insight generati da software di marketing automation intervenendo su particolari marginali come la stondatura di un bottone, su una leggera variazione di colore, sul micro particolare per migliorare la performance di pochi decimi percentuali, senza avere una visione più ampia del contesto, senza rendersi conto delle motivazioni reali e profonde legate a quel comportamento utente.

L’AI è uno strumento che offre potenzialità di utilizzo incredibili, ma gli insight che genera devono essere ponderati e interpretati con la giusta dose di buonsenso.

Che parte ha l’uomo in tutto questo?

Le strategie e i comportamenti che le persone adottano per soddisfare i propri bisogni non sono forse il riflesso della loro stessa natura umana? Può una macchina davvero capirli e quindi prevederli?

A mio parere no, non senza l’aiuto dell’uomo.

Il design dei servizi si contraddistingue per aver messo le persone al centro del progetto. Ciò rende così efficace un workshop di design thinking è la nostra capacità di creare relazioni tra persone e cose.

Alla fine di un workshop mi sorprendo sempre quando vedo il lavoro di co-creazione e le soluzioni che siamo riusciti a costruire con chi quel lavoro non l’aveva mai fatto.

“La creatività non è un raro dono di cui godono pochi fortunati , è una parte naturale del pensiero e del comportamento umano. In troppi di noi, questo processo mentale viene inibito e bloccato. Ma può essere sbloccato. E sbloccare quella scintilla creativa può avere implicazioni di vasta portata per te, la tua organizzazione e la tua comunità. “- Tom Kelley, esperto di Design Thinking & Innovation.

Nei processi di Design Thinking il designer non ha solo il ruolo di facilitatore, ma di “disinibitore” della creatività . E questa è una capacità che le macchine difficilmente riusciranno a sostituire.

Che ruolo ha l’AI in un processo creativo di progettazione?

Dove quindi può aiutare l’AI in un processo di Design Thinking, è nella fase di discover iniziale e nella raccolta dei dati. Questa fase, necessaria per definire le personas, è forse l’anello più debole dell’intero processo, perchè i suoi contorni non possono essere nitidi per definizione e nascono da una necessaria stereotipazione dell’utente, con tutti i chichè del caso che non rendono giustizia alla complessità della natura umana.

AI e machine learning attraverso l’analisi di un’enorme mole di dati riescono ad individuare pattern capaci di mettere in evidenza cluster di utenza e schemi di comportamento inaspettati e liberi da pregiudizi: frizioni, problematiche ed esigenze lato utente che non erano mai state evidenziate in precedenza.

Ecco che l’analisi dei dati non strutturati può aiutare il progettista a definire degli archetipi più realistici, contestualizzandoli in una customer journey più precisa e fedele alla realtà.

Il ruolo del team di progettazione attraverso una metodologia Design Thinking è quello di scoprire le cause alla base degli schemi individuati, sia nella fase di discover sia nella fase di testing del prototipo. Sta al designer scoprire le motivazioni umane profonde che sono alla base di questi comportamenti e le soluzioni progettuali più efficaci per conciliare le esigenze dell’utente con le esigenze di business.

Esistono diverse startup che si stanno muovendo in questo senso, TeamMachine per esempio, una piattaforma che struttura i dati comportamentali nelle organizzazioni utilizzando l’IA per determinare il “miglior” piano d’azione per ottimizzare una trasformazione organizzativa.

Architech, una software house che opera nel campo della digital transformation, ha aiutato un cliente attivo nel Real Estate Investment e riprogettare un un sistema di business completamente nuovo attraverso l’AI individuando pattern e qualità predittive nei dati a disposizione.

Due intelligenze diverse per un unico obiettivo. Un nuovo modo di progettare.

Storicamente, il Design Thinking e Intelligenza Artificiale si sono sviluppati seguendo un percorso simile: tutti e due vengono concepiti alla fine degli anni ’50 per poi fiorire negli anni ‘90.

Anche se oggi vengono ancora visti come campi separati, hanno in comune lo stesso obiettivo: sono due strumenti ideati per aumentare le capacità intellettive dell’uomo.

Design Thinking e Intelligenza Artificiale potrebbero diventare parte di uno stesso processo, perché sono perfettamente complementari. Possiamo così immaginare un modo di progettare nuovo che parte dal dato particolare, indagando con l’AI schemi ricorrenti in determinate routine di comportamento, per poi far leva su un pensiero meno analitico e più generalista tipico del Design Thinking dove vengono richieste skill come empatia, collaborazione, intuito e creatività. Un modo di progettare ibrido, che ci libera da stereotipi e ci avvicina alla vera natura dell’individuo in un determinato contesto d’uso.

Un assistente intelligente, ispiratore, e invisibile. Quello che tutti sogniamo di avere al nostro fianco ogni lunedì mattina.

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