Una designer introversa

Come far pace con se stessi in un mondo in cui tutti vogliono farsi notare.

Fabia Ciccone
meduse
7 min readSep 15, 2020

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Photo by Elliot Mann on Unsplash

Fin da piccola sono sempre stata introversa, schiva, riflessiva e silenziosa. Caratteristiche che la nostra società tende a non ricercare nè valorizzare ma con le quali il mondo del lavoro ti costringe a fare i conti. I conti li ho fatti imparando ad ascoltare e metabolizzare il pensiero e i comportamenti delle persone che mi circondano, senza più forzarmi di apparire come “gli altri”.

All’università non insegnano come fronteggiare il cambio di vita che comporta la nuova quotidianità lavorativa. I limiti imposti alla gestione individuale del proprio tempo e alla libertà decisionale portano, involontariamente ed incondizionatamente, a confrontarsi con il proprio modo di essere.

I più fortunati — io mi considero tale — dopo qualche anno di gavetta in cui è necessario stringere i denti, riescono a trovare il proprio ambiente.
Come si capisce quando è quello giusto? Non lo so, o meglio, penso sia talmente soggettivo da non avere una spiegazione logica. Tutto dipende dal carattere dell’individuo, dalle sue aspettative, dalla formazione e umanità dei suoi superiori e da quell’insieme di sensazioni intangibili, come per esempio l’umore con cui quel lavoro ci fa alzare la mattina.

Tutto questo per dire che ho 29 anni, sono una designer e mi sento soddisfatta del lavoro che svolgo. Non nego però di aver passato anni complicati nel corso dei quali il dispendio di energia impiegato per cercare di conformarmi all’ambiente in cui mi trovavo mi ha completamente sovrastata, tanto da farmi vivere in uno stato di confusione e conflitto interiore che ha finito per zittire ancora di più quello che di buono avevo dentro.

Si sa, le esperienze negative servono per portare qualcosa di positivo, o almeno voglio credere che sia così. A me hanno portato consapevolezza e con essa una serie di ragionamenti che si azionano in maniera automatica non appena nella mia testa scatta quel campanello che ormai ho imparato a riconoscere come allarme.

Di seguito vorrei ripercorrere quella che è stata la mia breve esperienza, cercando di visualizzare i miei pensieri in modalità design-related. Tutte le osservazioni descritte sono scaturite grazie a progetti, incontri e dialoghi avuti con persone diametralmente opposte a me.

L’obiettivo che mi sono data è quello di analizzare l’importanza delle parole nel nostro lavoro.

L’importanza della parola

Siamo progettisti. Progettiamo interfacce, flussi, copy, workshop di design thinking. Spesso ci viene chiesto di raccontare il lavoro che abbiamo svolto e per questo realizziamo presentazioni e storytelling.
Sono una persona che trova difficoltà nell’affrontare argomenti di tipo personale ma quando si tratta di parlare di questioni lavorative l’inibizione svanisce e vado dritta come un treno.

Dopo anni di convivenza con il mio essere introversa posso dire che più delle parole è importante come ci si rapporta con l’interlocutore, consci del fatto che le conversazioni avvengono spesso tra ruoli che si trovano su diversi piani gerarchici.

Diventa così necessario prestare attenzione al linguaggio del corpo, agli aspetti para-verbali, alla capacità di mettere a proprio agio le persone, al saper ascoltare e all’essere rassicuranti per poter instaurare un rapporto di fiducia.
Il saper ascoltare rappresenta per me una questione di vitale importanza. Prendiamoci qualche secondo per pensare a quante volte ci è capitato di parlare con interlocutori distratti, o peggio ancora con qualcuno che non appena iniziamo un discorso ci interrompe per dire la sua.
I motivi? Affermazione di potere — è davvero ancora necessario? — , superficialità, indifferenza e insicurezza.

La parola nasconde emozioni, tanto che le persone che parlano molto spesso sono quelle più insicure. Si viene quindi inondati da parole dette per nascondere in realtà un qualcosa che non funziona come si vorrebbe, senza la piena consapevolezza e padronanza di quello che si sta cercando di comunicare.
Nel mio lavoro in particolare penso sia molto importante pensare per poi agire, avere un modello chiaro nella mente per poi raccontarlo.
L’istinto preferisco tenerlo per me in attesa di elaborarlo in una soluzione implementabile.

Che forma ha l’empatia?

Questa è una di quelle parole che si sentono fin dal primo anno di università. I libri ce l’hanno sempre descritta come la capacità di inserirsi immediatamente nello stato d’animo o nella situazione di un’altra persona, con nessuna o scarsa partecipazione emotiva.
Tutti sappiamo quanto per noi designer sia importante riuscire ad avvicinarsi il più possibile ad una situazione empatica. Il cliente racconta il suo requisito, noi cerchiamo di capire i suoi bisogni, il motivo per il quale alcuni aspetti sono dati per scontati o perché altri vengono molto accentuati e sulla base di questo elaboriamo un nostro flusso di lavoro.

Quello che mi sono sempre chiesta è come sia possibile entrare in empatia con l’altra persona quando quest’ultima viene sovrastata di parole e domande inutili che spesso generano ansia e insicurezza.

Forse l’empatia ha la forma del silenzio, dell’ascolto e delle parole dette al momento giusto.

La differenza tra parlare (e agire) per sentito dire o per esperienza diretta

Nei miei momenti di “osservazione e ascolto”, che spesso vengono percepiti erroneamente come timidezza, mi rendo conto di quanto spesso le persone parlino “per sentito dire”, riportando cioè narrazioni di situazioni che non sono state vissute in prima persona. Quando il carisma del relatore sovrasta la veridicità del racconto si rischia di ricevere storie artefatte e di scarso valore.

Quando riguarda il lavoro invece? Non c’è niente di più bello dello studio e della ricerca ma non c’è niente di più appagante del percorso che guida alla conoscenza diretta dei comportamenti delle persone.
Come designer, abbiamo il dovere di ascoltare quanto più possibile per poter poi progettare soluzioni costruite su misura.

Fare domande per approfondire o perché non si ha capito

Quando si è estroversi, penso si faccia fatica a riconoscere e prendere coscienza dei propri limiti. Da estranea ai fatti riesco a percepire che quello che conta è riuscire ad essere sempre al massimo e sul pezzo, non sono ammessi errori — da chi? — .
Quello che vedo funzionare per la maggiore è un ribaltamento della situazione, il ben noto comportamento che si assume quando si risponde con una domanda. Nella maggior parte dei casi quella domanda non è costruttiva, anzi rischia di essere dannosa perché lascia quella sensazione di aver parlato a vuoto con una persona che non riesce ad ammettere di non aver capito.

Le domande sono uno degli strumenti più utili che abbiamo a disposizione: ci permettono di conoscere e di approfondire, promuovono l’esplorazione e la scoperta di spazi personali. Non dimentichiamoci però che le domande possono essere invadenti quindi un po’ di cautela non guasta, sia sul piano personale che su quello lavorativo.

La differenza tra farsi notare e brillare

Qualche tempo fa seguivo un paio di gruppi Facebook nati per proporre discussioni su argomenti UX/UI. Dopo aver letto una decina di thread mi sono immediatamente cancellata. Mi sembrava tutto talmente lontano da me tanto da chiedermi perché le persone sentissero la necessità di un confronto continuo con perfetti sconosciuti. Gli argomenti proposti, a mio avviso, erano al limite del banale e mi prospettavano un mondo pieno di persone che vogliono eccellere, emergere, mostrarsi ed essere le migliori — rispetto a cosa? — . Discussioni infinite sul migliore posizionamento di bottoni o sulla lunghezza delle linee degli hamburger menu, una ostentata ricerca di visibilità a colpi di post e commenti che aumentavano di minuto in minuto.

La curiosità è giusto che sia insaziabile, ma il fine di tutto questo? Vi siete mai chiesti in cosa consiste la differenza tra farsi notare e brillare?

La buona riuscita di un progetto quando ci si scontra con tutto quello che si teme

Lo ammetto, la mia paura più grande appena arrivata nel mondo lavoro era quello di non riuscire a conciliare la mia personalità con quelle dei miei colleghi. Sapevo che non sarei riuscita a scendere a compromessi o fingere per apparire diversa. Poi ho capito che un team per funzionare deve avere degli equilibri, non possono essere tutti come me e io non ho bisogno di essere uguale agli altri.

Quando si impara a valorizzare la diversità di ogni individuo si affrontano molto meglio le sfaccettature delle situazioni che si presentano.
L’equilibrio è regolato dal risultato finale e dall’impegno che ci si mette per raggiungerlo, dai fatti e non sempre dalle parole. Dalle cadute e dal sapersi rialzare in fretta perché il team ne ha bisogno. Dalla precisione e dalla perseveranza, dal saper trovare una soluzione per rendere tutti sereni.

Dopo qualche scottatura, sono arrivata in un luogo nel quale non vieni catalogata per la quantità di parole che dici. Posso avere la libertà di passare la pausa pranzo leggendo un libro senza sentire la pressione degli sguardi dei colleghi. Ci è voluto tanto per raggiungere la consapevolezza che il mio modo di essere non è mio nemico e quando questo viene percepito dalle persone che vivono con me la quotidianità è già una semi-vittoria.
Rimango dell’idea che avere un atteggiamento positivo verso se stessi e verso gli altri renda il cammino di noi introversi un po’ più semplice.

Non è per niente timidezza, è solo una piccola membrana che ci separa dall’universo delle parole. Ma quanto sarebbe bello farsi conoscere per quell’universo che ogni giorno ci portiamo dentro?

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