It: il coraggio è la somma delle paure

Stefano Pace
Il MedItaliano
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6 min readNov 5, 2017

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In alcuni punti tratterò del plot (peraltro abbastanza noto) del film “It” e farò dei riferimenti ad alcuni suoi passaggi. Di conseguenza, se non avete visto il film o letto il libro, non andate oltre (avvertimento che suona bene per un film horror…).

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It non è per tutti i momenti. Se siete un po’ scossi perché la vostra squadra sta giocando un pessimo campionato, se siete turbati dalle politiche monetarie, se perdete il sonno perché il colore della stanza vi disturba, lasciate stare It e non guardatelo. Come ormai noto a chiunque abbia incrociato anche indirettamente la storia di Stephen King, la funzione originaria del libro di King e quindi del film non è quella di far paura, bensì di smuovere un po’ le nostre angosce preesistenti. Una paura da dentro, stimolata dallo schermo. Raggiungereste quindi la conclusione emotiva che la vostra squadra andrà in serie B, che la fine del quantitative easing romperà l’economia, che la vostra stanza vi renderà insonni per sempre. Boooooh!

Sedendosi al cinema per vedere It, ci si ingegna in un minimo di riflessione su ciò che ci mette ansia addosso in quel momento. Non fai certo introspezione mentre ti accomodi, però sai che un clown con una dentizione ipertrofica sta per saltarti addosso dallo schermo ripetutamente, quindi provi a premunirti provando a elencare le tue paure del momento per capire se possano essere davvero amplificate da una storia e dalla sua resa cinematografica. Il fatto stesso di prodursi in questo breve elenco dei pensieri cupi del momento è un atto di fiducia verso la promessa di Stephen King nel libro e del regista Andy Muschietti nel film: entrare in risonanza con i tuoi timori. Ma facciamo un passo avanti, anche perché qualsiasi horror degno di questo nome adotta lo stesso meccanismo del far leva sul (p)regresso dello spettatore. It merita uno sguardo diverso.

La debolezza del bene è la sua forza

Una lettura un po’ superficiale di It adotta la prospettiva del classico finale in cui l’amore e il coraggio sconfiggono il male. Forse non è così nella cosmogonia di King e dobbiamo invece restituire a King un valore letterario più profondo di un finale interpretato in modo disneyano. Alla fine non sono la speranza o il coraggio a sconfiggere It. Non è neanche il sacrificio in nome del gruppo, né lo sforzo collettivo coordinato. Ciò che sconfigge la paura è la somma di tante paure individuali che si ritrovano inaspettatamente insieme:

  1. Paure che non sono mai completamente sincronizzate. Stan è turbato dalla religione e prova un’angoscia diversa da quella di Mike, ragazzo discriminato dalla società; angoscia che è a sua volta distinta dall’ipocondria di Eddie o dagli assalti del padre di Beverly. Eppure queste situazioni personali, asincrone, possono creare un’onda di paura comune, come onde sonore che si sommano amplificandosi a vicenda. Per creare questo improvviso legame fra problemi individuali paralleli e non comunicanti (nella sensazione di isolamento che un teenager può provare e che viene ben giocata nel film), è necessario qualcosa che rappresenti il minimo comun denominatore dell’ansia. Qui sta la capacità di King e del film: quel minimo comun denominatore collettivo delle paure soggettive è un vuoto, un misterioso essere di cui non si sa nulla e sul quale nulla è dato sapere, neanche alla fine della storia. It, appunto: un coso, un qualcosa. It è una cassa di risonanza vuota per onde individuali che sommandosi si amplificano, rendendo l’angoscia singola un timore di gruppo che spinge ad agire e affrontare il mostro, finalmente insieme.

2. Paure che pongono il singolo sempre sull’orlo del tradimento del gruppo. Il momento peggiore per uno può essere tollerabile per un altro e quindi spingere alla fuga il primo e dare un momentaneo coraggio al secondo. Il gruppo si sfalda e It diventa il predatore che individua nel gregge l’individuo più debole e lo assale. Il film è denso di queste scene in cui l’assalto di It viene portato al singolo e in cui il singolo si sente isolato e non in grado di comunicare al resto del mondo, lì fuori, che ciò che è accaduto è vero. L’angoscia soggettiva rischia di diventare ossessione personale e non carica di gruppo. La scena in cui il gruppo ripulisce doviziosamente il bagno di Beverly dall’inondazione (non di acqua…) è una scena centrale e il momento in cui tutti riconoscono la paura di Beverly e capiscono che le rispettive paure possono comunicare, sono vasi collegati e non isole autonome. Non a caso, è la scena paradossalmente più romantica (King style, of course) del film, in cui Beverly fraintende Bill, pensandolo erroneamente autore di una poesia d’amore, mentre Ben li occhieggia geloso e affranto per l’amor perduto. I turbamenti vitali e quelli spaventosi vengono confessati, intuiti, ammiccati: vengono comunicati, anche se con qualcosa che rimane frainteso e non detto. Lì il gruppo si forma e, pur nei tentennamenti singoli, implicitamente trova un accordo per sconfiggere in comune le paure di ciascuno, pur non comprendendole mai del tutto.

La sconfitta del male (parziale e temporanea in It) non viene operata da un gruppo di coraggiosi, ma da un Loser Club di adolescenti con problemi esistenziali che, per motivi diversi, non riesce ad adattarsi al resto del mondo. La vittoria sul male nasce dalla debolezza del bene: qui è il colpo narrativo di Stephen King, ripreso dal film. In It non c’è un bene eroico, che alla fine è sicuro di vincere e di sconfiggere il male. Un bene siffatto condividerebbe col male una sua caratteristica: l’essere potente. Il bene in It è balbuziente (Bill), miope (Richie), ferito (Eddie), indeciso, intimorito. It non finisce con la sconfitta del male, ma con la sua resa temporanea, perché − nella poetica di King − se il bene sconfiggesse per sempre il male, sarebbe allo stesso livello del male e sarebbe quindi male esso stesso. È questa visione anti-classica che turba della narrativa di King e che lo relega nel purgatorio degli autori cosiddetti pop, ma che di pop ha solo il trucco del clown.

L’angolo oscuro

La teoretica della paura offerta da It suggerisce che la paura è incomunicabile, ma emana un’energia misteriosa in grado sia di allontanare gli altri e isolare, sia di avvicinarli (e qui è la speranza offerta da It) . Il film mostra le due ondate, con i protagonisti divisi nelle rispettive storie e sfidati singolarmente da It, per poi unirsi e creare un corpo unisono nel finale, in cui rispediscono It in un pozzo ignoto. L’unione rimane fragile, da confermare con il patto finale nella scena più toccante del film: i teenager promettono che da adulti, qualunque possa essere il proprio percorso personale, si ritroveranno per affrontare It ancora una volta. Dopo il passaggio esistenziale dell’adolescenza, nuovi riti di iniziazione saranno affrontati, con il relativo assalto di It e, ciclicamente, con il coraggio della paura ad affrontarlo. Un patto che si scioglie nel momento stesso in cui si forma: “I hate you” dice Stan a valle della promessa di gruppo, accolto dalla risata di sollievo e complice dei suoi compagni. Il bene in It è un equilibrio in bilico, non da conquistare, ma da manutenere.

Ciascuno di noi avrà sempre un angolo di paura che è sconosciuto agli altri. Ciascuno di noi penserà di essere solo in quell’angolo. Ma non è così. Per un motivo ancora misterioso che solo le storie ben scritte riescono a evocare, quell’angolo oscuro è comune a tutti noi e ci rende forti, se rimaniamo insieme.

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Stefano Pace
Il MedItaliano

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