Anniversario

Cose sulla vita e sulla felicità (che ho imparato in due anni e rotti di freelancing)

Matteo Balocco
7 min readMar 7, 2014

Accade che alcuni amici si trasferiscano all’estero e poi, a distanza di un anno, facciano un primo bilancio di ciò che è stata la propria scelta.
Un po’ li invidio, perché io non sono mai stato bravo con gli anniversari: me li dimentico, semplicemente.

In ogni caso, però, credo che l’anniversario vero di un evento non sia definito dal calendario, ma avvenga quando quell’evento assume un significato nuovo nella tua vita. Quando, insomma, guardi indietro e realizzi davvero il cambiamento che è avvenuto in te e attorno a te in seguito alla scelta che hai fatto.

Non è qualcosa che accade all’improvviso. Si tratta piuttosto di un processo di consapevolezza che si sviluppa nell’arco di giorni, settimane. Alla fine arriva il momento in cui senti il bisogno di formalizzare quello che hai capito, dell’esperienza che hai vissuto.

Quello che leggerai di seguito non è la verità assoluta. È la mia esperienza degli ultimi 2 anni e rotti, quelli in cui ho deciso di iniziare una nuova vita professionale, come freelance.

Quello che leggerai vale per me e sarà comunque una verità personale soggetta ai cambiamenti che, volente o nolente, prima o poi interverranno nuovamente nella mia vita.

Ora ti avverto: ci sono alcuni punti che — devo ammetterlo — sono di una banalità retorica unica. Roba da decalogo della felicità. Il fatto è che se devo sintetizzare, questi punti alla resa dei conti si sono rivelati veri, per me. Altri, forse, sono stati davvero una scoperta, qualcosa che non mi aspettavo.Non faccio una classifica di merito. Tutto quello che segue, per me, è importante.

1) Essere felice dipende solo da te

Prima banalità retorica. Prima grande verità.

Nell’ultimo periodo da lavoratore dipendente mi sono lasciato portare dagli eventi.

Non entrerò nel merito, ma basti sapere che — un po’ per comodità, un po’ per timore — sapevo che avrei dovuto abbandonare le sicurezze del posto fisso per iniziare un nuovo percorso.

Mia moglie, Carolina, è testimone del fatto che c’è stato un periodo in cui mi svegliavo al mattino terrorizzato dall’idea di dover affrontare una nuova giornata di lavoro.

Eppure per lungo tempo non ho preso una decisione e la mia qualità generale di vita è peggiorata.

Un giorno poi ho capito che la mia depressione non dipendeva dalla qualità del mio lavoro, ma dal fatto che non potevo davvero — in quel contesto almeno — prendere decisioni.

Ho ancora la massima stima per il mio boss di allora: un lavoratore onesto e instancabile.

Ma la realtà era che lavoravo — in tutta sicurezza, certo — con colleghi che non mi stimavano, su progetti che non sempre mi piacevano, e sentivo di perdere, nel frattempo, opportunità importanti di crescita e realizzazione.

Se quindi dovessi dire qual è la migliore decisione che ho preso negli ultimi anni, sicuramente è stata quella di “lasciare il bordo della piscina e iniziare a nuotare nell’acqua alta”.

Da quel momento sono stato responsabile davvero di tutte le mie scelte seguenti: per chi lavorare, con chi lavorare, quanto lavorare, dove lavorare.

E sentire pienamente la responsabilità di ciò che fai è la base per accettarne il risultato, sia che si tratti di un successo, sia di un fallimento.

Cosa che porta alla seconda grande verità e banalità.

2) Gestire il fallimento

Inutile che ci giri attorno. Su questa cosa devo ancora lavorare, e tanto.

Ma ora, almeno, ho capito qual è la direzione giusta.

Sbagliare, fallire, toppare. Fa parte del gioco, bisogna accettarlo.

Esistono tanti modi in cui puoi fallire e altrettanti modi in cui puoi gestire il fallimento.

Nel corso di questi mesi ho capito che se una mia esperienza termina con un buco nell’acqua non significa che sono un fallito come persona. Significa piuttosto che devo capire cosa è andato storto ed evitare che si ripeta.

Mi chiederai a questo punto: “E lo hai capito solo ora?”.

Beh, sì. Per tante ragioni.

Prima tra tutte quella che quando lavori da solo, rispondi del tuo lavoro, non hai grosse scappatoie, non puoi crearti degli alibi.

Sei tu, e quello che hai fatto parla per te.

E poi, almeno nel mio caso, il problema nel 99% dei casi non è il fallimento in sé (che non si verifica quasi mai), quanto la paura di fallire.

Cosa che mi porta al 3° punto.

3) Questa cosa di uscire dalla comfort zone…

Di questo argomento, cioè che per migliorarsi è necessario uscire dalla propria “comfort zone”, affrontare difficoltà sempre nuove, fare cose che sai già ti costeranno energie fisiche e psicofisiche, ne ha parlato molto bene Linda Sandvik, in un entusiasmante talk al FromTheFront del 2012.

Gira pure, da un po’ di tempo a questa parte, un’immagine esemplificativa: la magia si realizza fuori dalla comfort zone.

È VERO.

È vero-vero-vero e, se non fossi allergico all’idea di iniettarmi dell’inchiostro sotto pelle, mi tatuerei addosso quell’immagine.

Certo, come scrivevo prima, quando fai qualcosa di nuovo devi essere in grado di gestire la paura di sbagliare.

Nell’ultimo mese ho scoperto che un’attività che mi crea una tensione pazzesca è il public speaking e la docenza.

Ho passato (e ho fatto passare alla mia famiglia) dei giorni infernali, solo perché avevo paura di non poter gestire una classe di studenti. Ho giurato “faccio questa e poi mai più”. Poi la classe (una classe eccezionale) mi ha fatto capire che i miei timori erano infondati e che, come quando vai a correre e senti il fiato mancare, quello è il momento di fare uno sforzo in più e continuare.

Alla fine sei stanco, stravolto, ma soddisfatto.

Mettersi alla prova è il sale.

Ma, anche in questo caso, non sempre e non a tutti costi.

4) Questa cosa di saper dire dei no…

Accettare un lavoro per ieri non è uscire dalla propria comfort zone: è, nel 99% dei casi, fare una cazzata.

Anche se il progetto è bello, stimolante, il team è competente ma c’è una pianificazione del cazzo, non esiste una vera prospettiva di crescita professionale, c’è solo una prospettiva di stress, tensione, fastidio.

Ma a parte questa ovvietà ho scoperto che dire no a una proposta a volte serve molto più che accettare.

Selezionare i propri lavori ti qualifica come professionista, ti accredita tra clienti e colleghi.

Il più delle volte, dire no migliora la tua qualità della vita.

E infatti…

5) Workaholic stocazzo
(ovvero Quality over Money)

Questa cosa forse farà storcere il naso ad alcuni, ma per me è la base: io lavoro per vivere (meglio possibile), non vivo per lavorare.

Selezionare i lavori, ma anche prendersi delle pause, fare passeggiate, andare a prendere a scuola Giosué e Gemma e portarli agli allenamenti sportivi, prendere un caffè con Carolina.

In una parola: vivere.

Intendiamoci: il mio commitment — se accetto un incarico — è totale, ma definiti i task e le deadline, come gestisco il mio tempo è affare mio.

Questo significa ovviamente rinunciare ad alcuni clienti, a determinate commesse, guadagnare di conseguenza meno soldi.

Nel corso di questi anni non mi sono mai pentito di questa scelta e, lo ammetto, guardo con rispetto ma anche con stupore a chi — tra amici e colleghi — sceglie la strada opposta (forse perché immagino che nel mio caso questi soldi in più sarebbero poi soldi spesi esclusivamente in psicofarmaci).

(Sia chiaro che, avendo Carolina un lavoro fisso, posso permettermi un lusso — quello di selezionare — che altri magari non hanno)

Ma Quality over Money significa anche mettere delle condizioni per cui sono i potenziali clienti a dire no.

Ho una tariffa oraria definita e precise condizioni di pagamento (fatturo a 30gg) che dichiaro anticipatamente. Derogo solo in alcuni rari casi.

Questo ha tenuto lontano alcuni clienti magari ottimi, senz’altro, ma mi piace pensare che abbia tenuto lontano soprattutto un modo di lavorare che non dovrebbe più esistere in Italia: quello sottopagato e quello per il quale un professionista deve fare da banca ai suoi clienti.

La conseguenza diretta di questo approccio è che in questi due anni ho avuto molta fortuna e i miei clienti sono stati di grande qualità.

6) Ho visto cose…

Dicevo del selezionare i lavori, e della fortuna, eccetera.

Non saprei come altro definire ciò che mi ha portato a lavorare, in questi ultimi anni, su progetti stupendi e con persone speciali.

Ho avuto l’opportunità di scrivere un manualetto di tipografia web, che ho poi scoperto essere diventato una lettura obbligata in alcuni corsi di design.

Sono stato invitato a fare parte della commissione selezionatrice del più importante riconoscimento di design in Italia.

Collaboro stabilmente con l’organizzazione di quella che considero una delle migliori conferenze al mondo.

Sono addirittura diventato io stesso co-organizzatore di una conferenza internazionale, insieme a 5 amici eccezionali.

Faccio parte di un team da sogno, per un progetto che cambierà il modo in cui vivremo l’intrattenimento.

In ognuno di questi casi ho conosciuto o ritrovato colleghi che mi hanno insegnato qualcosa e sono grato per la fiducia che mi hanno concesso o per l’onore di poter lavorare con loro.

Cosa ho fatto per meritare tutto questo? Merito davvero tutto questo? Me lo chiedo ogni giorno e cerco la risposta nel modo in cui affronto i nuovi progetti.

Il punto, però, è che da 2 anni a questa parte il mio lavoro è bello, stimolante ed eccitante come non mai e contribuisce in maniera sensibile a farmi sentire una persona realizzata e felice.

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