Con i piedi

Anna Lafranca
Meta Podia (με τα πόδια)
35 min readJan 9, 2019

Collezionare indizi, ritrovare oggetti e parole lasciate andare senza pensarci, decifrare lettere, riscriverle e rileggerle. Disbrogliare i fili della matassa della vita, scoglierne i nodi e arrotolarli in nuove matasse, fili lunghi dei capelli che si legano all’inchiostro, fili in cotone tra le vesciche che si attaccano alla carne, fili di Arianne da seguire nel labirinto dell’esistenza, fili senza rocchetto, fili troppo grossi per passare dalla cruna dell’ago, fili per ricucire le ferite e per tessere arazzi appesi a testimonianza di antichi fasti.

Prologo

Ferne Berge seh ich glühen!
Unruhvoller Wandersinn!
Morgen will ich weiter ziehen,
Weiß der Teufel, wohin?

Ja, ich will mich nur bereiten,
Will — was hält mich nur zurück?
Nichts wie dumme Kleinigkeiten!
Zum Exempel, dein Blick!

Sono nervosa all’idea del cammino. Dicono che in Tracia pioverà molto, è tutta l’estate che piove nella regione. Voci maligne narrano che la Russia abbia attivato i cacciabombardieri militari per delegare il maltempo ai Balcani e fare bella figura ai mondiali. In ogni caso non è il brutto tempo a spaventarmi, quanto piuttosto quell’inquietudine che accompagna il prologo di ogni avventura. Cosa accadrà e chi saremo? Sarò in grado di reggere, di persistere, di apprezzare? Avrò aperto abbastanza il cuore o sarò ancora tarpata dalle incombenze e dalle preoccupazioni quotidiane?

Prima di partire cerco di informarmi sul territorio che attraverseremo: la Tracia è l’ultima parte orientale dell’entroterra greco, al confine con la Turchia. La regione è abitata da una grossa comunità turca. È una terra ignorata dai turisti e dimenticata dalla storia. È a prevalenza agricola — grano, tabacco, girasoli — ed è stata vittima di conquiste diverse e svariate nei secoli, da parte di greci, bulgari e ottomani. La sua forma prevalentemente pianeggiante l’ha anche resa preda facile per le invasioni vandale, unne, gote, bulgare, peceneghe e cumane. Non faceva parte della Grecia ellenica, ma della sua lingua, della sua cultura e delle sue tradizioni originali ci è rimasto poco. A questo riguardo il mito si intreccia al dato, lasciandoci a fantasticare senza direttrici.

Si sente spesso dire che camminare sia una forma di viaggio totalizzante, che apra un accesso all’interiorità difficile da raggiungere attraverso qualsiasi altra via. Sarà comunque possibile farlo circondati come saremo da tante persone? I luoghi e le persone, queste le principali incognite. Con chi mi condividerò e dove avrò modo di farlo? Il tempo delle domande sta scadendo. Metto via le piccolezze e mi appresto al cammino. È ora di partire.

Da Sofia a Kavala (260718)

Dai finestrini della corriera osservo la Bulgaria farsi Grecia. Gli altri chiacchierano e si conoscono, io avrò bisogno di più tempo per riuscirci. L’autostrada in uscita da Sofia attraversa boschi verdi rampicanti su montagne lontane. Verso il confine con la Grecia le montagne si avvicinano e i loro contorni frastagliati ritagliano cornici al cielo coperto di nuvole grigie. La terra si fa più secca man mano che scendiamo verso sud: l’erba bruciata dal sole e i cespugli irsuti a puntellare la linea delle colline all’orizzonte. Amo la terra brulla del sud, i suoi declivi verso il mare, i suoi odori sempre più umidi, sempre più dolci. Quando da lontano avvistiamo l’azzurro del mare, si alzano ovazioni dalle file della corriera. Di fianco a me Carola, insegnante in pensione, si muove continuamente tra il suo sedile e il posto di fianco all’autista per fotografarlo meglio. Carola è la prima persona con cui parlo, o forse sarebbe meglio dire la prima persona che mi parla.

La corriera ci lascia proprio di fronte al mare. Scendiamo dal pullman emozionati, con le gambe anchilosate e lo sguardo agli stormi di gabbiani che stridono in alto tra il maestoso acquedotto bizantino e i tetti delle case arrampicate l’una sulle altre.

Da Philippi a Kavala (270718)

Nel cortile della grossa scuola in cui abbiamo dormito a Kavala l’aria è fresca. Le porte da calcio e le sporadiche pigne abbandonate sul cemento sono tristi nel cielo stinto dall’alba, rosa un po’ azzurro. Per i corridoi melodie di voci sussurrate risuonano al ritmo scandito dal chiudersi delle cerniere degli zaini.

“Io sono un nonno camminante, un pensionato” sento dire da Piero a qualcuno nella sala riunioni della municipalità di Kavala. “Io cammino perché mi riempie la vita, mi decomprime, mi permette di abbandonare il tracciato della quotidianità.”

Serena è di Roma ed è appassionata di storia romana. Parla con fascinazione dell’ingegneria, della scultura e delle tecniche architettoniche di cui furono capaci gli antichi romani. Dice che i romani non si sono inventati proprio niente: hanno semplicemente osservato ciò che gli altri popoli facevano, i popoli che conquistavano e le cui terre occupavano, e lo hanno ricopiato più in grande. Serena cammina sulla Via Egnatia per ritrovarne i resti archeologici, per alimentare la sua passione di nuovi acquedotti e di nuovi racconti.

Sulla strada da Philippi a qui ho avuto modo di scoprire l’esistenza del Panoramix, bevanda tradizionalmente utilizzata dal pellegrino per mantenere il buonumore durante il cammino.

La direttrice del centro archeologico dove facciamo pausa sul percorso ci mostra gli studi e le scoperte della sua equipe, mentre un ragazzo, all’ombra di una tettoia, spennella fossili in scatole di legno piene di sabbia. Tra due alberi ondeggia un’amaca, spira una brezza leggera, il canto delle cicale e il gracidio delle rane gli unici rumori in lontananza.

Riprendiamo il cammino sotto il sole, la campagna intorno a noi punteggiata di fiori viola infestanti, alberi di fichi e di noci. Le rondini garriscono basse, creando geometrie allarmanti tra i cavi elettrici sullo sfondo nero delle nuvole temporalesche che ci circondano. Coi loro voli gridano “pioggia!” all’unisono, ma noi ancora siamo all’asciutto.

Ora siamo ospiti nel cortile bianco della villetta bianca di un gentile anziano greco che vende frutta sul ciglio della strada. Mangiamo pane, pesche e cocomero. Chiacchieriamo e fumiamo. Liberiamo i piedi gonfi dalla zavorra delle scarpe. Ci conosciamo lentamente. Le zanzare ci pungono inesorabili, l’aria si fa più gremita di questa pioggia che, prima o poi, ci coglierà.

Piero ha settantotto anni e odia i militari. Carlo conosce la campagna, ci insegna come si fa a misurare la pendenza del terreno e quando bisogna cogliere le noci per farci il nocino. Samuel è brasiliano e scrive su un grosso quaderno, dividendo ogni pagina in due colonne. Ada fotografa insetti e fiori e ha iniziato il cammino senza conoscere nessuno. Ambra fa l’insegnante precaria e ha un carattere dominante. Federica è innamorata del mondo. Carola è in pensione, parla tanto e fotografa tutto. Matteo ha fondato una posterzine con degli amici e finisce gli studi in architettura. Filippo cammina da quindici anni e viene chiamato “l’Avvocato”, anche se ha lasciato la professione per noia tanti anni fa. Vittoria ha vissuto a San Marino, in Brasile, in Argentina, in Portogallo e a Venezia. Tommaso è il vicepresidente e beve e fuma senza sosta. Velio è l’altro vicepresidente e non gli è da meno. Pietro è l’aiuto cartografo e sta con Diana, che con i suoi diciannove anni è la più giovane del gruppo.

Una pioggia leggera ci ha rinfrescati, poi le nuvole sono scappate via e hanno lasciato il posto a un sole feroce. La luce è bianca ed il caldo ci sfianca, mentre con delle tessere colorate tentiamo di comporre un mosaico sulla parete esterna del casale dove riposiamo. Per un motivo che nessuno di noi riesce davvero a cogliere, le istituzioni locali hanno deciso di farci ritrarre il volto di San Paolo. La relazione tra la sua figura di “convertito” e la nostra di “compagni” è labile, ma ce lo facciamo andare bene anche così. L’artista che dovrebbe guidare la composizione del disegno si annoia e ci abbandona presto a noi stessi, lasciandoci nella condizione di ricreare uno sgorbio menomato che, se osservato da lontano, con la testa piegata da un lato, un occhio socchiuso e un’immaginazione galoppante, può allora forse rassomigliare a Padre Pio. Pace all’anima dell’arte e di San Paolo. Nel mentre che componiamo quest’opera d’arte, una signora ci cucina un caffè turco — caldo e polveroso — e la Presidente deve lottare con tutte le sue forse per evitare che procedano nell’intento di cucinarci uno spaghetto alle cinque del pomeriggio.

Aldo mi ha raccontato di un sogno che ha fatto. Era su un costone erboso. L’erba era bella, alta, verde, soffice. Lui correva lungo questo costone e correndo si rendeva conto di essere un partigiano. A quel punto qualcuno gli sparava, proprio perché era un partigiano. Lui sentiva il colpo perforargli il petto, sapeva così di essere morto. Era felice. Era felice di morire così, morto correndo per la libertà, morto ammazzato per un’idea.

Ci fermiamo in una chiesa ortodossa sulla cima di una collina, dove un pope tiene un discorso di cui nessuno capisce niente. Dopodiché scendiamo a valle per una via lastricata immersa in un bosco di pini. Questa strada lastricata segue la traccia della via Egnatia, ma è stata pesantemente ritoccata nel tempo. Dell’originale resta poco o niente. Amelie mi racconta di come abbia abbandonato le aspettative nella vita. Con il tempo ha imparato a stanziarsi nel presente, a vivere ciò che sta accadendo e a non pretendere di vedere l’invedibile, di controllare l’incontrollabile. Quando non hai aspettative, mi dice, ogni cosa fiorisce, si riempie di possibilità. Amelie ha paragonato l’essere umano ad un focolare: ognuno è un camino e custodisce un fuoco dentro di sé. È a discrezione di ognuno decidere con quanta intensità far bruciare quel fuoco.

Ceniamo per strada, accampati alla meglio tra marciapiedi e tavolini. Ci affolliamo al bancone del bar all’angolo per raggiungere un souvlaki. La cuoca della nostra cena, la bella signora che griglia senza sosta i nostri spiedini e le nostre salsicce, ha gli occhi pieni di luce quando mi dice che noi — questo gruppo scalcagnato di donne, uomini, giovani e anziani, sudati, sporchi, rumorosi e mezzo ubriachi — siamo “beautiful people! Really, really beautiful people.” Prendo il vassoio di salsicce e le birre da portare ai compagni seduti sul marciapiede con il cuore che trabocca. Sul marciapiede, dopo aver ripulito con il pane del giorno prima i resti di sugo dai vassoi, fumiamo un sigaro toscano di Filippo. È venerdì sera e il mondo attende l’eclissi di luna. Raccogliamo le nostre membra stanche e ci trasciniamo ad una caletta rocciosa sul mare. La luna è velata dalle nubi, ma Marte brilla intenso. La caletta è buia e silenziosa, le rocce bianche e piatte. Ci spogliamo dei vestiti puzzolenti e ci buttiamo nell’acqua calda senza pensarci. Nell’acqua sguazziamo beati, urliamo di gioia, collezioniamo pezzi di vita con la foga di chi ha paura di perderseli, con la foga di Carlo a cui un mese prima è stato diagnosticato un tumore alla vescica e ora, ora che ogni cosa si è sistemata, “succhia il midollo della vita” senza esserne mai sazio.

Da Kavala a Chrysoupoli (280718)

Oggi inizia il cammino vero e proprio. È arrivato il furgone e con lui Zoran, l’autista che mi arrischierò a chiamare macedone assumendomi la responsabilità delle ripercussioni politiche che da questo appellativo potrebbero sorgere. Abbiamo riempito dei nostri bagagli il vano del furgone e ora sediamo sui gradini dell’ingresso della scuola, dove Tommaso ci legge il primo capitolo de Il divano di Istanbul, libro scritto dallo storico Alessandro Barbero. La terra che stiamo attraversando, la Tracia, è una terra di confine, una terra di migrazioni e viaggiatori. Quando si parla di Grecia, si tende ad identificarla automaticamente con la cultura ellenistica, con la storia della Città Stato di Atene libera e democratica, imbevuta di mito e filosofia. Questa è una forzatura, un atto di revisionismo storico iniziato negli anni Venti dei Novecento, quando al governo greco divenne necessario confezionare a tavolino un’identità nazionale unitaria entro cui poter raccogliere tutte le culture, le etnie e le tradizioni diverse che componevano il territorio che oggi chiamiamo Grecia. Le peculiarità delle componenti di questa terra sono state dunque sacrificate al mito dello Stato Nazione, mito che infiammava la cultura europea del tempo. L’identità è un concetto farlocco, una bugia per ingannare le insicurezze, uno strumento di potere. In questa Tracia che fino agli anni Venti era all’ottanta per cento di religione musulmana e dove tre abitanti su quattro erano turchi, parlar di ellenismo è scorretto e fuori luogo. Più andremo avanti col cammino, più noteremo il sincretismo tra culture, religioni e tradizioni. Più andremo avanti col cammino, più scopriremo la rigidità imposta dalla forma univoca che si vuole dare all’unità, sul piano politico così come su quello soggettivo. Scopriremo la sua inesattezza, la piattezza che come una colata di cemento vuole ricoprire la diversità e la singolarità dei ciottoli che compongono il sentiero.

L’io e il noi si confondono. Il voi, i loro, i tu, i lei e i lui, infine di nuovo io. A furia di camminare ci fonderemo, le vesciche saranno le vesciche di tutte, ci faranno male anche i muscoli degli altri. Perderemo l’identità che è un fantoccio e ritroveremo nel sé le ramificazioni di un’umanità che ci attraversa, che ci precede e che ci avanza. Se non lasceremo figli su questa terra, lasceremo pensieri e spazzatura, molecole e parole. Foto e pezzi di plastica, scarpe e denti. Porterò con me chiunque incontrerò, i pori della mia pelle si apriranno nuovamente all’alterità.

Il cammino pomeridiano è lungo. Il sole del mattino ci ha sfiancati e i chilometri da macinare sono ancora tanti. L’inerzia prende lo spaio dei muscoli, il crepuscolo cala lento e noi sembriamo non avvicinarci mai alla meta. I piedi scoppiano, le giunture cigolano, le zanzare divorano e noi si procede. Sulla sinistra il profilo geometrico delle montagne blu, sulla destra — lontano e nascosto alla vista — riposa il mare. La strada è sterrata e potenzialmente infinita. Finocchietto selvatico, fiori viola e cespugli di more. Gusci di tartarughe spappolati. Quando ai bordi delle strade i cani randagi abbaiano noi ci compattiamo.

Compagni compatti companatico compenetrare compensare comprendere completo composto compito compiuto comprimere compromettere comportare compiangere comporre.

Voglio vivere sul crepuscolo,

Nel punto della terra dove

Le montagne non rubano il sole.

Voglio il blu di questa luce,

Nel punto della terra dove

La quiete diviene tacito dovere.

È l’una di notte. Beviamo ouzo e suoniamo strumenti qualsiasi. Per cena abbiamo grigliato chili di sarde e li abbiamo mangiati a cerchio in questo accampamento sulla spiaggia. Riccardo mi chiede, tra un morso di sarda e un sorso di birra, che cosa stia cercando io in questo cammino. Io non riesco a rispondergli. Mi serve tempo, gli dico.

Diana si è maturata al liceo classico con il massimo dei voti. Ha scritto una tesina su Antonine Artaud. Interessante notare come, nel giorno in cui cominciamo a parlare di perdere l’identità, compaia il corpo senza organi.

Da Chrysoupoli a Toxotes (290718)

Le nostre tende punteggiano la costa del mare. L’aria è chiara, ancora fresca. Sul fondo del mare svettano monti che sembrano nascergli da dentro. L’olandese si lamenta del fatto che il caffè italiano è troppo forte. Qualcuno inizia a cedere e crede che oggi non ce la farà a camminare. Io sono invece convinta del fatto che sarà il camminare stesso a ridargli la forza per continuare. Facciamo tesoro delle quattro ore scarse di sonno fatto e ripartiamo.

Caldo torrido, strada sterrata senza ombra. Sento che crollo, che vado in ipoglicemia e che svengo qui in questa polvere. Poi alzo lo sguardo dai miei piedi e vedo Carola che chiacchiera e ride, Piero in testa che detta il passo per tutta la ciurma, Margherita con l’apparecchio per la glicemia al braccio che strappa una mora da un cespuglio e se la mangia a piccoli morsi. Ricaccio la debolezza nel fondo di me, raccolgo con la testa le energie che nascondo da qualche parte nel corpo e ricomincio a camminare senza fare storie.

Le cicogne fanno i nidi sui pali della luce. Quando sono in volo sbattono le lunghe ali una decina di volte, poi le spiegano tenendone sollevata solo l’ultima estremità e planano per molti metri, simili a meravigliosi aeroplani in bianconero.

Siamo entrati nel Parco Nazionale del delta del fiume Nestos. Pranziamo veloci, sollecitati dalle nuvole nere che si aggregano ai confini della valle. Quando finalmente il temporale ci coglie, ululiamo feroci contro il vento e contro l’acqua. Tra le montagne lontane Zeus lancia fulmini senza tregua. Il rimbombo dei tuoni ci trema nel petto. Marciamo per chilometri senza fermarci mai, senza guardarci indietro. Quando il cielo si è chetato e il diluvio è divenuto uno sgocciolamento languido, derisorio quasi, troviamo una taverna dove toglierci le scarpe fradice, bere ouzo e giocare a carte. Non credo in una vita dopo la morte, ma se proprio dovessi immaginarmi come dovrebbe essere fatto il Paradiso, allora questo sarebbe senz’ombra di dubbio simile al trovare una taverna aperta di domenica alla fine di una camminata sotto ad un violento temporale estivo.

Carola si è comprata le sigarette e ora se ne gode una seduta di fianco a Zoran sulla panca blu negli spogliatoi del campo da calcio dove dormiremo questa notte. Indossa una giacchetta in acetato dell’Adidas e il marsupio in vita. Le manca solo il cappellino con la visiera al contrario e sarebbe pronta per andare a spacciare nelle periferie di Marsiglia. Ancora non le ho chiesto quanti anni abbia di preciso.

La sera cantiamo tutti insieme come pazzi, grigliamo carne e finiamo le sarde avanzate. Facciamo i primi bucati, beviamo la birra che Carlo ci vende dalla bottega che si è costruito nel ripostiglio pieno di ragnatele e scope. Il temporale del pomeriggio ha bagnato la terra del campo da calcio dove avremmo dovuto dormire e solo i più temerari ci piantano le tende. Gli altri si dividono tra un albergo poco distante e una piccola stanza dove dormiamo vicini nel buio.

Da Toxotes a Xanthi (300718)

La mattina ci curiamo le vesciche a vicenda. Facciamo stretching nell’erba ancora umida del campo da calcio. Dormire ha perso qualsiasi connotazione inquietante che potesse avere nella quotidianità. Come il corpo assume una posizione orizzontale, un pozzo nero risucchia i pensieri per riconsegnarli confusi al risveglio del mattino, cadenzato dai minacciosi “buongiorno!” dei compagni più diligenti. Si entra e si esce dal sonno senza spazi intermedi, come se si accendesse e si spegnesse un interruttore. Sono grata di provare questa stanchezza che non provavo da tempo.

Attraversiamo una valle enorme, verde e rossa. Sole in testa e niente ombra. Capre e cicogne. Questo è un giorno mistico per me. È iniziato con un abisso dal quale sono uscita solo grazie ai canti dei compagni che mi camminavano affianco. Parlando con queste persone eterogenee e di diverse estrazioni sento il mio mondo che si amplia. La quantità delle vie percorribili mi appare nella sua infinitezza, ma la vastità delle scelte possibili non mi opprime. Mentre cammino sento di essere fatta della stessa sostanza degli alberi di fichi che mi fanno ombra sulla testa, delle pietre che fanno da sostegno alle piante dei miei piedi. Mai mi è parsa più evidente la composizione della particelle che formano il tutto. Non c’è trascendenza alcuna. È tutto qui, tutto visibile e tangibile. Il pensiero cosa sia non lo so, ma essendosi risvegliato nel momento in cui ho iniziato a camminare, sospetto che sia molto più materiale di quanto siamo portati comunemente a credere. Il pensiero è materia. La materia è composizione di particelle infinitamente piccole. La diversa composizione delle particelle crea le diverse forme degli oggetti che siamo e che esperiamo. È in questa Tracia che ricomincio a pensare, che ricomincio a camminare.

Oggi pomeriggio, camminando sotto ad una pioggia leggera, ho scoperto Giulio. Sta facendo un dottorato in ingegneria e arbitra partite di calcio. Ha studiato teatro per molti anni e nell’ultimo spettacolo a cui ha partecipato impersonava un pagliaccio triste. Oggi è stato anche il giorno in cui abbiamo iniziato a spettegolare sulle tresche amorose che potrebbero star nascendo tra di noi.

Abbiamo incontrato i primi minareti sul percorso. Le donne anziane si appoggiano ai bastoni per sorreggersi e indossano gonne lunghe e fazzoletti sul capo. Quando le persone ci vedono passare, ci osservano a lungo, in silenzio, sui portici delle loro case. Alcuni ci sorridono, altri ci chiedono cosa facciamo. “Metapodia Kavala Kipi!” è la formula che urliamo ogni volta noi di rimando. A volte i contadini ci offrono casse di pesche, cocomeri, bottiglie di acqua fresca. Altri non rispondono ai nostri “yassas!” e ci scrutano intimoriti o infastiditi. I pastori, invece, ci fissano come fossimo un branco di matti. Cosa che forse, a ben vedere, siamo effettivamente. Matti con i piedi da Kavala a Kipi.

Alla fine del cammino arriviamo a Genisea, dove una corriera raccoglie i nostri pezzi e li trasporta a Xanthi, nello stadio di periferia dove dormiremo questa notte. Con Ada ci appollaiamo nel punto più alto degli spalti e osserviamo le miniature di compagne e compagni che sistemano i cantucci per la notte. Dalle finestrelle aperte vediamo i monti dalle cime arrotondate sullo sfondo.

Ada parla con tutte le forme animali che incontriamo sul cammino: mantidi, cicogne, ragni, tartarughe, tafani e gli immancabili cani randagi che ci seguono per lunghi tratti, ci abbaiano spaventati, ci ringhiano incazzati, ci annusano curiosi. Fabrizio è lungo e secco, veloce e irrequieto nei movimenti. È una delle persone più dolci che abbia mai conosciuto: la sua cura e la sua premura non conoscono confini. Ezio ha una meravigliosa voce di tenore, ma con un utilizzo arguto del falsetto sa imitare diversi cantautori italiani alla perfezione. Si è fatto trascinare in cammino da Serena, per farne magari un reportage.

Xanthi ha un centro storico molto bello, dalle reminiscenze quasi siciliane. Piccole viuzze lastricate, architettura che sincretizza influenze vittoriane ed ottomane, case con secondi piani in fuori, sorretti da trespoli di legno, cespugli in fiore in ogni cortile. Con un piccolo gruppo di guerrieri sopravvissuti alla dispersione post cena lo abbiamo visitato nella ricerca di un ouzo economico, difficile da trovare perché la cittadina è piuttosto turistica.

Da Xanthi a Iasmos (310718)

Oggi inizio a scrivere solo all’ora di pranzo. La stanchezza inizia a divorarmi, ma non voglio darle credito, non voglio perdere tempo per dormire. C’è troppa bellezza qui per lasciarsela scappare. Quando siamo arrivati nel bar dove abbiamo trovato rifugio per il pranzo, Ada ha tirato giù dalla parete una vecchia fisarmonica scalcagnata che stava appesa insieme ad altri strumenti, tutti vecchi e scalcagnati uguali. Ha strimpellato la fisarmonica per un po’, e poi ha cercato di insegnare come suonarla ad un bambino, il quale sembrava estremamente grato e fiero delle attenzioni che gli venivano dedicate.

Mano a mano che procediamo la gente si fa sempre più meravigliata, contenta ed estasiata del nostro passaggio. Ci chiedono cosa facciamo, dove andiamo. Metapodia Kavala Kipi, rispondiamo noi, ridicoli e imperterriti. Ci regalano i prodotti delle loro terre, ci fotografano, ci invitano a sagre e feste di paese.

Sulla strada questa mattina ho parlato con Velio della crudeltà del sistema in cui viviamo, dove le possibilità vengono in ultima istanza garantite e concesse solo a chi ha già in partenza i mezzi necessari per ottenerle, salvo alcuni rari casi. La frustrazione del discorso ha però perso il suo senso nel momento in cui ci siamo guardati attorno e abbiamo visto nella varietà delle persone che compongono il gruppo e nel cammino che stiamo facendo una possibilità di vivere la vita in modo altro, di lottare con gioia, di riappropriarsi delle dimensioni dello spazio e del tempo. Velio dice che tra qualche giorno mi renderò conto del fatto che si potrebbe anche vivere così, semplicemente camminando e producendo i mezzi per sostentarsi con il cammino stesso, con la produzione materiale così come con quella culturale. Lentamente impariamo tutte e tutti l’arte del comunitarismo, del fare ognuno qualcosa in modo che nessuno sia costretto a fare tutto, del condividere, del privarci di un po’ di cibo per chi è rimasto indietro e ancora non ha mangiato, della sopportazione, dell’adattamento, del capirci e accettarci, del rispettarci e volerci bene.

Ho i fili di cotone attaccati al mignolo del piede sinistro per asciugare il liquido della prima vescica. Gli zaini si fanno stendini dove appendere le calze da far asciugare nel sole e nella polvere. Oggi abbiamo attraversato strade di campagna ai cui lati si stendevano paesini senza pretese. L’orizzonte traboccava di coltivazioni di tabacco e girasoli.

Eccolo il nostro temporale quotidiano, esploso con violenza e probabilmente già finito qualche metro in là. Il vento forte, i tuoni in lontananza, i bambini che corrono a recuperare le bici, Ada sorridente che se lo gode ferma in cortile, i greci locali impassibili che restano ai loro tavolini a bere birra e fumare in silenzio.

Ore 17.48. Siamo stanchi morti. Mancano ancora dieci chilometri all’arrivo. Riverbero forte. Cielo nuvolo e cervello nuvolo tanto quanto. Alla lettura del pranzo mi sono addormentata con la testa ciondoloni e il cappello calato sugli occhi. L’ultima cosa che ho sentito è stata che nella religione musulmana non esiste una classe sacerdotale. Nell’Islam non c’è bisogno del clero, il credente ha bisogno solo di una solida fede per essere un buon credente. Sotto questo aspetto il muezzin, quello che cinque volte al giorno dal minareto richiama i fedeli alla preghiera, altro non sarebbe che il bidello dell’Islam, incaricato di suonare il campanello che scandisce le giornate. Poco dopo, sul cammino, chiedo a Susanna che cosa faccia di professione. Lei ride per l’utilizzo della parola “professione”, che le pare troppo sofisticato. Poi mi dice che lei fa la muezzin del sistema scolastico italiano. Fa la bidella, ma non si dice più così. Il politically correct oggi impone di dire “operatrice scolastica”.

Altra pausa. Ancora metà strada da fare. Sono sempre più grata di essere qui, circondata da queste persone. La bellezza di vivere ho incontrato. Nel bar dove sostiamo ora conosciamo Meric, figlio di madre turca e padre greco. Meric è il nome del fiume che segna il confine tra Grecia e Turchia e per questo motivo l’hanno chiamato così.

Da Iasmos a Komotini (010818)

Imbroglio etnico: secondo il governo greco non esistono tuchi in Grecia, esistono piuttosto greci musulmani. Ho la testa fritta dal cibo e dall’alcool di ieri sera, dalla cena fatta in quel ristorante elegante sulla cima di un colle dove siamo andati tutti stipati nel retro del furgone.

Al mattino camminiamo tra montagne verdi e calcaree, fino a che non ritroviamo un ponte bizantino in tutto il suo antico splendore nella gola in cui collega i due ripidi declivi delle montagne divise da un fiume dall’acqua giallo ocra. Poco più avanti incrociamo un altro ponte, questo però moderno e crollato in un punto, come fosse stato costruito con dei pezzi di lego e qualcuno avesse tolto un pezzo determinante.

Oggi abbiamo iniziato a coprire i nostri corpi sudati quando attraversiamo i centri abitati. Ogni tanto gli uomini dietro ai banconi dei bar sono titubanti all’idea di vendere una birra a noi compagne. La maggior parte delle donne che incontriamo ora indossano il velo. Alcune città sono divise in zone greche e zone turche. I greci, per ribadire la conquista, sventolano le loro bandiere azzurrobianche dai balconi e issano gigantesche croci cristiane sulla sommità dei monti.

Pausa a Komotini (020818)

Sullo schermino del pullman che ci porta da Fanari a Komotini lampeggia inesorabile l’orario sbagliato: 17.59. Non so di preciso che ore siano, ma di certo non più tardi delle nove del mattino. Il lampeggiare di questo orario sbagliato pare una beffa messa lì a testimoniare l’irrilevanza o l’illusorietà degli strumenti con i quali pensiamo di misurare il tempo.

Questa mattina io e Federica ci siamo addormentate sulla battigia, col sole che saliva calmo a est e le onde che ci bagnavano ritmicamente. Margherita ci ha svegliate con un urlo lontano, quando ormai erano già tutti sulla corriera, pronti per partire. Un po’ loro si erano dimenticati di noi che dormivamo là, un po’ noi dormivamo troppo bene là per preoccuparci degli orari da rispettare.

Siamo nel museo archeologico di Komotini. Da fuori sembra una scuola in prefabbricato, anche se i rappresentanti delle istituzioni affermano che l’architettura anni Sessanta dell’edificio sia tra le più importanti in Grecia; dentro è uno stanzone con teche di vetro sporco riempite di pochi reperti non ben identificabili, anche se i rappresentanti delle istituzioni affermano che questo sia stato il primo e più importante museo archeologico della Grecia. Fa caldo e mal sopportiamo il tutto: queste maledette visite a fortezze bizantine abbandonate a se stesse, queste strade trafficate, i soliti vecchi guaiti dei cani randagi, le guide permalose, le guide accademiche, le guide incompetenti. Nel giorno di pausa avremmo gradito solamente restarcene in panciolle sulla riva del mare, sotto l’ombra dei pini, coi piedi nudi e la testa leggera. Ma questa non è una vacanza e noi abbiamo relazioni da intessere, interessi da mostrare e gratitudine da elargire.

Le persone che compongono il gruppo hanno intrapreso questo viaggio per interessi di natura diversa. Chi ama la storia, chi vive per viaggiare, chi vorrebbe solo camminare, chi è qui per il gruppo di persone che lo circonda. Per questo alcuni di noi hanno disertato l’incontro con la municipalità di Komotini, causando le prime tensioni tangibili all’interno del gruppo. L’aria condizionata, la noia, la lunghezza degli interventi e la fame sono state le cause che ci hanno portato a mancare di rispetto a chi ci sta ospitando e offrendo cure e servizi. Tra i disertori si chiacchiera di migrazioni. Tommaso racconta di come i migranti italiani verso la Francia negli anni Venti si dipingessero i piedi di catramina per fingere di avere le scarpe e riuscire a superare il confine.

Una volta tornati in campeggio, ce ne andiamo in spiaggia a goderci il tramonto. Ridiamo delle figure di merda fatte durante il giorno, delle persone che si sono addormentate russando durante l’incontro, di chi non ha mai tolto gli occhiali da sole, di chi ad un certo punto ha issato bandiera bianca ed è uscito a bere una birra al bar.

Federica racconta di come il cammino distrugga le sovrastrutture che normalmente condizionano la quotidianità, di come si torni ad essere bambini che non sanno contenere le emozioni, che si godono ogni bagno in mare come fosse il primo della vita, che si fiondano sul cibo come non mangiassero da anni, che si addormentano ovunque, in qualsiasi posizione.

Man mano che il tempo passa accolgo le nuove vesciche e i nuovi graffi come fossero nuovi compagni di viaggio.

Da Komotini a Sapes (030818)

Take me on a trip upon your magic swirlin’ ship

My senses have been stripped, my hands can’t feel to grip,

My toes too numb to step, wait only for my boot heels to be wandering.

I’m ready to go anywhere, I’m ready for to fade

Into my own parade, cast you dancing spell my way,

I promise to go under it.

I militari romani facevano in media 32 chilometri al giorno. Cesare divenne famoso per aver fatto camminare ad un esercito 72 chilometri in ventiquattro ore. Noi per farne dieci ci impieghiamo anche quattro ore — tra baretti, direzioni sbagliate, feriti e pigri — e ci gustiamo ogni minuto come fosse insieme il primo e l’ultimo della vita.

Che bello il cammino che abbiamo fatto oggi. Che bella la valle che si apriva enorme su ogni lato. Che belli i cespugli tondi e secchi che frastagliavano le linee degli orizzonti. Che bello il vento che correva libero da ostacoli e rendeva dolce il camminare sotto al sole di mezzogiorno. Che bello il continuare a camminare anche quando le vesciche sotto ai piedi esplodono, i muscoli bruciano, le ginocchia cedono, la schiena cigola. In questo bar la birra è fresca come la pozza che abbiamo guadato a piedi nudi sul percorso. Un ragazzo turco suona il clarinetto per noi, iniziando con la colonna sonora de Il Padrino. Va be’, apprezziamo comunque il pensiero.

Ogni mattino al risveglio penso di non potercela fare, poi quando inizio a camminare divento grata di poter continuare a contare sui miei piedi, infilando un passo dietro l’altro senza nemmeno farci caso. Ogni tanto la quotidianità tenta di infilarsi nel mio cervello e l’ansia delle scadenze, dell’affitto, degli esami, dei turni di lavoro, delle metropolitane, dei ritardi, dell’angustia degli spazi chiusi e della solitudine che ghiaccia il cuore torna a popolare i miei pensieri. Ma il cammino mi riporta all’essenziale, qualcuno dietro di me ride, mi fermo e ascolto chi non conosco. Con la calma necessaria ad un albero per crescere ci riappropriamo della lentezza del vivere, dei pensieri che necessitano tempo per maturare e sedimentare, della dignità che ci spetta e della libertà che ci manca.

Giochiamo a carte sotto alle frasche. Parlare è faticoso in questo momento. È inutile provarci. Spendo soldi in birra e caffè e ascolto in silenzio. Non leggo più. Continuerò a spendere soldi per la birra e per il caffè, fumerò troppo e viva la vita, coi piedi belli nel cielo blu mentre tengo alte le gambe per lasciar defluire il sangue.

I turchi siedono ai tavolini, bevono caffè in ghiaccio, si girano i pollici, si tastano le pance gonfie. Noi — i disertori, gli zoppi, i pigri — ci ammassiamo nel retro del furgone, spalmati sulle valigie, e nel buio torrido del vano arriviamo alla scuola multiculturale di Sapes. Il cortile della scuola è piastrellato di bianco e il riverbero della luce è insostenibile. Per il resto sono i soliti rumori di grilli, cicale e vento fra i rami.

Da Sapes a Mesti (040818)

Questo è un buon rifugio in campo aspro, scosceso, eroso

Ed addolcito d’acqua e vento,

bastione naturale in prospettiva ariosa.

Terra di passo, di sella, di slitta,

mal s’addice alla fretta,

sa che tutto passa e tutto lascia traccia.

Le prime persone se ne vanno. Oggi a metà percorso abbiamo salutato Marco e Rachele. Il cammino è agli sgoccioli. Ieri sera abbiamo ascoltato e ballato canti popolari greci sulla sommità di un colle immerso nel buio e circondato da un cielo pieno di stelle. L’unica a cui lo spettacolo è piaciuto davvero era Mara, a cui queste manifestazioni musicali fanno sempre perdere la testa.

Il bello sono la luce dell’alba e la luce del crepuscolo. Il resto del tempo è gremito delle presenze degli uomini che urlano, insultano, feriscono, scherzano, ignorano, maltrattano. Le ore d’oro dell’alba e del tramonto sono le uniche sincere, le uniche a permettere alla quiete di regnare sovrana.

Sulla terrazza del centro culturale dove dormiremo questa notte ci spalmiamo di creme, ci aggiustiamo i piedi, ci massaggiamo le spalle, fumiamo e ascoltiamo musica. La strada di oggi è stata bella come quella di ieri: abbiamo camminato solo al mattino, ancora una volta in una meravigliosa vallata collinare dove il sole veniva addolcito dal soffiare del vento. Il pomeriggio l’abbiamo dedicato al bivacco: il mangiare, il bere, il gioco delle carte, le docce nel sole del cortile. La sera siamo andati sul porto di Maronia, dove una famosa cantante greca ha accompagnato le nostre bevute e i nostri scherzi. Dopo abbiamo continuato a festeggiare, prima al ristorante dirimpetto al centro culturale e poi sulla strada, con la radio del furgone a palla, lo tsipuro, l’ouzo e le birre che Zoran ci aveva comprato in un eccesso di entusiasmo e cameratismo. Sotto di noi stava la valle coltivata che scendeva fino al mare, dove luci lontane tremolavano nel vento.

Da Mesti a Alexandruopoli (050818)

Oggi il risveglio è stato difficile come sempre. Da quando abbiamo perso il filtro della caffettiera beviamo caffè solubile che non soddisfa le nostre esigenze neanche da lontano. Il cammino di oggi è l’unico con un po’ di dislivello e noi scherziamo chiamandolo “il passo dolomitico”.

Il cotone è una pianta verde con un fiore che assomiglia ad una rosa. Quando la pianta si secca diviene legnosa e del fiore resta un guscio a stella con dentro un batuffolo di cotone bianco e morbido da trattare. Il tabacco invece ha foglie grosse dalla forma ovale che vengono colte, infilzate e tenute insieme con un grosso ago legato ad un filo. Quindi vengono appese e lasciate a seccare in piccole serre, prima di venir tritate, trattate e poi fumate.

Ieri siamo stati fermati dalla polizia. Qualche contadino ci ha visti da lontano e, pensando che fossimo un gruppo di pakistani emigranti, ha chiamato la polizia. Il poliziotto ha chiesto il documento a Velio e, quando ha capito chi eravamo e cosa facevamo, si è messo a ridere. Qualche metro dopo ci ha riaccostati con la macchina per farsi una foto con noi. Io penso al mio amico siriano Husam e alla foresta greca in cui rimase senza mangiare per cinque giorni nel suo viaggio verso la Germania. Penso alle otto volte in cui è stato in prigione durante il suo viaggio. Penso ai poliziotti che anziché ridere e farsi foto con lui, lo pestavano e lo insultavano.

Laura non sta bene qui. È diversa dalla maggior parte delle persone che compongono il gruppo, dice. Si aspettava più organizzazione e meno bivacco, più cammino e meno baretto. Quando mi ha parlato di Dio mi sono messa a piangere. Lei dice di essere credente a suo modo. Pensa di doversi giustificare dicendomi che sa di essere probabilmente l’unica nel gruppo ad avere una fede in Dio. Dobbiamo apparirle come un gruppo di barbari, mi dico io. Quando dice di essere credente “a suo modo” intende dire che non sa bene se sia l’esigenza di credere a dettare l’esistenza di Dio o se sia invece l’esistenza di Dio a dettare l’esigenza di credere.

È incredibile come cambi la percezione del tempo. Ci si sente dire che mancano ancora due ore di cammino e si fanno spallucce. Cosa vuoi che siano due ore. Beviamone un’altra.

Anche oggi il posto dove dormiamo è splendido. È un campo scout immerso in una foresta di pini, dove piccole strutture di legno sorgono tra il profumo della resina. C’è una doccia comunitaria creata con dei bancali impilati e un grosso spiazzo ghiaioso sormontato da tavoli di legna e due vagoni di un treno adibiti a cucine.

Da Alexandruopoli a Makri (060818)

Camminiamo costretti alla fila indiana dalle macchine che corrono veloci sull’autostrada. Il cemento che ci spacca gambe e piedi. Penso a come sarebbe se fossimo militari, se queste stesse cose le facessimo in guerra — se ci spintonassimo per l’ultimo biscotto al mattino, se marciando ci confidassimo i sogni per il futuro, se giocassimo tra le brande la sera prima di andare a dormire, se divenissimo grandi amici in pochi giorni e poi ci vedessimo morire uno dopo l’altro. Morire per il niente oltretutto, per un’idea che non capiamo e per una conquista che non ci appartiene.

Siamo partiti dieci giorni fa. Abbiamo percorso duecento chilometri. Qualcosa è cambiato un po’ in tutti noi. Carola dice di aver imparato a relazionarsi con gli altri. Tommaso dice di aver imparato a convivere con le particolarità degli altri, ad andare oltre al proprio limite, ad affinare la capacità di risolvere i problemi. Vittoria dice che la sua percezione spazio-temporale è profondamente cambiata. Velio propone una riflessione sul modo in cui un viaggio del genere permette di rendersi conto della quantità di energia che quotidianamente si consuma e dell’impatto che abbiamo sul pianeta terra. Si azzarda a dire che ci stiamo spogliando di tutto, ma io sinceramente sto mangiando, bevendo, fumando e godendomi la vita come uno di quei pascià di cui ascoltiamo le storie alle letture del mattino. Federica dice che camminare è un processo conoscitivo di se stessi. Giulio invece ragiona su come cambi il modo di vivere le distanze, su come gli spostamenti che facciamo nel quotidiano siano meramente dettati dall’obiettivo, dalla meta da raggiungere, mentre qui ciò che conta è il percorso stesso, è il territorio che cambia e con lui il cambiamento delle comunità che lo abitano. Io penso senza dirlo che per quanto mi riguarda non ho più spazio per la tristezza. Le pozze di malumore in cui sguazzo a casa non trovano qui lo spazio ed il tempo di formarsi. La vita in comune ed il movimento continuo mi costringono alla distanza dal mio dolore. È ora di andare, in piedi, partiti.

Ripenso ai giorni passati e i ricordi che tornano hanno la stessa trama dei ricordi di anni fa. Il fatto di stare in continuo movimento dà l’impressione di vivere tanti viaggi diversi. Ho anche l’impressione di conoscere da anni queste persone con cui cammino. È ormai la fine, le persone ne parlano già. Tommaso e Margherita ripartono domani. Mi piace vedere come Diana e Laura si aprano e si adattino al gruppo. Come scoprano pezzettini di sé che non avevano mai avuto l’ardire di scoprire prima d’ora. Ho sentito Matteo dire che l’anno prossimo tornerà di sicuro e che cercherà di convincere anche i suoi amici a venire con lui. Dice che è stata un’esperienza fondamentale.

Questi ragazzi sono bravissimi. Sono bravi sì per il progetto e per l’organizzazione — ma queste sono cose che hanno imparato da altri, un testimone che hanno preso in cammino e che portano al prossimo, quasi una tradizione che perpetuano. Ciò che li rende davvero bravi è il modo in cui sono in grado di creare un’atmosfera, di legare il gruppo a dei simboli comuni, di riportare sulla terra e rendere tangibile per tutti l’astrattezza di ciò che stiamo facendo. L’astrattezza che sta nel fatto di ripercorrere una via commerciale vecchia di duemila anni, di farsi pionieri di una strada di cui resta solo qualche traccia mal conservata, di riscoprire un percorso che non percorre più nessuno. Sono bravi perché fanno tutto questo per amore della storia, o meglio per il gusto dell’esplorazione e della ricerca, o meglio ancora per il cammino in sé. Forse fanno tutto questo per il gusto dell’astrazione stessa, per poter lasciare a loro volta una traccia nella confusione effimera del tutto, per godersi la vita con lentezza, per sentirsi parte anche solo per poco di qualcosa di più grande, di più importante, di più vero di tutte le piccolezze con cui ci intasiamo la vita di ogni giorno.

Per pranzo oggi Riccardo, Ezio ed io ci siamo inventati una tajar, un fantomatico piatto tipico della tradizione pakistana a base di pomodoro, tonno, pesto, limone e olive, perché il cous cous che avevamo sperato di cucinare non era realmente cous cous, ma piuttosto semolino, e nell’acqua fredda con olio a crudo in cui lo avevamo lasciato a cuocersi era divenuto un pappone dolce improponibile da mangiare. Sandro ha però avuto l’idea di utilizzare quel pappone per farcirci i peperoni che ora grigliano sul fuoco per la cena. Siamo sulla spiaggia e il sole è già calato, la luce rosa però illumina ancora Simona e Fabrizio sdraiati sulla battigia, Ada e Mara che suonano l’armonica e cantano, Claudio che griglia il pesce e il bivacco di noi altri. Sulla superficie azzurra e gialla del mare piatto si stagliano le forme nere degli ultimi natanti.

Da Makri a Ferres (070818)

I am nobody! Who are you?

Are you nobody too?

Then there’s a pair of us!

Don’t tell, they’d advertise, you know.

How dreary, to be somebody,

How public –like a frog –

To tell someone’s name

To an admiring bog

Da quando costeggiamo il mare il paesaggio assomiglia sempre più all’idea di Grecia che mi ero fatta prima di arrivarci. Case bianche, strida di gabbiani, oleandri in fiore, spiagge chilometriche, flemma afosa e resina di pini. Ieri sera abbiamo deciso che Carlo è il più figo del gruppo e abbiamo festeggiato bevendo l’ouzo dalla caffettiera senza filtro adibita a coppa.

Oggi abbiamo attraversato un querceto. La strada era pietrosa e il sentiero costeggiato da cardi blu e viola. Quando è calato il Santo Crepuscolo — su di noi, sulla capre dalle mammelle gonfie e sulle mucche dagli occhi dolci — io camminavo di fianco a Filippo. Siamo rimasti in silenzio a lungo. Divenire compagni di viaggio significa anche comprendere il reciproco bisogno di quiete. In ogni caso, ho fatto attenzione a non accelerare il passo, a non lasciare il suo fianco. Volevo stargli accanto, condividere con lui il tramonto in silenzio. Poi Filippo ha iniziato a parlare nel momento esatto in cui vi era bisogno di farlo. Piano piano mi ha raccontato la sua storia, ha aggiunto dettagli allo scheletro che già conoscevo. Ciò che mi ha confidato non ho voglia di riscriverlo. D’altronde io scrivo per non dimenticare e non c’è rischio che questo racconto venga consegnato all’oblio. Ti ringrazio, Filippo, per esserti condiviso.

Da Ferres a Kipi (080818)

Nel chiostro del monastero costruito nel 1152 in cui abbiamo dormito questa notte c’è aria di addio. Le persone si abbracciano, sorridono, si scambiano occhiate umide. C’è chi si sente di dire apertamente ciò che sta provando, chi ha bisogno di dichiarare l’affetto, chi promette che tornerà l’anno prossimo, chi non vede l’ora di arrivare a Costantinopoli e vorrebbe continuare ad andare per sempre.

Abbandoniamo l’ultimo paesino di case bianche e attraversiamo una vasta vallata. La vegetazione è secca e brulla; la strada resa rosa dalla polvere del terriccio rosso, il cielo un’enorme vasca blu, disturbata solo da una minuscola nuvola bianca e tonda. Le reti cellulari ci danno il benvenuto in Turchia.

“Basterà mica un autogrill e una barriera per fare una frontiera! Sarà davvero questa la frontiera d’Europa?” chiede retoricamente Tommaso all’ultimo baretto prima dell’arrivo definitivo.

Sandro mi vede scrivere sul quaderno. “Scrivi un diario? “ mi chiede. Io annuisco. “Il diario di chi? Il tuo? O quello di qualche altro personaggio che ti abita?” Io gli rispondo che effettivamente mi capita di scrivere il diario di altre persone, altre due donne che ogni tanto prendono il possesso delle mie mani, ma che per questo cammino le ho lasciate tutte a casa. Probabilmente ho lasciato a casa anche la me con cui convivo la maggior parte del tempo, penso senza dirglielo. Lui ridacchia e dice “Be’, ringrazia di averne solo due. Io ne ho dieci. Ma che ci possiamo fare? Siamo moltitudine.”

Siamo arrivati a Kipi con gambe e piedi a pezzi. Gli ultimi chilometri li abbiamo fatti su sola strada asfaltata, la peggiore per il cammino. Le costruzioni umane in generale sono le meno idonee per camminare. Il sentiero migliore è quello misto di pietra e terra che taglia i boschi e i campi coltivati. Il sentiero migliore è quello che è stato pensato per muovercisi con lentezza, per osservare e guardarsi intorno, e non quello creato per scappare via veloci e raggiungere la meta il prima possibile. L’euforia dell’ultimo giorno esplode all’arrivo. Urla e corse, risate e canti. Canzoni partigiane e scherzi nostri, creati con la condivisione di spazi e tempi.

L’ultimo giorno di cammino non riusciamo a smettere di sorridere, ogni sguardo che incontriamo brucia di gioia. La fine è triste ma, se non ci fosse, quest’energia non sarebbe esplosa allo stesso modo. Il cuore è un pezzo di cotone senza peso, le forze in circolo sono tante che più di avere un corpo pare di essere “una porta attraversata da molti e diversi venti”, come dice Diana. Due ore e mezzo di pullman e siamo già di ritorno nel cortile della scuola di Kavala dove abbiamo dormito le prima due sere. Il tempo si contrae senza nessuna pietà, quelli che lungo la durata del cammino erano parsi anni tornano con la violenza dell’improvviso a rifarsi le due settimane che sono effettivamente state. Facciamo un’ultima doccia all’aperto strillando per il freddo dell’acqua della pompa. A cena non abbiamo più voglia di quei maledetti tsatsiki, cetrioli e souvlaki. Mangiamo poco e beviamo direttamente ouzo, senza perdere tempo tra birre e vini vari. Appesa alla parete della taverna sta una chitarra a cui manca una corda. Giulio insegna a Samuel gli accordi delle canzoni italiane degli anni Settanta e cantiamo tutti insieme dai diversi tavoli.

Kavala (090818)

L’amore non lo canto,

è un canto di per sé.

Più lo si invoca,

meno ce n’è.

L’ultimo giorno è libero. Re-impacchettiamo gli zaini per l’ultima volta, le geometrie tra le diverse componenti ora più importanti che mai. Alcuni sono certi di aver perso pezzi in giro, perché le cose nello zaino entrano con troppa facilità, altri hanno raccolto una così gran quantità di ricordi che ora devono scegliere quale pezzo ha meno importanza.

Sulla spiaggia oggi spira fresco Eolo e il mare è mosso. Quest’ultimo giorno senza camminare è una tortura lenta che priva ciò che è stato della sua magia.

Epilogo

In terza liceo ho iniziato a studiare filosofia. Allora, quando iniziai a studiarla, io non avevo idea di cosa fosse la filosofia e, per tutta sincerità, non saprei dire cosa sia nemmeno adesso che l’ho scelta, l’ho studiata e mi ci sono laureata. Ho addirittura frequentato un corso di ermeneutica al terzo anno di università che era intitolato: “che cos’è la filosofia?” e al cui termine non avevamo comunque raggiunto alcuna risposta univoca. L’unica cosa che posso dire con certezza è che la filosofia ha a che vedere con il porre delle domande, non con il trovare delle risposte. Ciò che conta è la ricerca della verità, non la verità stessa. Ciò che conta è il processo, l’ostacolo, l’inghippo, il percorso, il cammino per se stesso, e non il risultato. Come dicevo quindi, il mio studio della filosofia è iniziato in terza liceo. Al tempo avevo un professore di storia e filosofia molto particolare. Era piccolo di statura, camminava sempre a testa bassa, con lo sguardo schivo puntato sui lacci delle scarpe. Indossava come da cliché delle vecchie giacche consunte di tweed e portava occhiali tondi senza montatura sul grosso naso aquilino. Era un ebreo ortodosso, un tifoso sfegatato del Torino e un moralista vecchio stampo. Era innamorato della conoscenza, come si confà ad ogni filosofo che si rispetti, come richiede l’etimologia stessa del termine “filosofia”. Era però anche un uomo stanco, disilluso dalla trivialità del mondo, dall’ignoranza dilagante, dall’indifferenza di quegli studenti che anno dopo anno attaccava sempre più con quel suo brillante sarcasmo che era convinto nessuno tra i banchi riuscisse a capire. Quando parlava della storia diceva che questa era una massa di letame in cui bisognava infilare le mani per trovarci le perle. Quando invece parlava della filosofia, era più restio a darne una definizione. Spesso si metteva la mano in orizzontale sulla fronte e chiudendo gli occhi diceva: “Sta tutto in queste quattro dita, signore e signori. Sta tutto qui dentro.” Io tutt’oggi non saprei dire se stia effettivamente tutto in queste quattro dita, se ogni cosa esista in prima ed ultima istanza nella testa di ognuno. Questo mio professore abitava a sei chilometri di distanza dalla scuola. Ogni mattina e ogni pomeriggio percorreva questi sei chilometri per e dalla scuola a piedi. Lo faceva perché “camminare è l’esercizio filosofico per eccellenza.” Non diceva niente di nuovo questo mio professore, tanti altri filosofi nella storia hanno ripetuto lo stesso concetto e camminavano per pensare, eppure io una cosa simile non l’avevo mai sentita dire. Per quale motivo il camminare avrebbe dovuto aiutare a pensare? Non bastano i libri, le biblioteche e la concentrazione per questo? Presa da curiosità, iniziai anche io a camminare per disbrogliare i pensieri. Iniziai a sedici anni per le vie grigie e tristi di Milano e la curiosità si è fatta lentamente necessità. Una soluzione ai problemi non l’ho mai trovata, ma ho ampliato la ricerca e le prospettive. Ciò che conta non è la risposta, ma la domanda. Ciò che conta non è la meta, ma il cammino stesso.

Questo è stato un anno colmo di tristezza. Mi sono chiusa nel mio nocciolo e ho perso un sacco di pezzi in giro. L’unica costante è stata la solitudine, compagna amara e difesa, capitata e auto-imposta. Lentamente ho perso la capacità di stare a mio agio in mezzo alle persone, di parlare senza pensare, di ascoltare per il piacere di farlo. Ho piuttosto sofferto molto nel silenzio della mia stanza, nel freddo delle strade, nel buio della metropolitana. Ho perso traccia di me stessa, ho dimenticato chi ero e cosa volevo, mi sono ridotta ad una somma di parti, ad un ammasso di cianfrusaglie senza geometria.

Io vi ringrazio per i pezzi che mi avete donato. Io vi ringrazio per la calce con cui avete riattaccato le mie membra, per il mastice con cui avete riempito i buchi, per la solerzia con cui avete recuperato i pezzi lasciati andare e per la cura con cui me li avete rimessi in mano per lasciarmi lo spazio ed il tempo di comprendere da me dove e se rimetterli. Vi ringrazio per avermi lasciato frugare tra i vostri di pezzi, per avermeli lasciati prendere in prestito o rubare per sempre. Con le mie parti rimaste e le vostre trovate ho costruito un nido, una struttura bizzarra e instabile con cui poter finalmente stare in piedi senza paura. Di questa costruzione amo proprio la bizzarria e l’instabilità. Ora vado fiera di questa fragilità. Non importa più se rompo qualcosa, se perdo qualcos’altro. Ora ce n’è abbastanza. Alla fine del cammino continuerò a camminare portando i vostri pezzi con me. Dimenticherò i nomi e le facce, ma il mio corpo li porterà con sé. L’alterità torna ad abitarmi ed io sono finalmente voi, loro, tu. Io sono noi.

La vita può essere a tratti una cosa orribile. Non tanto la Vita che scorre, quanto la vita che accade a chi come noi nasce, cresce e muore. Capita infatti che appaia come un’infinita sequenza di cattiverie gratuite, una composizione di violenze illogiche che si rovesciano sul singolo senza pietà o sensibilità alcuna. Le cose ogni tanto non vanno, non vengono, non tornano. Io credo che alla fine si tratti di buttare le mani nella merda per trovarci le perle. La vita è d’altronde la storia e la storia è la vita. Se non si riescono a trovare perle ogni giorno, ogni anno, ogni lustro, ci si può comunque muovere nella merda portandosi dietro la polvere di quelle trovate in passato.

Eccomi qui. Sono stanca e confusa, felice come poche volte nella vita. Non so ora bene che farmene di queste gambe. Si consumeranno a furia di tenerle ferme così a lungo. Mi manca ogni cosa, sono piena di bellezza, non vedo l’ora di ricominciare. Un grazie infinito.

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