Modelli di rappresentazione del colore

Una guida introduttiva, scritta nel 2001, ai principi della visione del colore e ai concetti di sintesi additiva e sintesi sottrattiva

Michele Diodati
Michele Diodati
35 min readDec 3, 2001

--

Filosofi, pomodori, insalate…

Quale utilizzatore di programmi di grafica non ha mai avuto dubbi circa il modello di rappresentazione del colore da adoperare? Chi non si è mai sentito un po’ spaesato di fronte a sigle misteriose quali CIELAB, CMYK, HSV, RGB e simili? Questa guida si propone di fare luce — mai termine fu più appropriato! — sul complesso mondo dei sistemi di rappresentazione del colore, sia di quelli destinati alla visualizzazione su monitor sia di quelli orientati alla stampa. Di fronte a tale compito non c’è che un punto di partenza possibile: il meccanismo della percezione umana dei colori. Solo comprendendo a fondo cosa sono i colori e in che modo i nostri occhi riescono a discriminarli, potremo scegliere con sicurezza il modello di rappresentazione digitale del colore che fa di volta in volta al caso nostro.

È inoltre di grandissimo aiuto, per il grafico e per l’impaginatore professionista, conoscere i fondamenti percettivi della visione e della mescolanza dei colori, al fine di poter realizzare lavori che non seguano soltanto il gusto personale, ma, rispettando le regole di base della generazione e della visione dei colori e le caratteristiche dei mezzi tecnici a disposizione, consentano di fornire agli utenti prodotti davvero utili e gradevoli.

Ci sembra del tutto scontato e naturale che i colori siano una caratteristica delle cose stesse. Prendiamo in mano un bel pomodoro rosso e, mentre lo immaginiamo già affettato in un piatto a fianco di una mozzarella, pronto ad immolarsi come ingrediente di un’insalata caprese, difficilmente ci sfiorerà l’idea che il colore rosso non sia un ingrediente del pomodoro, così come lo sono invece la polpa e i semi.

Idee simili, per la verità, vengono spesso in mente a filosofi e scienziati, che infatti sono notoriamente più interessati alle idee che alle insalate…

Ed è grazie a filosofi e scienziati che sappiamo oggi con certezza che il colore non è affatto una caratteristica del mondo fisico, ma il complesso risultato dell’effetto della luce sull’apparato percettivo umano. Tornando all’esempio di prima, dunque, è corretto dire, non che il pomodoro è rosso, ma che ci appare rosso. Le spiegazioni che seguiranno dovrebbero rendere manifesta la necessità di tale distinzione.

Le scarpe sul soffitto

Forse non tutti sanno di aver ricevuto in dono alla nascita due vere e proprie macchine fotografiche: i nostri occhi. Analogamente a quanto avviene in una macchina fotografica, in cui la luce passa attraverso l’otturatore e impressiona la pellicola fotosensibile, nell’occhio umano la luce proveniente dall’ambiente circostante penetra attraverso l’apertura variabile della pupilla e forma sulla retina, sul fondo dell’occhio, un’immagine capovolta di ciò che ci sta davanti. È poi compito della complessa struttura nervosa che dal nervo ottico arriva al cervello effettuare, in modo del tutto indipendente dall’attività cosciente, il raddrizzamento di quell’immagine capovolta, e darci così la possibilità di interagire in modo naturale con gli oggetti del nostro ambiente. (Immaginiamo che incubo sarebbe il doversi allacciare la scarpa destra vedendola come sinistra e, soprattutto, poggiata sul soffitto invece che sul pavimento!)

La visione, dunque, dipende dalla luce: è la luce che ci porta informazioni sulla forma e sul colore degli oggetti del nostro ambiente. In una stanza completamente buia, pur continuando le cose ad esistere intorno a noi, nessuna immagine di esse ci appare ed i nostri occhi sono ciechi.

Ma cos’è in realtà la luce? Dal punto di vista fisico è una radiazione elettromagnetica. In parole povere è un’onda che si propaga nello spazio ad altissima velocità, anzi alla massima velocità possibile nell’universo, che — manco a dirlo — è proprio la velocità della luce, pari a circa 300.000 chilometri al secondo!

Com’è fatta quest’onda? Esattamente come tutte le altre onde: ha delle creste e degli avvallamenti, che ci consentono di definirne le tre misure principali, cioè lunghezza, ampiezza e frequenza. La lunghezza d’onda è la distanza tra due creste successive, mentre l’ampiezza è la distanza tra una cresta ed il piano mediano che interseca l’onda; la frequenza, infine, è la quantità di oscillazioni che l’onda compie nell’unità di tempo, valore quest’ultimo che si esprime in Hertz. La frequenza è inversamente proporzionale alla lunghezza d’onda: minore è la lunghezza d’onda maggiore è la frequenza, e viceversa.

Fig. 1 — Schema di un’onda

Ai fini della visione dei colori, l’ampiezza dell’onda influisce sull’intensità luminosa dello stimolo elaborato dal cervello, mentre la lunghezza dell’onda influenza la tonalità del colore percepito: ad esempio, un’onda elettromagnetica di lunghezza compresa tra i 650 e i 700 nanometri (nm) provoca in un soggetto normodotato la visione del colore rosso.

Lo spettro visibile

Lo spettro elettromagnetico comprende l’intera gamma delle lunghezze d’onda esistenti in natura, dalle onde lunghissime, poco energetiche (10.000 km di lunghezza, 30 Hz di frequenza), alle onde cortissime (0,00001 Angström di lunghezza, 3×10²³ Hz), dotate di straordinaria energia. Fenomeni fisici apparentemente diversissimi, come le onde radio che trasportano suoni e voci nell’etere e i raggi X che impressionano le lastre radiografiche, appartengono in realtà alla medesima dimensione, quella delle onde elettromagnetiche.

All’interno dello spettro elettromagnetico, solo una piccolissima porzione appartiene al cosiddetto spettro visibile, cioè all’insieme delle lunghezze d’onda a cui l’occhio umano è sensibile e che sono alla base della percezione dei colori. Le differenze individuali possono far variare leggermente l’ampiezza dello spettro visibile. In linea di massima, comunque, esso si situa tra i 380 e i 780 nanometri: alla lunghezza d’onda minore corrisponde la gamma cromatica del blu-violetto, alla lunghezza d’onda maggiore corrisponde invece la gamma dei rossi.

Fig. 2 — Lo spettro della luce visibile è solo una piccola porzione dell’intero spettro elettromagnetico

Per avere un’idea dell’ordine di grandezze di cui stiamo parlando, consideriamo l’esempio della luce rossa, fatto poco sopra. Una radiazione della lunghezza d’onda di 700 nanometri, percepita dall’occhio umano in condizioni normali come rossa, è un’onda in cui due creste successive (o due avvallamenti successivi) distano tra loro 700 x 10–9metri: per capire quanto sia piccola in termini umani questa distanza, si tenga presente che occorre un milione di nanometri per fare un solo millimetro!

Ancora più impressionanti, a paragone delle grandezze a cui siamo abituati, sono i numeri relativi alle frequenze della luce visibile. Sappiamo che la tecnologia informatica ha sviluppato solo di recente gli strumenti per produrre in serie processori per computer in grado di lavorare alla velocità di 1 Gigahertz (Ghz). Un processore da 1 Ghz compie in un secondo la bellezza di un miliardo di cicli di elaborazione completi! Ma nello stesso tempo — un secondo — un’onda elettromagnetica della lunghezza di 700 nm, cioè quella che per l’occhio umano è una luce rossa, esegue 428.570 miliardi di oscillazioni! Quest’onda, cioè, ha una frequenza 428.570 volte superiore a quella di un processore da 1 Ghz! Si può capire, dunque, quale progresso per la tecnologia informatica sarebbe riuscire a costruire — come alcuni ricercatori stanno tentando di fare — processori che utilizzano la luce piuttosto che i transistor per eseguire i loro calcoli.

Coni e bastoncelli

Assodato che solo le radiazioni comprese nella gamma di lunghezze d’onda tra 380 e 780 nm sono in grado di produrre nell’uomo percezioni visive, in che modo questo tipo di radiazioni elettromagnetiche agisce sul sistema occhio-cervello?

E’ evidente che deve esserci un meccanismo biologico, sensibile alla luce, in grado di trasformare la radiazione in una serie di prodotti chimici, suscettibili di essere elaborati dal cervello e trasformati in sensazioni visive. Tale sistema di recettori biologici — è stato scoperto — ha sede sulla retina, cioè su quella complessa membrana che tappezza la parete interna posteriore dell’occhio. Si tratta di due tipi di recettori: i coni e i bastoncelli. Ciascun tipo, quando stimolato dalla radiazione elettromagnetica, produce un particolare pigmento — la iodopsina i coni e la rodopsina i bastoncelli — che dà l’avvio ad una serie di reazioni chimiche e stimolazioni nervose, il cui esito finale è la percezione di luci e colori.

In ogni occhio vi sono circa 6 milioni di coni e 120 milioni di bastoncelli: un numero di elementi fotosensibili di gran lunga maggiore di quello presente nel più sofisticato dei monitor in commercio. I coni sono responsabili della visione diurna (detta fotopica), hanno la massima concentrazione — fino a 160.000 per millimetro quadrato! — in una piccola zona della retina, completamente priva di bastoncelli, detta fovea, e presiedono alla percezione del colore e alla nitidezza dei contrasti. Ciascun cono presente nella fovea è collegato ad una cellula nervosa: a questa via privilegiata di comunicazione con il cervello si deve la maggiore capacità di discriminazione dei dettagli che è associata con la stimolazione dei coni della fovea.

I bastoncelli, dal canto loro, benché molto più sensibili dei coni alla stimolazione da parte della luce, sono collegati alle cellule nervose solo a gruppi e questo fa sì che l’immagine che essi veicolano sia più confusa. Tuttavia la loro maggiore sensibilità permette all’occhio di vedere anche in condizioni di scarsa luminosità, quando ormai i coni non riescono più a fornire informazioni utili al cervello: quando si entra, ad esempio, nella sala buia di un cinema, dopo un periodo di cecità quasi completa nel corso del quale avviene l’assuefazione degli occhi all’oscurità, entrano progressivamente in funzione i bastoncelli, consentendoci di vedere sufficientemente bene per trovare posto senza problemi. La visione resa possibile dai bastoncelli è una visione non cromatica; assume importanza primaria in condizioni di scarsa luminosità ed è detta scotopica.

Fig. 3 — Differenze strutturali tra coni e bastoncelli

Colori spettrali e colori non spettrali

Ora che abbiamo presentato gli attori biologici che stanno alla base del processo della visione dei colori, dobbiamo fare un ulteriore passo in avanti e cercare di spiegare quale tipo di interazione, tra onde elettromagnetiche e coni presenti sulla retina, può generare la percezione di colori differenti.

A tal fine, è utile partire dal famoso esperimento di Newton del 1666, nel corso del quale il grande fisico e matematico inglese scoprì che la luce bianca, quando viene fatta passare attraverso un prisma di vetro, si scompone in una serie ordinata di raggi colorati.

Newton dimostrò così che la luce che ci appare bianca non è in sé monocromatica, ma è la somma di una serie di raggi, ciascuno dei quali — detto con la terminologia odierna — ha una differente lunghezza d’onda. A Newton si deve anche il primo modello di rappresentazione del colore, un cerchio che ha al suo centro il bianco e lungo la circonferenza, ordinatamente disposti, i colori scomposti dal prisma. I due colori agli estremi dello spettro visibile — il rosso e il violetto — sono giustapposti sulla circonferenza in modo da creare una transizione continua. Sette sono i colori identificati come principali in questo modello: rosso, arancione, giallo, verde, azzurro, indaco e violetto.

Fig. 4 — La ruota dei colori di Newton

I colori presenti lungo la circonferenza del cerchio di Newton sono detti colori spettrali, intendendo con ciò il fatto che essi sono componenti identificabili dello spettro cromatico in cui l’interposizione di un prisma scompone la luce bianca. Ma esistono molti altri colori visibili, ad esempio il rosa e il marrone, non presenti in questa gamma. Si tratta dei cosiddetti colori non spettrali, generati da una mescolanza di due o più dei colori spettrali. Mescolando ad esempio in varie proporzioni i due colori estremi dello spettro visibile, il rosso e il violetto, si ottiene tutta una gamma di colori non spettrali, detti porpore. Il cerchio dei colori raffigurato qui sotto modifica appunto lo schema originale di Newton (che egli stesso giudicò manchevole e provvisorio), con l’inserimento dei colori non spettrali. Sono anche specificate le lunghezze d’onda, espresse in nanometri, che corrispondono alle percezioni dei singoli colori.

Fig. 5 — Ruota dei colori contenente anche i colori non spettrali (porpore). I numeri rappresentano la frequenza in nanometri della luce

La teoria tricromatica della visione

Da quanto detto finora risulta evidente che ogni singolo colore percepito può essere sia l’effetto di una radiazione monocromatica (ad esempio un’onda a banda ristretta di 700 nm in grado di generare la visione del rosso) sia l’effetto del sommarsi in un’unica stimolazione di più radiazioni, ciascuna di lunghezza d’onda differente. Questa osservazione porta in primo piano un’importante caratteristica della percezione visiva, che la rende profondamente differente, ad esempio, dalla percezione uditiva. Mentre, infatti, l’orecchio è in grado di discriminare, in un accordo musicale, le singole note componenti, l’occhio non è in grado di separare, in una stimolazione luminosa composta dalla mescolanza di più luci diverse, le singole frequenze componenti.

La percezione visiva è sintetica piuttosto che analitica: una luce rossa ed una luce verde che colpiscono insieme un medesimo punto della retina avranno come risultato la percezione del giallo; non vedremo né il rosso né il verde.

Ciò significa che, nel contatto della radiazione elettromagnetica con i recettori della retina, l’informazione sulla lunghezza d’onda si perde. Al suo posto rimane la misura dell’eccitazione suscitata, che è proporzionale sia all’intensità della luce incidente sia alla sensibilità del recettore in quella particolare zona dello spettro a cui appartiene la radiazione che lo ha colpito.

Possiamo chiederci a questo punto: basterebbe un solo tipo di coni per spiegare la possibilità innata nella nostra vista di discriminare nella luce, allo stesso tempo, intensità e colori differenti?

La risposta a questa domanda è no. Per capire il perché occorre considerare il grafico in fig.6. La curva mostrata nel grafico rappresenta il differente grado di sensibilità di un unico ipotetico tipo di recettori fotosensibili, rispetto a luci monocromatiche di differente lunghezza d’onda. Nell’esempio, la radiazione monocromatica A1 ha una lunghezza d’onda corrispondente quasi alla massima sensibilità del recettore. L’effetto sul sistema percettivo si traduce in un valore 75 (puramente indicativo) di stimolazione, corrispondente alla visione di un certo colore avente una data intensità luminosa. La radiazione monocromatica A2 ha la medesima intensità della radiazione A1, ma ha una lunghezza d’onda differente, alla quale il recettore risulta tre volte meno sensibile, per cui l’effetto è una stimolazione tre volte meno intensa.

Fig. 6 — Due radiazioni monocromatiche di differente lunghezza d’onda in un sistema dotato di un unico tipo di recettori

Ora è dimostrato che in un sistema di questo tipo, in cui l’informazione sulla lunghezza d’onda si perde, lasciando in sua vece la percezione dell’intensità dello stimolo, è possibile eguagliare l’intensità della percezione dipendente dalla radiazione A2 all’intensità della percezione dipendente dalla radiazione A1 aumentando di tre volte l’intensità della radiazione A2. Ciò significherebbe, però, che la percezione visiva suscitata da A1 sarebbe del tutto uguale, indistinguibile da quella suscitata da A2, ovvero non ci sarebbe più discriminazione del colore, dal momento che vedremmo come uguali due radiazioni monocromatiche dotate invece di differente lunghezza d’onda.

In realtà questo è ciò che accade, all’incirca, nella visione scotopica dipendente dai soli bastoncelli: di tali recettori esiste infatti un solo tipo, che non è in grado, per i motivi appena descritti, di conservare l’informazione sulle differenze di lunghezza d’onda ma solo quella relativa alle variazioni di intensità luminosa.

Per avere allo stesso tempo discriminazione dell’intensità luminosa e del colore abbiamo bisogno di almeno due tipi differenti di recettori sensibili al colore. Con due tipi di recettori diventa possibile, ad esempio, eguagliare la percezione visiva dipendente da una singola radiazione monocromatica alla percezione visiva dipendente dalla miscela di due radiazioni monocromatiche di differente lunghezza d’onda.

Al principio dell’’800 il fisico inglese Thomas Young propose una teoria della visione in cui si sosteneva la presenza di tre differenti tipi di recettori, ognuno dei quali in grado di percepire un particolare colore: dalla combinazione delle sensazioni provenienti da ciascuno di essi, risulterebbe la percezione dei colori nello spettro visibile. Nella sua ipotesi iniziale, Young indicò come colori primari — cioè quelli alla base di ogni possibile combinazione — il rosso, il giallo e il blu. Successivamente modificò la sua teoria indicando come primari il rosso, il verde e il violetto.

Le tesi di Young furono riprese circa mezzo secolo dopo dal tedesco austriaco Hermann von Helmholtz. Da allora la cosiddetta teoria tricromatica della visione, basata cioè sull’azione combinata di tre diversi tipi di recettori fotosensibili, è nota anche come teoria di Young-Helmoltz.

Si dovette aspettare ancora, però, circa un secolo, per avere — grazie alle rilevazioni effettuate nel 1964 con sofisticate tecniche di microspettrofotometria — la conferma sperimentale dell’esistenza di questi tre diversi tipi di recettori e delle loro specifiche sensibilità nei confronti della lunghezza d’onda della radiazione elettromagnetica. Il diagramma in fig. 7 illustra appunto le curve di sensibilità dei tre tipi di coni sperimentalmente individuati.

Fig. 7 — Curve di assorbimento della luce da parte dei tre tipi di coni sperimentalmente individuati

Le differenti posizioni, rispetto alla lunghezza d’onda, dei picchi di assorbimento della luce da parte dei tre tipi di coni dipende dalle differenti caratteristiche del pigmento — la iodopsina — in essi contenuto.

  • I coni-S (in inglese S-cone, ovvero short-wavelength sensitive cone) hanno il loro picco di assorbimento intorno ai 437 nm; la loro massima sensibilità è per il colore blu-violetto; il pigmento in essi contenuto è detto cianolabile. Il fatto che la loro curva di assorbimento sia molto più bassa di quella degli altri due tipi di coni dipende dal ridotto numero di coni-S presenti nella retina: costituiscono meno del 10% del totale complessivo e sono quasi del tutto assenti dalla fovea, che è la parte della retina più sensibile alla visione del colore.
  • I coni-M (in inglese M-cone: middle-wavelength sensitive) hanno il loro picco di assorbimento intorno ai 533 nm; sono sensibili principalmente al colore verde; il pigmento in essi contenuto è detto clorolabile.
  • I coni-L (L-cone: long-wavelength sensitive) hanno il loro picco di assorbimento intorno ai 564 nm; sono sensibili principalmente nella gamma dei rossi; il pigmento in essi contenuto è detto eritrolabile.

Dato un simile modello tricromatico di percezione dei colori, la visione, ad esempio, del colore giallo è l’effetto di una situazione in cui i coni-M (sensibili al verde) ed i coni-L (sensibili al rosso) sono massimamente stimolati, mentre l’eccitazione dei coni-S (sensibili al blu) è del tutto trascurabile. La visione del bianco si ha, invece, quanto tutti e tre i tipi di coni risultano massimamente stimolati.

Chi ha qualche esperienza dei modelli di rappresentazione del colore su computer avrà già capito che la teoria tricromatica della visione è l’antecedente fisiologico del modello di colore RGB.

La teoria dei processi opposti

Purtroppo la teoria di Young-Helmholtz non è in grado di spiegare alcuni importanti fenomeni che riguardano la visione dei colori. In particolare non può spiegare i seguenti fatti:

  • l’esistenza di due coppie di colori complementari, una costituita dal giallo e dal blu, l’altra dal rosso e dal verde: i colori che formano ciascuna coppia non possono essere visti simultaneamente nello stesso posto; mescolati in proporzioni uguali formano il grigio; la presenza di uno dei due colori in una zona (ad es. il blu), rende più vivo il colore complementare (il giallo) nelle zone circostanti;
  • lo status del giallo, che sembra godere di proprietà analoghe a quelle dei colori primari rosso, verde e blu;
  • la visione di colori consecutivi, costituiti sempre dal complementare del colore precedentemente osservato (se si guarda per trenta secondi un cerchio blu e si fissa poi lo sguardo su una superficie neutra, ci apparirà un cerchio giallo — l’immagine consecutiva — la cui visione è stimolata dalla stessa porzione della retina precedentemente impressionata dal cerchio blu);
  • l’esistenza di colori psicologicamente puri (unique hues, in inglese), cioè colori che ci appaiono come non contaminati da sfumature di nessun altro colore. I soli quattro che hanno questa caratteristica di purezza soggettiva sono, ancora una volta, il blu, il giallo, il rosso e il verde.

Per spiegare simili fenomeni, il fisiologo tedesco Ewald Hering propose nel 1878 una teoria, definita dei processi opposti di colore, che postulava, ad un livello di elaborazione successivo rispetto ai coni, la presenza di tre canali percettivi:

  • un canale specializzato nella visione alternativa del giallo e del blu. Quando l’eccitazione combinata dei tre tipi di coni produce la visione del blu in una certa zona, è inibita in quella stessa zona la visione del giallo, e viceversa;
  • un canale specializzato nella visione alternativa del rosso e del verde. Quando l’eccitazione combinata dei tre tipi di coni produce la visione del rosso in una certa zona, è inibita in quella stessa zona la visione del verde e viceversa;
  • un canale specializzato nella visione della componente di bianco o di nero. Questo canale non è basato su meccanismi antagonisti, come i due precedenti, ma sul presupposto di un’eguale stimolazione dei tre tipi di coni: a stimolazioni di bassa intensità corrispondono grigi molto scuri; a stimolazioni della massima intensità corrisponde la visione del bianco.
Fig. 8 — La collaborazione dei tre tipi di coni alla generazione dei quattro colori puri più la luminosità

Negli anni ’50 due ricercatori presso la Eastman Kodak, Leo Hurvich e Dorothea Jameson, trovarono delle evidenze sperimentali, in grado di confermare in buona misura la teoria dei processi opposti di Hering. Chiedendo ad una serie di individui di cancellare (cioè di annullare) un qualsiasi colore dello spettro visibile utilizzando soltanto una mescolanza dei quattro colori puri dello schema di Hering, essi poterono tracciare delle curve di cancellazione della frequenza. Queste curve dimostrano, in misura chiarissima per il verde, il giallo e il blu, un po’ meno per il rosso, che la visione di uno dei quattro colori puri corrisponde psicologicamente all’assenza completa (la cancellazione) del suo colore complementare e ad uno stato di quiescenza dell’altra coppia di colori complementari.

Questa rilevazione sperimentale è di grande importanza: essa dimostra che è possibile riprodurre qualsiasi colore dello spettro visibile, utilizzando tre sole misure:

  1. una che identifica il colore sull’asse rosso-verde;
  2. una che identifica il colore sull’asse blu-giallo;
  3. una che identifica il livello di luminosità sull’asse nero-bianco.

Benché vi siano ancora molti punti oscuri circa i meccanismi fisiologici della visione e critiche non facilmente confutabili alle tesi sostenute da Hering (si veda ad esempio Peter Gouras, in particolare i paragrafi 10–12, http://webvision.med.utah.edu/Color.html), è oggi generalmente accettato un modello della visione dei colori basato su due stadi, che concorrono entrambi alla determinazione finale del colore percepito:

  • il primo stadio, definito dalla teoria tricromatica (vi sono tre tipi di coni, dalla cui azione combinata dipende la determinazione del colore in base alla lunghezza d’onda della radiazione incidente);
  • il secondo stadio, definito dalla teoria dei processi opposti (la visione di un colore dipende dall’azione combinata di due canali cromatici, costituiti ciascuno da una coppia di colori complementari antagonisti, più un canale dedicato alla luminosità).

La teoria dei processi opposti è alla base di un modello di rappresentazione dei colori a fini pratici denominato Natural Color System (NCS), sviluppato negli anni ’60 da Tryggve Johansson, Sven Hesselgren e Anders Hård, ricercatori presso lo Scandinavian Colour Institute (http://www.ncscolour.com).

Colori dentro e fuori contesto

Nel valutare un colore entra in gioco non solo la natura fisica locale dello stimolo percepito, ma anche il contesto percettivo in cui quella valutazione avviene. Numerosi esperimenti hanno dimostrato che la presenza di informazioni contestuali può cambiare notevolmente la percezione di un colore. Un tipico esempio dell’influenza del contesto è rappresentato in fig. 9. Molti osservatori, posti in una situazione sperimentale in cui il colore del disco sulla sinistra è presentato, all’interno di una stanza completamente buia, come una macchia fluttuante priva di contesto, descrivono ciò che vedono o come una superficie arancione poco illuminata o come una luce arancione di bassa intensità.

Basta però aggiungere delle semplici informazioni contestuali perché il giudizio cambi: se, ad esempio, la situazione sperimentale viene modificata con l’aggiunta di un disco bianco che dia all’osservatore la misura dell’intensità della sorgente luminosa presente nella stanza, oppure con l’aggiunta di una macchia di colore arancione puro (nell’immagine sono presenti entrambe le modifiche del contesto), allora il colore prima definito come un arancione poco illuminato sarà percepito dalla maggioranza degli osservatori come marrone.

Fig. 9 — La presenza di informazioni contestuali può cambiare la valutazione del colore del disco sulla sinistra

Simili esperimenti dimostrano la natura altamente soggettiva e complessa dell’atto di descrivere un colore da parte di un osservatore. Tuttavia è possibile definire, in quest’atto soggettivo, delle componenti elementari ed universali, che concorrono alla determinazione di qualsiasi colore e ne costituiscono, per così dire, gli ingredienti.

Tonalità, luminosità e saturazione

Ogni sensazione di colore può essere scomposta in tre ingredienti, ciascuno dei quali è a suo modo elementare, nel senso che partecipa alla determinazione del colore da parte dell’osservatore e non può essere ricondotto, per via di semplificazioni, a nessuno degli altri due costituenti. I tre ingredienti del colore sono tonalità, luminosità e saturazione.

La tonalità (hue in inglese) è l’attributo forse più semplice da comprendere. Essa è, infatti, nell’esperienza comune, la qualità percettiva che ci fa attribuire un nome piuttosto che un altro al colore che stiamo vedendo. Rosso, verde, giallo, blu sono tutti nomi di tonalità. Da un punto di vista fisico il corrispettivo della tonalità è la lunghezza d’onda della radiazione luminosa: quanto più la luce incidente su un certo punto della retina è riducibile ad una banda ristretta di lunghezze d’onda tanto più netta e precisa sarà per l’osservatore la possibilità di attribuire un nome al colore percepito.

È importante precisare che le tonalità che l’occhio è in grado di discriminare come irriducibili ad altre sono i soli colori spettrali (cioè i colori dell’arcobaleno, quelli separati da Newton tramite l’esperimento del prisma) più i colori originati da combinazioni di rosso e di blu spettrali (le cosiddette porpore). Tutti gli altri colori — ad esempio il rosa, il marrone, il salmone, il verde oliva, ecc. — possono essere definiti come combinazioni di una certa tonalità con gli altri due attributi di cui parleremo fra breve (il rosa, ad esempio, è un rosso poco saturo).

Fig. 10 — Differenze di tonalità (con valori massimi di saturazione)

La tonalità è una qualità del colore discriminabile ugualmente sia in valutazioni fuori contesto sia in valutazioni contestuali. Essa ha a che fare, infatti, con l’apparenza del colore in se stesso più che con la comparazione di un colore con gli altri elementi circostanti. Tuttavia, la presenza o l’assenza di un contesto possono mutare notevolmente la percezione di una medesima tonalità, come dimostra l’esempio descritto nel precedente paragrafo.

La luminosità è l’ingrediente che specifica la quantità di bianco o di nero presente nel colore percepito. La determinazione della quantità di bianco o di nero in una macchia di colore è possibile sia fuori contesto che in modo contestuale. Però il tipo di valutazione che consente di determinare in modo accurato il livello di grigio (cioè la distanza dai due estremi bianco e nero) in un colore è quello contestuale. Per dimostrare la correttezza di tale affermazione, occorre introdurre innanzitutto una distinzione terminologica.

Possiamo, dunque, chiamare brillantezza o intensità (brightness, in inglese) la quantità totale di luce percepita, emessa da una sorgente o riflessa da una superficie. La valutazione di tale quantità è un giudizio non contestuale, ma dipendente dal solo effetto percettivo suscitato dalla luce incidente sulla retina. Definiamo, invece, luminosità (lightness o value, in inglese) — meglio anzi luminosità apparente — la quantità di luce proveniente da un oggetto, a paragone della quantità di luce proveniente da una superficie bianca sottoposta alla medesima illuminazione. Si tratta evidentemente di una valutazione contestuale.

Fig. 11 — Differenze di luminosità (con tonalità e saturazione costanti)

Il fatto che il giudizio sulla luminosità sia più preciso e differente rispetto al giudizo sulla brillantezza si può dimostrare con un esempio. Se osserviamo una luce bianca piuttosto fioca (percezione di brillantezza) essa ci appare comunque bianca e non grigia. La visione del colore grigio possiamo averla solo osservando una superficie che ci appare meno luminosa rispetto ad una superficie bianca sottoposta alla medesima illuminazione (percezione di luminosità). Ciò significa che possiamo variare anche notevolmente l’intensità della luce che colpisce una superficie, senza che cambi la percezione della luminosità relativa delle sue parti. Esiste, cioè, un rapporto costante tra la quantità di grigio percepita in una zona dell’oggetto osservato, a paragone della quantità di grigio percepita in altre zone dell’oggetto, rapporto che non cambia al variare dell’illuminazione complessiva dell’ambiente.

Da quanto detto, emerge che la valutazione della luminosità è un atto percettivo qualitativamente differente rispetto alla determinazione della tonalità di un colore. Mentre quest’ultima può avvenire in modo non contestuale e sembra spiegabile nei termini fisiologici descritti dalla teoria tricromatica della visione, la valutazione della luminosità è invece un atto comparativo che pone in rapporto reciproco tutti gli elementi della scena osservata.

Proprio per questa sua natura comparativa, olistica, l’attributo della luminosità è l’elemento più importante all’interno della nostra percezione visiva. Come ben sanno fotografi, pittori e disegnatori, la visione acromatica, basata solo sul contrasto di luci, è in grado di veicolare tutte le informazioni essenziali ai fini della comprensione della scena osservata.

La saturazione (saturation, in inglese) è il terzo ed ultimo ingrediente che contribuisce alla percezione del colore. È la misura della purezza, dell’intensità di un colore.

La valutazione della saturazione può essere non contestuale o contestuale. Nel primo caso, essa definisce la purezza e la pienezza del colore in rapporto unicamente all’intensità della sua percezione isolata. Nel secondo caso, invece, in rapporto ad una superficie bianca sottoposta alla medesima illuminazione. In questa accezione, cioè come valutazione contestuale di luci riflesse, si parla tecnicamente di croma (inglese chroma) piuttosto che di saturazione. Non vi sono però differenze essenziali tra i fenomeni percettivi definiti per mezzo dei due termini, per cui, ai fini del nostro discorso, parleremo di saturazione in riferimento ad entrambe le accezioni.

I colori spettrali sono in assoluto i più saturi che noi possiamo osservare. Essi ci appaiono vivi, puri, brillanti, pieni, per nulla mescolati con parti di grigio. Al contrario, un colore poco saturo appare smorto, opaco, grigiastro, poco riconoscibile dal punto di vista della tonalità. Il motivo di questa scarsa riconoscibilità è che un colore poco saturo è il frutto di una mescolanza di luci di diversa lunghezza d’onda, ragion per cui differisce profondamente dai colori spettrali che sono invece prodotti da luci di banda molto ristretta.

Una radiazione costituita dalla mescolanza di molte lunghezze d’onda differenti produce una curva di assorbimento da parte dei coni della retina piatta e senza picchi, che corrisponde alla percezione di un colore grigiastro. Perciò la saturazione si definisce anche comunemente come la misura della quantità di grigio presente in un colore, intendendo con ciò che la mancanza di grigio accoppiata alla piena riconoscibilità della tonalità corrisponde alla massima saturazione, mentre la predominanza del grigio su un colore non facilmente identificabile corrisponde all’assenza di saturazione. La sequenza di campioni in fig.12 mostra appunto un aumento ordinato della saturazione da sinistra verso destra.

Fig. 12 — Differenze di saturazione (con tonalità e luminosità costanti)

Il fatto che un colore saturo ci appaia, per così dire, pienamente se stesso, facilmente identificabile, rende possibile accoppiare la misura della saturazione all’identificabilità di un colore spettrale nel campione che si sta osservando. Se, cioè, non siamo in grado di dire con certezza se stiamo osservando un rosso, un giallo, un blu, un verde, ecc., allora è sicuro che abbiamo a che fare con un colore non saturo: se, ad esempio, siete d’accordo sul fatto che è difficile valutare se i primi tre campioni a sinistra in fig.12 appartengano oppure no alla gamma dei rossi, siete anche d’accordo sul fatto che si tratta di colori non saturi.

Un problema ben noto ad artisti, pittori, grafici e studiosi del colore in generale è la difficoltà di separare psicologicamente, soprattutto in condizioni di scarsa illuminazione, la componente di luminosità dalla componente di saturazione di un colore. Quanto più un colore è scuro, infatti, tanto più è difficile identificarne la tonalità, per poter valutare se esso sia saturo oppure no. Ed inoltre, a complicare ancora le cose, un colore molto saturo appare chiaro e brillante, il che porta spesso l’osservatore a giudicarlo più luminoso di un colore meno saturo che riflette la medesima quantità di luce. La tavola in fig. 13 mostra schematicamente il modo in cui luminosità e saturazione influenzano la visione dei colori: nel grafico la luminosità cresce in passi uguali da nero verso bianco sull’asse verticale; la saturazione aumenta in modo corrispondente lungo l’asse orizzontale. Pertanto tutti i campioni posti sulla medesima riga condividono lo stesso livello di luminosità; tutti i campioni sulla medesima colonna condividono lo stesso livello di saturazione.

Dall’osservazione della disposizione dei campioni di colore sulla tavola emergono due considerazioni: 1) la discriminazione degli ingredienti di un colore è più difficile in corrispondenza dei toni scuri; 2) la capacità di discriminare livelli di saturazione differenti è massima in corrispondenza di livelli di luminosità medi.

Fig. 13 — Influenza della luminosità e della saturazione sulla percezione di un colore

Tra i modelli di rappresentazione dei colori sviluppati sulla base del complesso percettivo tonalità-luminosità-saturazione, sono da citare il sistema di notazione creato da Alfred H. Munsell, assistente presso la Normal Art School di Boston nel 1898, e il modello di rappresentazione digitale noto come HLS (dalle iniziali delle parole inglesi hue, lightness e saturation). Quest’ultimo sarà descritto diffusamente in seguito.

Per quanto riguarda il sistema di Munsell, tuttora utilizzato soprattutto come ausilio nella scelta dei colori per la pittura, tutte le informazioni utili a chi volesse approfondire l’argomento sono disponibili on line. In questa sede basti ricordare che Munsell ordinò le tonalità (hues) della luce spettrale più le porpore lungo un cerchio, suddividendole arbitrariamente in 100 intervalli equidistanti e designando le tonalità principali con le iniziali dei nomi dei colori nella lingua inglese. Divise poi la luminosità apparente di un colore in dieci intervalli, dal nero al bianco, e la saturazione (chroma) in intervalli progressivi designati con multipli di 2. I colori meno saturi sono i grigi nella scala da nero a bianco, con valore di croma 2; i colori più saturi, che possono raggiungere valore di croma 18 o 20, si trovano lungo l’equatore del solido pseudo-sferico utilizzato per rappresentare spazialmente il sistema, solido il cui asse verticale rappresenta la dimensione della luminosità. In questo modo ogni colore appartenente al modello viene univocamente identificato per mezzo di una sigla e di tre parametri numerici: ad esempio 10R 6/4 identifica un rosso (R = red) leggermente spostato verso il giallo, di luminosità 6 e croma 4.

La sintesi additiva

Abbiamo parlato finora in generale degli effetti della luce sul nostro sistema percettivo, senza mai portare in primo piano le importanti differenze esistenti tra la percezione di colori come risultato di luci provenienti direttamente da una sorgente luminosa e la percezione di colori come risultato di luci riflesse da superfici interposte tra una sorgente ed i nostri occhi.

È ora il momento di considerare in dettaglio questa differenza, cominciando dai fenomeni legati alla prima delle due situazioni indicate.

Come abbiamo visto nei paragrafi dedicati al funzionamento dei recettori fotosensibili della retina, la visione dei colori dipende dall’azione combinata di tre tipi di coni, diversamente eccitati dalle onde elettromagnetiche che compongono la luce. È possibile sperimentare che una opportuna mescolanza di radiazioni di diversa lunghezza d’onda produce la visione del bianco: è, tale risultato, l’opposto di ciò che accade nella scomposizione della luce bianca solare nei colori dello spettro visibile ad opera di un prisma.

Il fatto che luci di differente lunghezza d’onda, le quali, viste singolarmente, ci appaiono ciascuna colorata in modo diverso, generino — sommate insieme — la visione del bianco, è un fenomeno che viene definito sintesi o mescolanza additiva. La visione del bianco può essere considerata come la controparte percettiva della somma di tutte le radiazioni che compongono lo spettro visibile.

Ai fini della creazione di un sistema affidabile per la generazione di colori ottenuti miscelando luci colorate, si ricorre solitamente all’uso di tre colori-base, che sono definiti primari. I primari utilizzati oggi nei televisori, nei monitor dei computer e nei sistemi di grafica digitale sono il rosso, il verde e il blu.

È interessante notare, però, che la terna dei cosiddetti colori primari è una scelta arbitraria dell’uomo, che non ha giustificazioni nella fisica o nella fisiologia dell’occhio. Una terna di colori primari, cioè, non esiste in natura. I tre tipi di coni presenti sulla retina hanno, ad esempio, il loro picco di sensibilità intorno alle frequenze del blu-violetto del verde e del giallo-verde, non in corrispondenza del rosso, del verde e del blu, e vengono stimolati tutti e tre (sia pure in modo diseguale), o almeno due su tre, dalla maggior parte delle frequenze visibili, a causa della relativa sovrapposizione della curva di sensibilità di ciascuno di essi.

Ciò che ha radici nella fisiologia della visione è piuttosto: 1) il fatto che tre è il numero minimo di luci colorate che è necessario mescolare per ottenere una gamma di colori più o meno paragonabile alla ricchezza cromatica dello spettro visibile; 2) che il rosso, il verde e il blu sono colori prodotti da una forte eccitazione di uno solo dei tre tipi di coni e da una scarsa stimolazione degli altri due tipi, cosa che si accorda con la necessità di far corrispondere ai colori primari tre fonti di stimolazione luminosa il più possibile indipendenti l’una dall’altra e in grado, combinate tra loro, di provocare la massima eccitazione di tutti e tre i tipi di coni, fenomeno quest’ultimo che produce appunto la visione del bianco. La scelta di questi tre primari si paga però con il fatto che mescolanze uguali di rosso, di verde e di blu non producono esattamente il bianco, ma una sfumatura tendente al giallo: occorre aggiungere del blu al rosso primario — o aumentare la luminosità del blu — per ottenere il bianco.

In fig.14 è rappresentato lo schema classico della sintesi additiva. È l’effetto che si ottiene sovrapponendo tra loro tre raggi luminosi: uno verde, uno rosso ed uno blu, opportunamente corretti in partenza nel modo poco sopra descritto. Un simile esperimento si può realizzare facilmente, usando tre sorgenti di luce bianca, ciascuna schermata con un filtro di uno dei tre colori qui considerati primari, e proiettando i tre raggi su una superficie neutra. Come si può vedere, al centro, dove i tre raggi si sovrappongono, appare il bianco. Dove, invece, si sovrappongono solo la luce rossa e quella verde, vediamo il giallo, in accordo con quanto spiegato in precedenza, nei paragrafi dedicati alle funzionalità recettive dei coni. Nella zona di sovrapposizione tra verde e blu, il colore percepito è il ciano (un celeste luminoso e molto saturo). Infine, là dove di mescolano il rosso e il blu, il colore percepito è il magenta (un rosso violaceo molto saturo).

Fig. 14 — Esempio di sintesi (o mescolanza) additiva di tipo spaziale

Il tipo di mescolanza additiva mostrata in fig.14 è detto spaziale, perché l’effetto è prodotto dalla sovrapposizione di luci su una stessa porzione di spazio. Esistono però altri due tipi di sintesi additiva: la media spaziale e la media temporale.

La sintesi per media spaziale avviene quando delle luci di colore differente, molto ravvicinate tra loro, sono viste dall’occhio ad una distanza tale per cui non è più possibile scorgere le singole componenti: al loro posto appare invece un’unica macchia di colore. È questo appunto il principio adoperato da monitor e televisori, nei quali ogni punto visibile dello schermo è costituito da tre fosfori (elementi fotosensibili) molto ravvicinati tra loro, uno attivo nelle gradazioni del rosso, uno in quelle del blu ed uno in quelle del verde: l’occhio interpreta la loro vicinanza come un’unica stimolazione-somma, in grado di produrre la visione dei colori secondo le regole della mescolanza additiva, che è il meccanismo naturale di funzionamento dei nostri recettori della retina.

L’esempio in fig.15 mostra una sintesi additiva per media spaziale: il quadrato giallo-verde sulla destra è l’unione di molte migliaia di semiquadrati rossi e verdi, come quelli — molto ingranditi — accostati nel quadrato sulla sinistra dell’immagine: i recettori della retina non sono in grado di separare le singole componenti di rosso e di verde quando esse sono molto piccole e ravvicinate, per cui vediamo un unico colore-somma che è l’effetto della loro mescolanza additiva.

Fig. 15 — Esempio di sintesi additiva effettuata per media spaziale. Una serie di bande rosso-verdi, viste ad opportuna distanza, appaiono come una superficie uniformemente gialla

Il terzo ed ultimo tipo di sintesi additiva avviene per media temporale. Esso si ottiene quando luci che ci appaiono di colore differente colpiscono lo stesso punto della retina in rapida successione (almeno 50 o 60 volte al secondo): quando il ritmo del loro alternarsi è sufficientemente elevato, i recettori della retina non sono più in grado di discriminare tra due sensazioni successive, che vengono quindi fuse nella percezione psicologica di un unico colore-somma.

In fig.16 viene mostrato un esempio di sintesi additiva per media temporale: il disco rosso-verde (a sinistra), posto in rapida rotazione, viene percepito dall’osservatore come un disco di colore giallo uniforme (a destra).

Fig. 16 — Esempio di sintesi additiva effettuata per media temporale

La sintesi sottrattiva

Passiamo ora a considerare cosa accade quando la luce che colpisce i recettori sulla retina non proviene direttamente da una sorgente, ma è riflessa da una superficie interposta.

Ai fini della determinazione del colore da parte di un osservatore umano, l’elemento principale da tenere presente in questo caso è la curva di riflessione propria della superficie interposta. Il colore visibile di una qualsiasi superficie dipende infatti dal potere di quella superficie di assorbire una parte della luce ricevuta dall’ambiente e di rimandarne verso l’osservatore la parte non assorbita sotto forma di luce riflessa.

In situazioni prive di informazioni contestuali il colore della luce riflessa verso l’osservatore varierà in funzione del variare delle caratteristiche di intensità e colore della luce emessa dalla sorgente. Tuttavia, il potere riflettente di una superficie, definito per mezzo di una curva di riflessione, è un’informazione che permette di prevedere in certa misura il colore finale percepito dall’osservatore (assunta come sorgente di illuminazione una luce bianca di media intensità, contenente al suo interno l’intera gamma delle lunghezze d’onda dello spettro visibile).

Una curva di riflessione è sostanzialmente una funzione matematica che definisce il grado combinato di eccitazione dei tre tipi di coni della retina. Questa curva può essere tradotta, come mostra il grafico in fig.17, in un diagramma diviso in tre parti, che riporta il grado di eccitazione relativo a ciascun tipo di coni: nel caso illustrato, il colore percepito sarà un verde tendente al giallo (la maggiore stimolazione è nell’area sensibile al verde e, in minor misura, nell’area sensibile al rosso).

Fig. 17 — Una curva di riflessione è una funzione che rappresenta l’effetto combinato della stimolazione dei tre tipi di coni da parte della luce riflessa da una superficie

La comprensione delle curve di riflessione è il presupposto per capire il motivo per cui una superficie illuminata ci appare, ad esempio, gialla. Vediamo dunque cosa accade, partendo dalle radiazioni emesse da una sorgente di luce bianca. Come abbiamo avuto modo di spiegare parlando dei colori primari, la luce bianca può essere descritta come la combinazione di una luce verde, di una luce rossa e di una luce blu di opportuna frequenza.

Consideriamo l’esempio in figura 18 a partire dalla superficie gialla in alto. Se una superficie illuminata da una luce bianca ci appare gialla, ciò accade perché quella superficie ha una curva di riflessione tale da assorbire la radiazione nello spettro del blu, proveniente dalla luce bianca, e da riflettere verso l’osservatore solo le radiazioni appartenenti allo spettro del verde e del rosso. Queste ultime, combinandosi sulla retina secondo le regole già descritte della sintesi additiva, producono la percezione del giallo.

La superficie color ciano (quella al centro) appare tale, perché assorbe le onde nella frequenza del rosso — nel grafico il raggio luminoso rosso è bloccato appunto dalla superficie color ciano — e rimanda verso l’osservatore le onde nella frequenza del blu e del verde, le quali, combinandosi sulla retina, producono la percezione del ciano. Infine la superficie color magenta (quella in basso) appare tale perché assorbe le radiazioni nella frequenza del verde e riflette le radiazioni nella frequenza del blu e del rosso, che agiscono sulla retina producendo la sensazione del magenta.

Fig. 18 — Una superficie colorata assorbe una parte della luce visibile
e restituisce il resto all’ambiente sotto forma di luce riflessa

Come si evince da questi esempi, anche la visione dei colori determinati dalla riflessione della luce da parte di superfici sottostà alle regole della sintesi additiva, una volta che le luci riflesse abbiano colpito la retina.

Tuttavia, se consideriamo il fenomeno non dalla parte della radiazione riflessa, ma da quella della radiazione assorbita, dobbiamo convenire che le superfici che ci appaiono colorate sottraggono alla nostra visione una parte dello spettro visibile. Sorge quindi il problema, di massima importanza nel campo della pittura e della stampa, di quale effetto produca sulla visione dei colori la combinazione delle proprietà riflettenti (cioè della capacità di assorbire parte della luce) proprie di superfici differenti.

È chiaro che questo discorso non si applica a superfici completamente opache, come legno, metallo, plastica, ecc., le quali finiscono con il nascondere completamente la superficie che ricoprono, ma si applica piuttosto a quei pigmenti — colori, tinture, vernici — che, stemperati, mescolati o diluiti su superfici neutre come la tela o il cartone, combinano le reciproche proprietà riflettenti, producendo nell’osservatore la visione di nuovi colori.

Che colore vedremo, dunque, se mescoliamo su una superficie neutra del giallo e del magenta? Prima ancora che attraverso la prova pratica, realizzata ad esempio mescolando sulla carta o sulla tela dei pigmenti dei colori dati, possiamo ottenere la risposta a questa domanda per mezzo di semplici considerazioni teoriche, effettuate sulla base dello schema illustrato nella figura precedente. Come si può vedere osservando i raggi delle luci riflesse che vanno dalla superficie gialla verso l’osservatore, questa riflette la luce verde e la rossa; la superficie magenta riflette invece la luce blu e la rossa. Mescolando allora fisicamente dei pigmenti giallo e magenta, accadrà che il giallo bloccherà la componente di luce blu riflessa dal magenta, mentre il magenta bloccherà la componente di luce verde riflessa dal giallo. Entrambi i pigmenti continueranno a riflettere la luce nello spettro del rosso e questo è il motivo per cui, amalgamando insieme pigmenti di questi due colori, il colore risultante visto dall’osservatore sarà il rosso. La curva di riflessione combinata del giallo e del magenta è illustrata in fig. 19.

Fig. 19 — Le curve di riflessione del giallo e del magenta, combinate tra loro, mostrano che la luce riflessa risultante è nello spettro del rosso

Dall’esempio precedente si può ricavare una regola empirica: mescolando tra loro in modo appropriato due pigmenti sufficientemente saturi (tinture, vernici, ecc.), il colore risultante percepito corrisponderà a quella parte dello spettro visibile che entrambi i pigmenti riflettono, mentre sarà cancellata ogni parte della luce visibile che è riflessa da uno soltanto di essi. In base a tale principio, mescolando il ciano e il magenta vedremo il colore blu, che entrambi riflettono. Allo stesso tempo la luce rossa riflessa dal magenta sarà bloccata dal ciano, così come sarà bloccata dal magenta la luce verde riflessa dal ciano. Analogamente, infine, mescolando del ciano con del giallo vedremo il colore verde, mentre verranno assorbite le luci nello spettro del rosso e del blu.

I tre colori di base utilizzati in questi esempi — il ciano, il giallo e il magenta — non sono stati scelti casualmente. Ciascuno di essi ha la proprietà di bloccare, cioè di sottrarre alla vista, uno dei colori primari della sintesi additiva e di riflettere gli altri due. Ciano, giallo e magenta sono perciò considerati i colori primari della sintesi o mescolanza sottrattiva, cioè di quella mescolanza di pigmenti che genera la visione di colori in dipendenza del modo in cui essi riflettono la luce bianca. Come abbiamo avuto modo di constatare poco sopra, la mescolanza di due primari qualsiasi della sintesi sottrattiva genera uno dei primari della sintesi additiva. Gli effetti della combinazione parziale o totale dei colori primari della sintesi sottrattiva sono illustrati in fig. 20. Una bella simulazione di sintesi sottrattiva, con la possibilità di spostare direttamente gli elementi colorati e verificarne gli effetti, è disponibile on line (sezione optics).

Fig. 20 — Esempio di sintesi — o mescolanza — sottrattiva

È da notare che, mentre nella sintesi additiva il colore ottenuto dalla combinazione dei tre primari è il bianco, nella sintesi sottrattiva il colore risultante è il nero. Ciò si spiega facilmente: se ognuno dei primari della sintesi sottrattiva ha il potere di assorbire un terzo differente della radiazione visibile, mescolandoli tutti e tre l’intero spettro visibile verrà assorbito e nessuna luce sarà riflessa verso l’osservatore.

A questo punto urge un chiarimento molto importante. Dalle spiegazioni date fin qui, potrebbe sembrare che le mescolanze di colori basate sulla sintesi sottrattiva siano altrettanto prevedibili e definite di quelle basate sulla sintesi additiva. In realtà non è affatto così. La mescolanza sottrattiva reale, purtroppo, deve fare i conti con la natura materiale dei pigmenti e delle superfici utilizzati. Le curve di riflessione dei colori usati nella pittura, ad esempio, sono solo una lontana approssimazione delle curve di riflessione ideali che occorrerebbero per produrre gli effetti teorici descritti negli esempi precedenti. La figura successiva mostra appunto le risposte ideali dei coni della retina per i tre colori primari della sintesi sottrattiva, a confronto con le risposte reali dei coni, suscitate dai pigmenti effettivamente disponibili per i colori ciano, magenta e giallo.

Fig. 21 — Curve di riflessione ideali a confronto con le curve reali nella sintesi sottrattiva

Come è evidente dai diagrammi di fig. 21, i pigmenti color ciano riflettono la luce verde meno della blu e riflettono anche una certa quantità di luce rossa. La teoria vorrebbe, invece, il 100% di riflessione di luce verde e blu e lo 0% di riflessione di luce rossa. Analogamente il pigmento giallo considerato nella figura riflette la luce verde in misura minore di quella rossa (in luogo del 100% richiesto dalla teoria per entrambe) e riflette anche una notevole quantità di luce blu, che dovrebbe invece essere completamente assorbita.

Gli esempi potrebbero continuare all’infinito. Quel che consegue da questa oggettiva differenza di comportamento tra i pigmenti realmente disponibili e le prescrizioni della teoria, è la progressiva perdita di saturazione risultante dalla mescolanza di pigmenti diversi. Nella mescolanza sottrattiva, infatti, nessun colore ottenuto dalla combinazione di pigmenti può essere più saturo dei suoi componenti e, in generale, dei tre colori primari ciano, magenta e giallo. Ciò perché la saturazione è una caratteristica delle luci spettrali pure, che i colori della sintesi sottrattiva conservano solo nella misura in cui rimangono pure le luci che riflettono verso la retina.

Poiché gli stessi pigmenti usati come colori primari nella sintesi sottrattiva risentono di un difetto di saturazione, dovuto a curve di riflessione che non bloccano completamente nessuna lunghezza d’onda dello spettro visibile, a maggior ragione saranno meno saturi i colori risultanti dalla mescolanza di pigmenti diversi. Il diagramma in fig. 22 illustra il cosiddetto saturation cost, cioè il prezzo in termini di saturazione, che bisogna pagare quando si vogliono mescolare tra loro dei pigmenti. Il cerchio rappresenta la gamma dei colori ottenibili mescolando i tre primari della sintesi sottrattiva. Lungo la circonferenza si trovano i colori più saturi; a mano a mano che si procede verso il centro, occupato dal nero, i colori divengono sempre meno saturi e più scuri. Il colore risultante dalla combinazione di due pigmenti posti sulla circonferenza, si troverà su una corda che attraversa la circonferenza nei due punti occupati dai colori utilizzati: da ciò deriva che, quanto più sono lontani sulla circonferenza i due colori utilizzati, tanto più vicino al centro, e perciò meno saturo e più scuro, sarà il colore risultante dalla loro combinazione.

Fig. 22 — Quanto più due colori sono distanti sulla circonferenza tanto meno saturo sarà il colore risultante dalla loro combinazione

La sintesi sottrattiva

Dopo aver parlato tanto di tutti gli aspetti della percezione del colore, occorre spendere almeno due parole sulle anomalie della visione dei colori.

La cecità ai colori può essere totale (e in questo caso si parla di acromasia o acromatopsia) oppure parziale, il che è molto più comune: in questo caso si parla di discromatopsia o di dicromatismo, a seconda che si consideri l’anomalia in riferimento alla teoria tricromatica della visione oppure alla teoria dei processi opposti. Il daltonismo, che è l’anomalia più conosciuta (così chiamato dal nome del suo scopritore, il chimico J. Dalton), è una forma di cecità per il canale cromatico rosso-verde, che ha due sottospecie: la protanopia, una cecità più accentuata per il rosso, e la deuteranopia, una cecità più accentuata per il verde.

Tralasciando ulteriori dettagli, quel che ci preme sottolineare è l’importanza per il grafico e l’impaginatore di conoscere non solo gli strumenti tecnici del proprio lavoro — i vari software e computer sul mercato — ma anche le teorie della visione e, con queste, i problemi legati ad anomalie genetiche o acquisite nella percezione dei colori, così da poter evitare, nei propri lavori, impaginazioni e soluzioni grafiche che potrebbero risultare parzialmente o totalmente invisibili, e perciò inutilizzabili, per l’utente affetto da una delle varie forme documentate di cecità ai colori. In fig. 23 sono riportati alcuni classici test per la diagnosi della discromatopsia. Se non riuscite a leggere i numeri nei cerchi, allora è bene che vi rechiate al più presto da un oculista…

Fig. 23 — Ciascun cerchio contiene dei numeri

Pubblicato in origine su www.diodati.org nel 2001.

--

--

Michele Diodati
Michele Diodati

Science writer with a lifelong passion for astronomy and comparisons between different scales of magnitude.