IL PESCATORE DI TEMPO

Per diventare nascostamente filosofi

scenafutura
Michele Marziani
2 min readDec 29, 2016

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« È tutto sparso sul tavolo. Gli appunti. Le bottiglie di vino. Gli attrezzi colorati che ora somigliano a piccoli pesci di legno, ora a farfalle dorate, ora a giocattoli in gomma. Il sigaro.

Il cappello con la piumetta colorata. Certe mappe di acque minori, di torrenti nascosti. I libri. Le foto tra amici, con le canne da pesca, stagliate contro il cielo. Lance di indiani Cheyenne nella valle del Little Bighorn. Una pinza a becco lungo. Un paio di occhiali. Un coltello. La fiaschetta per la grappa. Il termos per il caffè. Zaino e stivali appoggiati per terra. Una giacca logora. Un cestino di vimini. Non ci sono trofei tra i ricordi di un pescatore. È questa, forse, la prima differenza con la caccia: né palchi, né teste, né corna appese alle pareti o pelli stese a fare da tappeti o da coperte. Caccia e pesca non sono parenti.

C’è invece il libretto azzurro telato della prima licenza di tipo B, pescatori dilettanti. C’è l’immagine, quasi una fotografia, di quella lama d’acqua verdissima e profonda, tagliata dalla luce d’inverno, nella quale il ragazzo ha visto guizzare per la prima volta una trota. C’è il ricordo, al tatto, del legno di bambù della canna comprata all’Autogrill dallo zio assieme al sacchetto di caramelle: i dolciumi per la sorella, la canna per il ragazzo che era ancora un bambino.»

Dall’incipit di Il pescatore di tempo.

Storie di pesci d’acqua dolce che insegnano qualcosa anche sulla paura, sulla scrittura, sulla libertà,sull’uguaglianza. E sulla maionese.

Il grande Kurt Vonnegut diceva di sé: «Noi siamo americani della zona dei Grandi Laghi: gente d’acqua dolce, non marinara, bensì dell’entroterra. Ogni volta che faccio il bagno in mare mi sembra di nuotare nel brodo di pollo».

L’acqua dolce, quella dei laghi, ma soprattutto quella dei fiumi e dei torrenti, ha un odore uguale ovunque, un odore che entra nelle narici e conferma quello che da sempre si cerca su quelle sponde. La libertà. Pescare è una pratica, prima ancora che un sentimento. Ma spesso si diventa pescatori perché si prova a risolvere un enigma che non ha soluzione: per entrare nel mondo che sta sott’acqua si va a caccia dei suoi abitanti. E questi abitanti con le pinne, furbissimi e colorati, diventano presto un’ossessione, una specie di “Grande Trota”, come Moby Dick per il capitano Achab. Più ci si innamora di quel mondo, più ci si rende conto della contraddizione: si cattura, spesso si uccide l’oggetto del desiderio. Si vive e si risolve in se stessi il dilemma dell’amore e della morte. La risposta non la troveremo mai, ma ci accompagnerà per sempre nelle narici quell’odore misto di acqua e di vita.

Ediciclo Editore 2016
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