Un’intervista “pericolosa” su Leonard Cohen

Marco Zoppas
Mitologie a confronto
11 min readMar 27, 2023

A colloquio con Giulia Rosini e Enio Bruschi

Source: https://montreal.ctvnews.ca/

Inseguivo ormai da tempo un qualcosa come l’articolo “Otto anni e un segreto” uscito il 2 gennaio 2023 per la rivista online Tomtomrock. Il pezzo, scritto a quattro mani da Giulia Rosini e Enio Bruschi, perlustra un mistero nel mistero della poetica di Leonard Cohen: un silenzio durato otto anni — dal 1967 al 1975 — in cui l’autore smette di occuparsi di politica e dei sommovimenti che attraversano la sua terra natia, il Canada. Proprio mentre la rivolta indipendentista del Québec viene domata Cohen si reinventa trasformandosi nello chansonnier che tutti conosciamo. Viene da chiedersi allora se la sua attività di cantante e musicista rappresenti il giusto coronamento delle sue immense doti o se significhi il vile abbandono del suo ruolo scomodo e responsabile di artista sensibile, in grado di cogliere quello che sta effettivamente accadendo sotto i suoi occhi nel suo paese.

Non è una domanda di facile risposta. La voce di Leonard ha assunto una valenza universale per molti suoi ascoltatori. Quello di cantare sembra essere stato il giusto destino assegnatogli. Rosini e Bruschi hanno il pregio di andare oltre le sfaccettature di Cohen come seduttore, monaco penitente o illuminato, figliol prodigo dell’ebraismo per proporci i dubbi che devono averlo comunque assillato se ha composto versi come “cominciò così l’osceno silenzio della mia carriera di casanova” oppure “ora sono disteso in una pozza di grasso e al cospetto delle margherite mi vergogno di ciò che sono”.

Avendo scritto molto sull’argomento penso di potermi considerare un dylanologo, ma di certo non posso definirmi un “cohenologo” (chiedo scusa per il termine che ho appena coniato). Conosco molto bene la produzione di Cohen dal 1988 in poi comprese le raccolte live a partire da quel periodo. Della sua produzione musicale precedente, mea culpa, non ho ancora fatto uno studio approfondito. Vorrei pertanto far partire la nostra conversazione proprio da lì, chiedendo a Rosini e Bruschi di fare lumi su una serie di questioni che mi stanno molto a cuore ma non ho ancora affrontato nella maniera dovuta.

Giulia, Enio, innanzitutto grazie per aver accettato il mio invito. Possiamo ravvisare tracce di “maledettismo” nei primi album di Leonard Cohen, soprattutto forse in Songs of Love and Hate che voi citate nel vostro articolo?

I primi due album Songs of Leonard Cohen e Songs from a Room, mettono in scena una posa più tradizionale di chansonnier, attitudini intellettuali da belli e perdenti che, se vuoi, si avvicinano ad un concetto di bohème non molto lontano da atteggiamenti riconducibili alla categoria, molto abusata, del “maledettismo”. Diciamo che in parte è quello che alla maggioranza del pubblico affascina nel giovane Cohen: morbidezza poetica, vita randagia di menestrello dei sentimenti, esistenzialismo doloroso, calati in strutture folk ed in testi poetici fortemente evocativi, ma in fin dei conti tradizionali, che la sua voce rende magnetici. Con il terzo album Songs of Love and Hate iniziano ad emergere nei testi particolari più ruvidi, con una più diretta interferenza della realtà storica e politica, in forme simboliche, certo, ma ben accertabili. Quando si parla di personaggi pubblici è chiaro che la costruzione ed il confezionamento del “personaggio”, appunto, sia inevitabile, ma pensiamo che il grumo doloroso di Cohen non stia affatto solo sul versante intimistico. Che sia un trauma, e quindi per niente facile da occultare (a meno che non ci inganni, ma non crediamo, un fiuto fin troppo troppo acuto!)

“Ho sempre cercato di vivere in una torre d’avorio”, scriveva Baudelaire nei suoi appunti. “Ma una marea di merda ne batte le mura, tanto da farla crollare”. Cohen si rifugia nella sua “Tower of Song”. L’incipit della poesia baudelairiana “Spleen” — “ho più ricordi che se avessi mille anni” — induce a riflettere sul fatto se il genio dei grandi poeti non consista proprio nel loro rapporto con la memoria. Quali sono secondo voi i ricordi che Cohen fatica a gestire e prova a sublimare nei suoi scritti?

Per Cohen possiamo dire che memoria equivalga all’eterno ritorno di traumi, a ferite narcisistiche, generatesi anche sulla soglia della maturità artistica e individuale, senza riuscire in una compiuta elaborazione. Noi trattiamo di un dramma che ci pare radicato nel profondo di Cohen e che potremmo semplificare così: senso di colpa per aver abdicato alla missione dell’intellettuale, vendendosi sul mercato della canzonetta. Cohen ha un potente Super Io, forse legato alle radici religiose e culturali ebraiche, che in lui sono fortissime ed un trauma Cohen non riesce a metabolizzare: il senso di colpa per non essere stato quello che doveva, che il suo mondo di appartenenza voleva che fosse. Tradisce la missione di occuparsi del suo paese, il Québec, delle sue rivendicazioni di indipendenza che si sarebbero macchiate di sangue. Il Québec e la posizione dubbiosa dello scrittore verso la rivoluzione morbida che sarà poi soffocata da un vero e proprio colpo di stato del governo centrale canadese, sono al centro di Beautiful Losers (1966). Quando metterà mano alla carriera professionale di cantante, appena un anno dopo, Cohen si auto censurerà del tutto sul versante politico e civile, che tornerà fuori dolorosamente molto più tardi, a moti conclusi e sedati.

Oltre alla raccolta postuma The Flame, ammetto di aver letto soltanto il romanzo Beautiful Losers di Leonard Cohen. Lo considero un capolavoro molto raccapricciante. Mentre leggevo ho intravisto nel protagonista le caratteristiche di una cavia sottoposta a un angosciante lavaggio del cervello. Abbondano le scene di mutilazione, pratiche bizzarre di sessualità sempre più estrema, addirittura di cannibalismo e coprofagia a un certo punto. Il protagonista ha una relazione omosessuale con il suo mentore che risale a un tempo che i due trascorrono insieme in un orfanotrofio. Il mentore poi aderisce alla rivolta quebecchiana contro il sistema canadese, e adotta metodi perlomeno inquietanti quanto lo sono i terroristi del Québec in carrozzina immortalati nelle pagine di Infinite Jest di David Foster Wallace. Non si tende forse troppo a sottovalutare l’importanza che riveste il Canada nei lavori di Leonard Cohen?

Sì, crediamo lo si sottovaluti assolutamente e per questo ne abbiamo scritto. L’immaginario collettivo corre per lo più al bello e dannato, al seducente narratore di paesaggi interiori, al grande poeta e narratore che, per inciso, egli aveva coscienza di non essere. Cioè, Cohen ha presto ben chiari i propri limiti di scrittore e capisce con lucidità quale è la strada che gli darà successo e denaro. È stato molto interessante per noi mettere la lente d’ingrandimento su altri aspetti della sua vita che emergevano dalle canzoni e ancor più potentemente dalle poesie. Troppe le immagini ossessive, ricorrenti perché non covasse un trauma profondo, viscerale. La poesia centrale “In ginocchio presso un ruscello”, alcune immagini ossessive delle canzoni, soprattutto del terzo album, ci hanno indirizzato sul sentiero della questione canadese, sulla quale Cohen fu sempre tiepido, sentendo in sé la duplice identità inglese e francese, e sulla quale finì per essere, anche per convenienza, omissivo. Ed è qui che si genera, secondo noi, il trauma. Non essere stato all’altezza delle sue aspettative, aver tradito il proprio paese, e le attese di un mondo intellettuale che lo acclamava.

Come vi spiegate l’ossessione erotica, degna di un marchese De Sade, presente in Beautiful Losers?

Crediamo che nel romanzo, al di là di un gusto esasperato per il dettaglio morboso, che ci pare molto datato ma che si inquadra nella ricerca di libertà stilistica e contenutistica tipica del post modernismo degli anni Sessanta, questa ossessione sia il frutto di un conflitto, di un dissidio interiore. Maestro ed allievo, che vi compaiono, e che sono legati da un rapporto di reciproca, violenta seduzione sessuale, sono la rappresentazione di una interiorità scissa, conflittuale, costantemente inappagata, di uno scrittore che usa l’eros estremo come metafora della propria disperazione e della propria autoflagellazione.

Il rabbino canadese Aubrey L. Glazer, in una mia recente intervista con lui su Stanley Kubrick, ha definito sia Kubrick che Cohen come “cabalisti intuitivi” cioè artisti in grado di sintonizzarsi e attingere a visioni mistiche ma che non sono necessariamente appartenenti o vincolati alle tradizionali fonti ebraiche. Essi osservano il male, lo comprendono e in qualche modo riescono a placarne l’insaziabile appetito offrendogli dei sacrifici tramite la propria arte. È un discorso complicato per chi, come me, non è addentro alla kabbalah. Quel che è interessante è che il rabbino Glazer intravede in Cohen, e non in Kubrick, un frammento di luce. Ecco quanto mi ha detto:

Mi sentirei di suggerire che nonostante la natura maniaco depressiva del suo viaggio spirituale Cohen è sempre stato alla ricerca della luce provando a squarciare la nuvola dell’oscurità, la nuvola dell’inconsapevolezza, per permettere alla sua anima di riemergere verso una sorgente originaria fatta di luce. Nonostante tutte le sue lotte interiori è sempre rimasto, come dire, disperatamente speranzoso e questo gli ha veramente permesso di diventare un ebreo aperto all’universo, al cosmo. Un ebreo che ha praticato il buddismo con il suo maestro Roshi e che veramente cercava una via per permettere ai frammenti di luce di emergere, che fosse attraverso la scrittura delle sue canzoni, la poesia o la meditazione. “If It Be Your Will”, lo ha ammesso lui stesso, è stato uno dei pezzi più devozionali che mai abbia composto:

E portaci vicini

E fasciaci stretti

Tutti i tuoi figli qui

Nei loro stracci di luce

Tutti tirati a lustro

E poni fine a questa notte

Se è tua volontà

Se è tua volontà

(traduzione tratta da leonardcohen.it)

Ci sta dicendo che attraverso gli stracci di luce si può uscire dall’oscurità. Cosa sono gli stracci di luce? Se ne parla nella letteratura mistica riguardo alla prima coppia Adamo ed Eva nel giardino quand’erano vestiti in indumenti di luce e si conobbero vicendevolmente ad occhi aperti — niente affatto chiusi, ma ben aperti — e quegli stracci di luce si trasformarono in stracci di pelle ed essi divennero umani. L’intento di Leonard Cohen è di recuperare quegli stracci di luce.

Non è forse un caso allora che un famoso album di Leonard Cohen s’intitoli A New Skin for the Old Ceremony (Una nuova pelle per la vecchia cerimonia)? Cosa pensate dei ragionamenti di Aubrey L. Glazer a proposito di Leonard Cohen?

Cosa sono gli stracci di luce? Forse la possibilità di scampare al dolore individuale, sollevando la testa dalla merda, dal sangue, della vita. Sono l’apertura di credito, che durerà tutta la vita, allo Spirito, al Divino, per avvicinarsi al quale Cohen infilerà una sequenza di tentativi negli anni senza arrivare mai ad una soluzione appagante della sua inquietudine interiore.

Non siamo esperti di ebraismo, né dei dibattiti teologici che si svolgono nel suo seno. La nostra sensazione è che le parole del rabbino tendano, comprensibilmente, a ricondurre l’esperienza di Cohen nell’ambito di una ansia continua di divino la cui matrice è ebraica. Così facendo però si irrigidisce Cohen, perché per Cohen alla fine ha contato viaggiare, molto più che arrivare. E viaggiare per lui ha significato fermarsi in molti porti, anche troppi, e spesso in chiara contraddizione fra loro.

Ho notato che la figura di Giovanna D’Arco compare spesso nel repertorio di Cohen. Sapreste spiegarne il motivo?

Crediamo che Giovanna d’Arco simboleggi per Cohen l’esatto contrario di sé stesso, ovvero l’esempio storico concreto della dedizione assoluta ad una missione, terrena e divina, ad una vocazione. Senza compromessi. In “Last Year Man” si legge:

“Incontrai una donna, stava giocando

con i suoi soldati nell’oscurità

oh, uno ad uno ha dovuto dirgli

che il suo nome era Giovanna d’Arco.

Ero anch’io in quell’esercito, sì, ci rimasi un poco;

voglio ringraziarti, Giovanna d’Arco,

per avermi trattato così bene.

E sebbene indossi un’uniforme

non sono nato per combattere

tutti questi ragazzi feriti ai quali giaci vicino,

buonanotte, amici miei, buonanotte.”

La forza di Giovanna d’Arco, a specchio della debolezza di Cohen, non potrebbe esser meglio descritta che con una metafora militare. Giovanna è una combattente, l’io che compare nel testo invece non è fatto per combattere, la sua strada porta altrove. Nella canzone “Joan D’arc” Cohen sogna di dominarla, ed inscena così l’invidia per non essere, per non poter essere, così coraggioso e solitario come lei nella missione. Giovanna è l’incarnazione del suo mai risolto senso di colpa ed inferiorità rispetto alla missione intellettuale che poteva (e che egli sente di dirsi: doveva) compiere.

“Le fiamme seguivano Giovanna d’Arco

mentre veniva cavalcando attraverso il buio

nessuna luna per far risplendere la sua armatura

nessun uomo per condurla

attraverso questa notte piena di fumo

disse, — Sono stanca della guerra

voglio il tipo di lavoro che facevo prima

un vestito da sposa o qualcosa di bianco

da vestire sopra la mia enfatica brama -.

Sono felice di sentirti parlare in questo modo

sai che ti guardai cavalcare ogni giorno

e qualcosa in me desiderava vincere

una così fredda e solitaria eroina

– E chi sei tu? — lei disse aspramente

a colui nascosto nel fumo

– Io sono il fuoco -, rispose

– ed amo la tua solitudine, amo il tuo orgoglio -.

– Fuoco, rendi il tuo corpo freddo

ti sto per dare il mio da tenere –

disse questo mentre vi entrava

per essere la sua unica

per essere la sua sola sposa

ed in profondità dentro il suo ardente cuore

lui prese le polveri di Giovanna d’Arco

e alto sopra gli ospiti del matrimonio

appese le ceneri del suo vestito da sposa.

Fu in profondità nel suo ardente cuore

che prese la polvere di Giovanna d’Arco

e lei chiaramente capì

che se lui era il fuoco

lei doveva essere il legno

vidi il suo fremito, vidi il suo pianto

vidi la gloria dei suoi occhi

io stesso desidero amore e luce

ma deve essere così crudele, e così luminoso?”.

Ritengo che non si renda abbastanza giustizia alle doti umoristiche di Leonard Cohen. In una canzone del 2014, “Almost Like the Blues”, Cohen ironizza sulle stroncature ricevute dai critici, paragonandole alle peggiori catastrofi mondiali. In “There Is a War” lei dice a lui “tu lo chiami amore, io lo chiamo servizio in camera”. Oppure mi piace come cede alla tentazione alcolica in “That Don’t Make It Junk”: “ho combattuto contro la bottiglia / ma ho dovuto farlo da ubriaco”. Poi ci sono i suoi rifacimenti dei testi di “I’m Your Man” e “Hallelujah” nelle versioni live. Non mi dilungo oltre e vi chiedo soltanto se a volte trovate spassosi i suoi versi, come capita a me.

Non li definiremmo spassosi, ma tragicamente ironici. Cohen trasuda dolore e colpa anche mentre parla del miglior orgasmo avuto nella vita.

Cohen ha flirtato pericolosamente con culti poco ortodossi come Scientology, nel brano “Famous Blue Raincoat”, e la setta dei Dunmeh composta dai seguaci di Sabbatai Zevi, il “falso” messia che dopo essersi proclamato tale nel 1665 abiurò la propria fede ebraica per convertirsi all’Islam. Secondo alcune versioni l’apostasia fu solo un’operazione di facciata e molti suoi proseliti non l’hanno comunque abbandonato. Reb Yakov Leib Hakohain, lo scomparso fondatore e leader dei neo-sabbatiani in California, annoverava Cohen tra i suoi amici e seguaci. Come si spiega quest’attrazione di Cohen verso filosofie di vita che risultano piuttosto controverse?

Come si diceva, è naturale e tortuosa direzione di ricerca di molte anime tormentate: vagare alla ricerca di qualcosa che plachi i loro moti e dolori. Cohen è costantemente alla ricerca della cassazione del dolore. Con l’alcol prima, con le filosofie orientali poi persegue un solo fine: annullare la sofferenza. Che lo strumento sia l’ebraismo ortodosso o Scientology, esso diventa pressoché indifferente, o meglio esclusivamente funzionale alla ricerca.

Infine alcuni consigli di lettura. Vi sarei grato per una guida pratica, possibilmente in ordine cronologico, dei romanzi e delle raccolte di poesie di Cohen pubblicate sia in lingua originale che in italiano. Questo perché alcuni volumi sono di difficile reperimento su internet oppure venduti a prezzi esorbitanti. Non è mai ben chiaro a quale periodo si riferiscano le varie antologie in commercio e se siano davvero esaustive.

La casa editrice “minimum fax” ha fatto un lavoro molto importante con le opere di Cohen: i due romanzi assieme e poi numerose raccolte di poesie. Non è tutto, ma è un materiale molto abbondante, assolutamente sufficiente per farsi un’idea. Consiglieremmo senz’altro il romanzo Il gioco preferito, vero e proprio romanzo di formazione, che ci sembra oggi più fresco e riuscito di Beautiful Losers, gravato da troppo e datato sperimentalismo (per quanto sia considerato un testo chiave del postmodernismo canadese). Per la poesia, il terzo volume Poesie/3 edito da “minimum fax”, che contiene Morte di un Casanova e Libro della misericordia, due delle sue più ampie e potenti raccolte di versi di Cohen. Ci troverete, a nostro avviso, uno scrittore di buon livello ma non eccelso, che ebbe presto chiaro che solo con la musica avrebbe potuto toccare le stelle.

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Marco Zoppas
Mitologie a confronto

Insegnante e traduttore. Autore dei libri “Ballando con Mr D.” su Bob Dylan, “Da Omero al rock” e “Twinology. Letteratura e rock nei misteri di Twin Peaks”