Why Bob Dylan Matters

Marco Zoppas
Mitologie a confronto
13 min readJul 15, 2019

Un’intervista con Richard F. Thomas

Viviamo in tempi interessanti. Richard Thomas, filologo e professore all’università di Harvard, ed io concordiamo su questo punto: essere contemporanei di Bob Dylan è un privilegio. Come trovarsi all’epoca di Shakespeare o di Eschilo quando mettevano in scena le loro opere teatrali. Vorrei aggiungere che questa consapevolezza comporta alcune responsabilità da parte dei dylanologi attuali. Gli studi sul canzoniere di Dylan fanno parte di un fenomeno destinato a crescere in maniera esponenziale. Non sarebbe male se i suoi contemporanei riuscissero fin da subito ad azzeccare le giuste analisi dell’opera e porre solide basi prima che il corso della storia inevitabilmente offuschi la prospettiva delle generazioni a venire.

Thomas è stato un docente coraggioso. In tempi non sospetti — più di una decade prima dell’assegnazione del Nobel a Bob Dylan — combatté la sua battaglia con l’amministrazione universitaria, e vinse. Partendo dall’assunto base che dal punto di vista artistico Dylan aveva ormai da tempo aderito con pieno merito al club degli antichi poeti greci e latini, Thomas decise di proporre un seminario su Dylan aperto alle matricole di Harvard. Fu, con ogni probabilità, il primo esperimento di questo genere mai effettuato. Nonostante qualche opposizione conservatrice il seminario fu approvato dalla commissione di facoltà. Ma non c’è motivo di agitarsi, Thomas sapeva che i classici all’inizio si presentano sempre come cultura popolare, per poi essere accettati nei piani più alti.

Ma non è tutto. Nel 2017 Thomas ha pubblicato un libro che a mio avviso rimane in assoluto il miglior saggio mai scritto sull’opera di Dylan: “Why Bob Dylan Matters”. Thomas esamina magistralmente il modo in cui Dylan si riappropria dei poemi della classicità nelle sue canzoni per giungere alla conclusione che egli faccia parte “di quella corrente classica le cui fonti risalgono alla Grecia e a Roma e che scorre giù attraverso gli anni, rimanendo importante oggi, senza costrizioni di tempo o luogo”.

“Don’t you dare miss it”: non perdetevi questo libro, è il mio sentito consiglio.

Richard, nel tuo seminario su Dylan tu e i tuoi studenti rispettate la cronologia ma esplorate anche il modo in cui i temi delle canzoni interagiscono nel corso del tempo. Come dici nel tuo libro, “esse sono parte di un sistema più ampio che mette in connessione le canzoni e gli album fra di loro” lungo un vastissimo repertorio. Che cosa ti attrae in questo tipo di approccio?

Proviene in parte da anni e anni di letture e riflessioni su sistemi letterari su vasta scala come la poesia epica e la tragedia, composti da un insieme di parti che si compenetrano lungo centinaia e migliaia di versi. Nell’Eneide di Virgilio, all’inizio del nono libro, assistiamo alla morte del giovane eroe Turno trafitto dalla spada di Enea. Un momento agghiacciante di bruta violenza nella fondazione di Roma e dell’impero. Giunone, regina degli dei e nemica di Enea, manda Iride l’arcobaleno presso Turno per consegnargli un messaggio che si rivelerà essere ingannevole. Quando leggo questi versi, non posso non ritornare con la mente ad un episodio accaduto 3000 versi prima nel quarto libro del poema, quando Giunone aveva mandato lo stesso messaggero per liberare l’anima di Didone, regina di Cartagine, che si suicidò con un’altra spada, quella che Enea le aveva consegnato in un momento molto più felice e prima di abbandonarla.

Le canzoni di Dylan si espandono in maniera simile oltre la propria dimensione iniziale. Per esempio quelle contenute in Blood on the Tracks: così simili ai racconti di Cechov per stessa ammissione di Dylan, forse simili a frammenti di un romanzo, più che la somma delle sue parti. E così lei gli disse “entra, ti offrirò riparo dalla tempesta” e giusto prima “accese un fornello della cucina” e qualche anno prima i due “avevano avuto una separazione”. Questa chiave di lettura funziona anche attraverso periodi più ampi del canzoniere di Dylan. Quando ho sentito per la prima volta Red River Shore, quello splendido outtake da Time Out Of Mind del 1997, come per molti altri ascoltatori esso ha subito riportato a galla i miei primi ricordi in fatto di musica, e cioè la vecchia struggente canzone da cowboy Red River Valley che risale al diciannovesimo secolo a volte con questo a volte con altri titoli. I cowboy se ne stanno sul fiume rosso nel sud del Texas. Ma alcuni pensano che la canzone abbia origine dalla “ribellione del fiume rosso”, la canzone di un soldato in procinto di lasciare la donna che ha incontrato sul fiume rosso a Manitoba nel nord in quell’epoca. “Non riesco a rinunciare al ricordo / di colei che per sempre amerò / tutte quelle notti fra le sue braccia / con la ragazza della riva del fiume rosso”. Tutto questo mi ha riportato con la mente al paese del nord, dove il fiume scorre verso nord attraverso una diversa Red River Valley in Minnesota, negli inverni “quando i fiumi gelano e le estati terminano”. Che Dylan stesse invitandomi a pensare a Girl of the North Country oppure no poco importa. Io collego le due canzoni attraverso il suo canzoniere. Il collegamento deve avere delle basi, come in questo caso, ma non ha un valore esclusivo. Alcuni blog su Dylan e altri scritti cercano invece di costringere le canzoni entro associazioni e significati univoci.

Capita talvolta che Dylan in performance crei o rafforzi queste continuità. Nel mio libro interpreto la scena del fallito tentativo di approccio in Highlands del 1997 come una reminiscenza del topless bar in cui rammentava di essersi recato nel 1975 in Tangled Up in Blue, pur con esiti ben diversi. Il fatto che Dylan abbia inserito Highlands, le prime due volte in cui l’ha eseguita dal vivo, appena dopo Tangled nella setlist mi soddisfa appieno, e conferma la validità del collegamento. Lo si può vedere fare la stessa operazione con i versi su Tempest che citano Ulisse dall’Odissea. C’è un motivo ben preciso per la collocazione di Pay In Blood e Early Roman Kings nei concerti dello scorso anno, entrambe cantate mentre il busto di Pallade Atena — Minerva per gli antichi romani — osserva affiancata da Oscar che ovviamente non può che approvare la scelta del consueto brano d’apertura Things Have Changed. Nessun altro sarebbe in grado di fare questo, se non altro per via della vastità, la profondità e le complessità del canzoniere a sua disposizione.

Essendo italiano mi ha molto lusingato l’importanza data in “Why Bob Dylan Matters” al ruolo dell’Italia e di Roma in particolare nella prospettiva universale e nell’immaginario di Dylan. Alcune delle tue pagine più belle sono dedicate al concerto tenuto all’Atlantico di Roma il 6 novembre 2013 (detto per inciso, io c’ero quella sera!). Come ti spieghi questa affinità con l’Italia?

Beh, come ben sai provo a fare questo nel terzo capitolo “Dylan and Ancient Rome: ‘That’s where I was born’” il cui titolo si riferisce ad una canzone di Dylan mai pubblicata che lui cantò al Gerdes di New York l’8 febbraio 1963 al ritorno dal primo dei suoi molti viaggi in Italia e a Roma. La prima strofa termina con “Sto ritornando a Roma / è lì che sono nato”. Perché Roma? Per via della sua iscrizione al club di latino e alle lezioni di latino intraprese nel 1957, quando guardava film come Giulio Cesare e La Tunica, sentendosi come se si trovasse in quel momento al centro del mondo mentre interpretava il ruolo di un centurione romano in una rappresentazione della passione recitata a scuola, come narra in Chronicles.

Ritengo che Dylan avesse stabilito il suo connubio con Roma tanto tempo fa a Hibbing, fin dai primordi. Così feci io, all’altro capo del mondo a Auckland in Nuova Zelanda. Roma ha questo enorme potere. Fin dall’inizio delle sue visite e dei suoi concerti a Roma constatò che quei resti dell’antichità erano ancora il centro di tutto, perché lì tutte le strade confluiscono. Non si ha questa stessa sensazione ad Atene e in nessun’altra città. Per questo motivo la città di Roma ha un ruolo così fondamentale nelle sue canzoni, più di qualsiasi altra città al mondo inclusa New York. Ciò avviene sin da prima di When I Paint My Masterpiece fino ad arrivare a Scarlet Town, come sostengo, dove le strade (di Roma?) hanno nomi che non sai come pronunciare. Roma ha il sapore dell’antico, e a Dylan piacciono le cose antiche. Scrivo anche della conferenza stampa rilasciata a Roma nell’estate 2001 in vista dell’uscita di “Love and Theft” il successivo 11 settembre. Lui inizia parlando dell’età del ferro nella quale viviamo e delle precedenti età dell’oro, argento e bronzo. Dell’età del bronzo dice che “la sentiamo ancora”. Gli intervistatori non se ne accorgono ma lui sta chiaramente parlando di Virgilio, i cui versi stavano per fare il loro ingresso nella canzone Lonesome Day Blues del nuovo album.

Già, i concerti dell’Atlantico. Sei stato fortunato ad esserci. Le due scalette con tutte quelle canzoni che non stava suonando in quel tour e nemmeno nei tour precedenti, molte delle quali non ha più cantato da allora. Come ho già detto quello è stato il suo tributo a Roma, canzoni con cui ha voluto omaggiare i romani, te incluso. Nel repertorio di quelle due serate ci sono state due canzoni che egli scrisse durante un viaggio in Italia nel gennaio 1963, non in cerca di Suze Rotolo dato che a quanto pare lui sapeva che lei era già ritornata dal suo semestre etrusco, bensì pensandola e pensando alla sua assenza, nonché forse anche all’assenza di altre persone vere o immaginarie. In quel periodo scrisse Girl of the North Country e Boots of Spanish Leather, come ebbe modo di raccontare al suo biografo Anthony Scaduto anni or sono. Io sono del parere che ha voluto cantarle per voi, in quel di Roma nel 2013. È interessante notare che recentemente ha voluto eseguirle nei paesi del nord, Girl a Stoccolma e Boots a Oslo, quest’ultima per la prima volta dal concerto all’Atlantico di circa sei anni fa.

Ogni volta che ci scambiamo email per discutere le canzoni di Dylan c’è sempre per me qualcosa di nuovo da imparare. Per esempio una volta mi hai detto che tu non pensi affatto che Workingman’s Blues #2 sia una canzone pessimistica.

Ritengo che le persone facciano bene a vederla come una canzone intrisa di malinconia, persino pessimismo. La melodia e la strumentazione lo comunicano in maniera struggente. Come potrebbe essere altrimenti se tuttora risentiamo dell’impatto del collasso finanziario del 2008 che la canzone di Dylan scritta nel 2006 sembra aver profetizzato? Tu e altri come te avete ragione nel pensare che in qualche modo corregga il tiro di Working Man Blues di Merle Haggard. Al di là del linguaggio semplice tipico della country music, l’ottimismo di quest’ultima canzone — un ottimismo alla Coal-Miner’s-Daughter (“non ho mai chiesto il sussidio pubblico”, “continuerò a lavorare finché le mie mani me lo consentiranno”) — non potrebbe mai entrare a far parte di una canzone di Dylan. The Ballad of Hollis Brown dimostra cosa ti può succedere quando le cose non vanno per il verso giusto e tu hai nove figli, come nella canzone di Haggard, o ne hai cinque da sfamare.

Ma definirei ottimistica la conclusione dell’ultima strofa della canzone di Dylan: “ho un abito nuovo di zecca e una moglie altrettanto nuova / posso vivere di riso e fagioli”. Workingman’s Blues #2 mi ricorda una descrizione delle canzoni di Blood on the Tracks fatta da Pete Hamill: “sono le canzoni di uno che conosce l’arte di sopravvivere”. Per quanto riguarda questa canzone dipende dalla versione che scegli, benché i due versi appena citati non cambino mai, e dipende se vuoi far entrare in gioco l’intertestualità della canzone, dove inizialmente si ha a disposizione la versione in studio incentrata sul poeta in esilio da Roma. Ma in maniera sempre più evidente, da quando ha iniziato ad eseguirla dal vivo, la voce di Ulisse ha sostituito quella di Ovidio. Ne parlo nel mio libro. Bisogna dare uno sguardo a Bob Dylan, The Lyrics 1961–2012, in parte editate dallo stesso Dylan. Al posto dei bellissimi versi presi da Ovidio mentre si trova in esilio, “nessuno può mai sostenere / che ho impugnato armi contro di te”, ora canta “conficcherò la mia lancia con un colpo diretto / attraverso la tua colonna vertebrale”, versi presi dall’Odissea di Omero. Chi è questo superstite archetipico, in viaggio da vent’anni, che sopravvive a tutto quello che gli uomini e gli dei gli scagliano contro? Ulisse naturalmente, e Bob Dylan diventa Ulisse. Lo conferma nella sua lectio magistralis del Nobel nel giugno 2017, dove il poema è nominato come uno dei tre libri per lui più formativi. “L’Odissea è un grande libro, i cui temi si sono fatti strada nelle ballate di molti autori di canzoni (…) anche nelle mie canzoni”. Workingman’s Blues #2 è una di queste, e in parte ciò la rende una canzone di sopravvivenza umana. “Guardami con le mie spoglie di guerra / che cosa ho mai vinto?” La sopravvivenza, ecco cosa. Lo stesso discorso lo troverai in Pay in Blood: “come sono sopravvissuto a così tanti colpi”, un altro furto dall’Odissea, perciò sì, un messaggio positivo al livello più essenziale.

Ho la sensazione che potresti non concordare con me se ti dico che Dylan è un po’ come la punta dell’iceberg o “il monte Everest”, come lo definì Leonard Cohen una volta. Nel senso che altre leggende del rock come Mick Jagger sono tuttora sottovalutate dal punto di vista letterario e dovrebbero invece essere considerate dei poeti. In altre parole, Dylan per me è semplicemente il migliore tra i suoi colleghi mentre ho l’impressione che a tuo modo di vedere egli sia un’eccezione nel circo del rock.

Mi piacciono molto autori e cantanti più o meno a lui contemporanei, particolarmente quelli appartenenti agli anni sessanta e settanta forse perché ero giovane a quel tempo e abbiamo tutti la tendenza ad apprezzare la musica della nostra gioventù, anche se va detto che i giovani di oggi ascoltano Dylan come ho la fortuna di appurare ogni quattro anni grazie al mio seminario su Bob Dylan per le matricole universitarie. Per quanto riguarda i suoi colleghi ce ne sono tanti che apprezzo, a partire da Leonard Cohen. Basta ascoltare Mick mentre legge Adonais, la poesia di Shelley, in onore dello scomparso Brian Jones a Hyde Park nel 1969 per capire che abbiamo a che fare con un poeta. Ma io vedo solo Dylan come parte della tradizione letteraria che a me interessa, composta da Omero, Virgilio, Dante, Shakespeare, artisti di un’altra natura direi. Uno dei pastori di Virgilio al ritorno dalla sua prima visita a Roma declama che nella sua semplicità era solito pensare che la differenza tra il suo villaggio e Roma fosse solo quella che esiste tra un cucciolo e un cane o tra i piccoli capretti e le loro madri. E invece adesso ha capito che Roma si erge rispetto alle altre città “quanto l’alto cipresso tra i docili viburni”. Stiamo parlando di una specie differente, dove dopotutto risiede il puro genio. Eccoti ancora un riferimento a Roma, amico mio romano.

In un’intervista una volta Dylan ha descritto se stesso come “una persona che si sente come se stesse camminando per le rovine di Pompei tutto il tempo”. Sembra possedere una prospettiva originale, quasi quantistica, delle categorie di spazio e tempo nelle sue composizioni. Le tue visite all’archivio Bob Dylan di Tulsa ti stanno svelando qualcosa riguardo alle sue tecniche di composizione?

Questa è una domanda enorme. Non penso ci sia una singola tecnica. Sono stato all’Archivio un certo numero di volte. Mi sono “recato ad ovest” e ci andrò ancora. Nella postfazione del mio libro parlo di come la canzone Tempest, sull’affondamento del Titanic, è stata costruita. C’è una cartella nell’Archivio contenente carta intestata di hotel in un arco temporale della durata di un mese durante l’anno 2010, da Istanbul alla Spagna, dove possiamo vedere la canzone progredire da mero elenco alfabetico di parole a brano quasi compiuto. Fin dall’inizio lui ha già deciso la melodia. L’ha presa dalla canzone The Titanic della Carter Family insieme ad alcune parole ed uno o due versi, tra cui quello d’apertura “la pallida luna sorse nella sua gloria”. Sta ovviamente anche pensando al celeberrimo film del 1997, ma poi la sua immaginazione e la sua scrittura prendono il sopravvento. È davvero interessante.

Ritorniamo ai classici. In “Why Bob Dylan Matters” proponi una nuova interpretazione per il concetto di Dylan della “trasfigurazione” che ha a che fare con gli antichi poeti greci e romani, e persino con una misteriosa biblioteca romana. Un’altra parola per trasfigurazione potrebbe forse essere “intertestualità”. Credo che questa sia una parte essenziale del tuo messaggio e ti sarei riconoscente se tu la potessi spiegare.

Ci provo. Uno dei tanti impagabili vantaggi dell’essere un classicista che lavora sulla poesia della Grecia e di Roma antica e sulla letteratura che da lì sgorga fino a raggiungerci e che ora include le canzoni di Bob Dylan, è quello di poter collegare canzoni e poesie nel corso dei secoli. Ci si raffronta con quello che il genio umano produce ai più alti livelli artistici ed estetici in diverse lingue e culture. Tutta l’arte è imitazione ed emulazione di quanto avvenuto prima, ciò che i greci chiamavano “mimēsis” e “zēlōsis”. Essa si immette in una tradizione e compete con quanto è avvenuto prima. T. S. Eliot intendeva esprimere proprio questo concetto quando disse “i poeti immaturi imitano, i poeti maturi rubano”. Per lo stesso motivo Dylan dà inizio a Tempest con un verso rubato. A noi viene richiesto di accorgerci del furto, e della melodia rubata, di paragonare le due versioni e scoprire che la canzone di Dylan si inserisce in una tradizione e allo stesso tempo supera quella tradizione. Una canzone folk di sette strofe diventa un’epopea di 45 strofe.

Nel mio ramo si tende a definire come intertestualità questo tipo di processo. Io mi occupo del modo in cui in recenti interviste, nella lectio magistralis ed in altri contesti Dylan ha saputo straordinariamente trasformare questo intenzionale processo compositivo in un processo mistico o spirituale, la “trasfigurazione”. C’è senza ombra di dubbio un’allusione alla trasfigurazione di Gesù narrata nei vangeli di Matteo, Marco e Luca quando sulla montagna il volto di Gesù brillò, le sue vesti divennero candide grazie al potere di Dio, e Mosè ed Elia gli si presentarono davanti per parlargli. Penso sia questo il motivo per cui Dylan dice a Mikal Gilmore nell’intervista del 2012 con Rolling Stone di aver attinto le sue informazioni riguardo alla trasfigurazione presso “una biblioteca di Roma”. Ma Roma è presente anche per via dell’intertesto relativo ai pagani Virgilio e Ovidio che un tempo vissero in quella città. Nel 2006 dopo l’uscita di Modern Times con più di una ventina di versi di Ovidio sparsi nelle canzoni, Dylan dice testualmente a Sean Lethem che le canzoni “sembravano contenere una presenza antica” mentre le cantava, “quasi si trattasse di reincarnazione”.

Questo tipo di metafora mistica ha essa stessa origini molto antiche. Ennio, il padre della poesia latina, fu il primo a scrivere poesie epiche nella metrica di Omero. Ennio racconta di una sua conversazione con Omero avvenuta in sogno. Omero gli dice che la sua anima è ora trasmigrata in Ennio con l’ausilio di un pavone secondo il principio pitagorico della trasmigrazione delle anime. Come si suol dire, tutta ‘sta cazzo di roba mica te la puoi inventare.

Versione inglese qui

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Marco Zoppas
Mitologie a confronto

Insegnante e traduttore. Autore dei libri “Ballando con Mr D.” su Bob Dylan, “Da Omero al rock” e “Twinology. Letteratura e rock nei misteri di Twin Peaks”