FaceBook alle forche caudine delle aziende o imprese al guado di FaceBook?

Ennio Martignago
Benessere, Lavoro e Innovazione 
7 min readDec 12, 2015

La versione “at Work” di Facebook ha superato la fase pilota ed è pronta a misurarsi con l’accesso libero per tutte le imprese.

Che cosa vuole dire, in pratica?

1) In genere ogni azienda è titolare di un proprio dominio (ad esempio, nasa.com). La registrazione a Facebook at Work per quel dominio creerà un Gruppo Nascosto all’interno della stessa più nota piattaforma pubblica di Facebook. Questo gruppo non potrà vederlo nessuno che non disponga di un indirizzo e-mail appartenente a quel dominio aziendale. Quando Mario Rossi vorrà accedere al FB@W della sua azienda (sempre usando l’esempio di nasa.com) dovrà registrarsi come mario.rossi@nasa.com che lo farà accedere al gruppo nascosto dell’azienda Nasa.

2) Al momento non è possibile pubblicare in una time line personale — e meno male, mi viene da aggiungere. Tuttavia chi è abituato “all’altro” farà fatica a capire che è bene pubblicare sempre in un gruppo. Forse sarebbe stato interessante introdurre le pagine per incentivare il personal branding che nelle aziende più grandi e il più delle volte anche malate di mentalità burocratica sarebbe un toccasana per la leadership diffusa e per la meritocracy trasparente.

3) Chi è titolare di un account Facebook — che poi potrà benissimo evitare di usare — vedrà comparire accanto a quello personale, anche l’accesso aziendale potendo passare dall’uno all’altro con estrema facilità.

4) Con gioco di parole la chat è stata ridefinita “Posta” per spingere alla sostituzione di un metodo di comunicazione obsoleto con quello più recente del messaging (riducendo in questo modo l’eccesso di applicativi aziendali) e per incentivare l’uso della condivisione al posto di quello degli allegati postali.

5) A loro volta i gruppi potranno essere di tre tipi, Pubblici, Privati (noti, ma di libero accesso solo agli iscritti) e Nascosti (invisibili a meno di non farne parte); con diverse opzioni di amministrazione compreso anche delle template di pre-configurazione utili ai meno pratici per favorire impostazioni più rapide a seconda che si opti per Progetti o Gruppi di lavoro, Gruppi tematici, Bacheche di Annunci, Comunità estese.

Stato dell’arte

Facebook at Work è la prima startup all’interno di Facebook e il suo quartier generale è lontano dagli USA, a Londra. Al momento pare siano 300 le società che si sono interessate a Facebook at Work durante la fase di beta testing (che vale la pena ricordare essere ancora in corso per qualche settimana o mese). Alcune di esse hanno stipulato un contratto definitivo. Fra queste Royal Bank of Scotland (RBS) e il Club Med.

Julien Codorniou, director of global platform partnerships e leader del team Facebook at Work, spiega di aver trascorso i primi 11 anni in azienda a sviluppare i collegamenti fra la vita personale dei dipendenti e quella aziendale per allontanarsi dall’idea obsoleta del “posto” di lavoro. Una rivoluzione copernicana disponibile potenzialmente per “3 miliardi di persone, alcune delle quali, sarebbe meglio dire molte di esse, non hanno mai avuto accesso a un’impresa moderna con priorità per la mobilità”.

Ora come ora, “at Work” rappresenta per Facebook un’occasione per aumentare il bacino di utenza e soprattutto un linguaggio universale della socialità digitale (e forse non solo, visto come il social sta cambiando le nostre “menti”).

Il business dunque è tutto qui? Julien lascia aperta la questione come se ci si stessa pensando in base a come lo strumento evolve spontaneamente. La soluzione più verosimile consiste nell’offrire un accesso di partenza libero e gratuito, per adottare il criterio di fare pagare gli addons, come i supporti, gli strumenti di analisi e soprattutto l’integrazione delle altre piattaforme aziendali e di collaborazione come ad esempio Microsoft Azure, Office 365, Google Apps, Box, Dropbox e così via. Moltissimo ancora da inventare, insomma.

Per chi e come?…

Insomma, è tutto oro quello che luccica?

Naturalmente, no.

Sarebbe sciocco e controproducente per lo strumento stesso affermarlo.

In primo luogo c’è da considerare che proprio quello che è il principale appeal dello strumento, ovvero la consuetudine all’utilizzo sul piano ludico-comunicativo in grado di abbattere gran parte dei tempi di apprendimento, può trasformarsi nel pericolo maggiore. E non tanto come pensano i qualunquisti, perché porta a giocare invece di lavorare, quanto perché riduce la possibilità di un utilizzo innovativo come invece tutti quelli che tengono ad esso potrebbero sperare. In altri termini, a forza di usare solo un martello per ragionare, si finirebbe per trasformare tutti gli argomenti in chiodi. Un po’ quello che è capitato con SAP, che per standardizzare il suo utilizzo ha finito per appiattire le capacità di immaginare organizzazioni amministrative fuori dagli schemi rigidi meccanicistici più vetusti.

Tanto per cominciare, il problema principale è quello di uno stallo fra aspettare di avere un progetto per partire con l’introduzione in azienda finendo per strangolare i veri vantaggi dello strumento, oppure lasciare che le cose vadano per il loro verso andando a sfascirsi contro il muro delle banalità tipiche dei social di massa.

Poi c’è da dire che un social network come questo ha poco se non alcun senso in imprese di modeste dimensioni dove un post-it e una macchina del caffè sono di maggiore utilità; d’altro canto le grandi imprese spesso fortemente burocratizzate hanno troppo poca intelligenza per sfruttare a dovere le potenzialità di questa piattaforma.

Dell’uno e dell’altro problema intravedo solo un tipo di soluzione: far sì che persone intelligenti prendano in mano delle nicchie del mezzo per farlo evolvere lasciando che il mainstream impazzi o si spenga di morte naturale. Anche qui, è una contraddizione in termini che un manager stabilisca quali siano le persone intelligenti. Non per niente, se ne fosse capace non farebbe il manager di una grande azienda. L’unica possibilità è fidarsi di un’auto-organizzazione a partire da team innovativi. Anche qui, l’innovazione non depone per la grande impresa: si pensi ai celebri motti dei CEO di IBM, la stessa che per sbaglio ha lasciato uno spazio evolutivo diverso dalle schede perforate o che ha diffidato del personal computer per poi vederselo soffiare dalla società cui aveva appaltato lo sviluppo rubacchiato del sistema operativo.

Insomma, bisognerebbe limitarsi a creare dei macro-contenitori e lasciare che per selezione naturale questi andassero avanti, ben sapendo che un giorno occorrerà confrontarsi con la meritocrazia se non si vorrà che questi team si facciano furbi diventando startup da cui andare a comprare (ma questa potrebbe anche essere una soluzione per facilitare il collocamento esterno — anche se non dovrebbero essere quelli da ricollocare!).

Idee per i bricoleur

Da dove partire?

Intanto comincerei con le passioni. Come insegnavano Michel Authier e Pierre Lévy, se vuoi inventare qualcosa di nuovo non devi chiedere alle tue risorse di replicare quello che fai bene, ma di incuriosirti con quello che loro amano mostrare di saper fare. Non è cosa semplice da trovare, ma se Steve Jobs non avesse girato per i corridoi di Cupertino sconsolato per quello che vedeva non avrebbe mai scoperto Jony Ive e Apple avrebbe avuto tutta un’altra storia — e con essa anche le nostre tecnologie.

Quindi mi focalizzerei sulle comunità di appartenenza e di pratica per rafforzare lo spirito aziendale e le motivazioni dei dipendenti, marcatamente gli impiegati. Mi concentrerei sulla condivisione delle best practice e riformerei l’idea stessa di elearning, dando continuità alle esperienze dirette con le “aule” social, come si faceva ancora ai tempi delle BBS con il grande battistrada di First Class.

Sarebbe bene imparare ad usare la folksonomy e quindi il ricorso ai tag e alle menzioni e classificare a posteriori i materiali che vengono creati spontaneamente: che cosa appartiene alla manutenzione dell’operatività, alle idee commerciali e di marketing, alla comunicazione e all’informazione, all’apprendimento e all’organizzazione, al brand aziendale e a quello personale.

Questa classificazione andrebbe fatta a posteriori, in base a quanto accade, invece che a priori secondo la logica del martello di cui sopra.

Dopo di che, ci dovrebbero essere degli osservatori di diversa fonte, interna e esterna, esperti della materia e meta-competenti (in base alle relazioni o ai processi), che confrontino il ranking diffuso con quello dei quality adopters, incrociandolo con le linee strategiche e cognitive per adattare, non solo i gruppi ma i lineamenti stessi.

Soprattutto, mi guarderei bene da procedere per compartimenti stagni, lasciando il social ai giochi e le riunioni per le cose serie: la permeabilità fra i due ambienti e la capacità di sostenerla sono il vero indice delle possibilità di cambiare pelle per i dinosauri di tutte le ere geologiche.

Insomma, non tutti i FaceBook vengono per nuocere, ma come tante altre cose del mondo informatico, possono permetterci di mandare i razzi su Marte o di radere al suolo le città.

Per natura mi impongo l’ottimismo: questo non me lo aspetto dai social o dal management. Caso mai dal cuore e dagli amici.

P.S.: se sei interessato alla questione, prendi in considerazione di partecipare al gruppo aperto su Facebook.

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Ennio Martignago
Benessere, Lavoro e Innovazione 

Master of curiosity and soul sharing, “circlesquaring man” and builder of impossible balancing; ph. d. in psychesoterology, freedomosophy and managemanarchy