I sogni come medicina

Sull’arte di dialogare con ciò che è misterioso per riconnetterci con il senso più profondo di chi siamo.

Letizia Piangerelli
Mozaic
15 min readApr 10, 2021

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La nostra è una società che dà molta importanza allo stare svegli. L’uso efficiente del tempo sembra dipendere da ciò che riusciamo a fare, raggiungere, ottenere nelle ore in cui ci muoviamo per il mondo con il cervello acceso e i sensi all’erta, condividendo ricette e stratagemmi per restringere al massimo le ore improduttive, comprese quelle in cui fisiologicamente diventa inevitabile dormire.

Prima che quest’anno di rallentamento forzato mi insegnasse bruscamente l’importanza dei momenti “vuoti”, non avevo mai preso in considerazione lo spazio del sonno come un territorio fertile dove coltivare i semi di una vita più piena e creativa. Mentre, come scrive Rubin Naiman, sognare è un modo gentile e ricettivo di vedere. Secondo le sue ricerche, nell’atmosfera rarefatta dei paesaggi onirici la mente è più curiosa che intenzionale, più empatica che giudicante, e più presente che nella veglia, rivelando “il mondo dietro il mio mondo, e il mondo dietro il mondo.”

In questa chiacchierata con Ilaria Emiliani — psicoterapeuta junghiana e guida sensibile al linguaggio dei sogni — abbiamo ripercorso le origini del lavoro con i sogni e di come possa diventare una pratica accessibile a tutti, utile a rintracciare risorse per le sfide che affrontiamo da svegli, nel lavoro e nella quotidianità.

“I sogni aprono la strada alla vita, e determinano chi sei senza che tu comprenda il loro linguaggio. Vorresti imparare questo linguaggio, ma chi puà insegnarlo e chi apprenderlo? L’erudizione da sola non basta; c’è una conoscenza del cuore che offre una comprensione più profonda. La conoscenza del cuore non è nei libri e non può essere trovata nella bocca di nessun maestro, ma germoglia dentro di te come un seme verde dalla terra scura.” C.G. Jung — Il Libro Rosso 1922

Diventare ricettivi e abitare con curiosità quello spazio liminale tra la veglia e il sonno è una pratica che ha la stessa qualità dei giochi seri. In grado cioè di espandere la nostra percezione e allenare quel linguaggio analogico che da sempre ci consente di stare in contatto con la confusione, l’ambiguità e il mistero, senza bisogno di spiegarli e ridurli a sterili interpretazioni. Un modo fertile per ri-connetterci con un senso più mobile e profondo di chi siamo, come individui e come collettività.

Di seguito l’audio della nostra chiacchiarata, e la sua trascrizione.

Trascrizione dell’intervista (editata)

Letizia: Che spazio ha avuto l’invisibile nella tua infanzia? Qualsiasi significato tu attribuisca alla parola invisibile.

Ilaria: Ricordo che da piccola volevo fare il prete e questo è stato per me fonte di grossi traumi, credo che fondamentalmente sia stato l’origine del mio femminismo. E’ stata una cosa molto frustrante all’inizio quando ho scoperto che dato che ero nata dotata di utero mi erano precluse alcune situazioni, ma in realtà poi è stato un inizio molto molto fertile. L’invisibile quindi mi ha sempre chiamata, iniziando dal mio primo mazzo di tarocchi a nove anni, dopo che ho scoperto che non potevo fare il prete (risate). Per me è un interesse per tutto ciò che va oltra la vista organica, per qualcosa che ci connette alla rete in cui siamo immersi, diciamo così.

Letizia: Prima di entrare a fondo nei temi che mi piacerebbe esplorare con te oggi, vorrei chiederti di presentarti. Se ti chiedo “chi sei”, come ti piace raccontarti?

Ilaria: Intanto la domanda “Chi sei” mi piace un casino, la trovo una domanda molto spirituale, molto profonda. Perché ci mette subito di fronte ai ruoli che ci piace rappresentare, racconta i vestiti con cui entriamo nel mondo. Mi ricordo che la prima volta che mi hanno fatto questa domanda io ho detto “oddio…” (risate) … è molto ampia…quindi, mi piace intanto dire che sono un essere in cammino. In questi ultimi anni nella mia vita ho percorso vari approfondimenti, varie possibilità. Tra cui la mia professione — sono psicoterapeuta — una professione che dico sempre che è stato inevitabile fare. Non ho sentito che ci fosse molta scelta, nel senso che io l’ho visto come un percorso fluido dall’infanzia, proprio per tutto quello che stavamo dicendo prima che mi ha portato a interrogarmi sulla psiche e i viaggi e i movimenti che può vivere, che può agire. Diciamo che in Occidente la separazione tra mente e corpo ha influenzato tutta una serie di professioni e di modi di vedere l’essere umano. La domanda iniziale includeva la parola invisibile, parola estremamente interessante, perché l’invisibile è invisibile da un certo modo di vedere, invisibile da un certo modo di guardare. Però tutti noi possiamo vedere se decidiamo che è il nostro intento, se decidiamo che è qualcosa che ci interessa.

Letizia: Rispetto a questo mi fai venire in mente che ci siamo conosciute in un momento in cui facevo fatica a dormire e partendo dallo spunto della qualità del sonno ho conosciuto un mondo che io davo assolutamente per scontato, riducendolo, che era il mondo del lavoro con i sogni come forma di cura e medicina. Lì mi si sono aperti dei mondi, a proposito di ciò che non vediamo finché non ci poniamo l’attenzione. Mi piacerebbe esplorare con te questo in particolare e che cosa vuol dire di fatto “lavorare con i sogni”, questo materiale impalpabile e così poco considerato nel nostro mondo da svegli. Da qualsiasi parte a te risuoni iniziare a parlare di questo, e magari anche alle tradizioni che ci sono dietro questo tipo di lavoro.

Ilaria: Intanto mi piace tantissimo l’espressione sogni come medicina. Sono molto affezionata al nome medicina perchè è una parola che ho riscoperto in questi ultimi 10–12 anni, quando ho iniziato ad interessarmi a tutte le pratiche dei popoli naturali, dei popoli indigeni. Proprio perché nella nostra cultura — adesso spero di non essere troppo giudicante — la parola medicina credo sia usata soprattutto con una declinazione specifica, ossia un medicamento che elimini il sintomo per eliminare la malattia. Ma a me piace ricordare, perché a volte ce lo dimentichiamo, che la malattia è un messaggio ed è nella nostra specifica cultura che noi la vediamo come qualcosa di estraneo da eliminare. Invece per i popoli nativi — mi riferisco soprattutto a quelli del Sudamerica dove la parola medicina viene usata molto — la medicina è qualcosa che ti aiuta. La medicina è quel simbolo che può arrivare anche attraverso un’erba, un rimedio di origine animale, una danza, una cerimonia — o un atto psicomagico come lo chiamerebbe Jodorowsky — , qualcosa che ti aiuta ad integrare quello specifico messaggio, che viene da te, per te. Probabilmente perché in qualche momento si è creato uno squilibrio.

Anche questa parola “squilibrio”, disarmonia, sono interessanti perché nella nostra cultura — dove nell’impianto di origine cattolica il tema della colpa e il tema della punizione sono intrinseci alla nostra vita, sia che siamo atei, sia che siamo super praticanti — anche la malattia viene vista come una colpa, una punizione per qualcosa che ho fatto. Mentre la disarmonia è un messaggio. Ci sta dicendo che a un certo punto è accaduto qualcosa che ha bisogno di essere bilanciato. Credo che vederla così alleggerisca molto la persona a cui per vari motivi può emergere un sintomo e possa permettere di creare uno spazio per la presenza e per essere partecipi e attivi nella propria medicina, perché noi siamo la prima medicina. Se noi non collaboriamo possiamo prenderci qualsiasi medicamento, ma non troverà un terreno fertile, perché è una collaborazione.

E quindi dopo questa introduzione alla parola medicina vediamo la medicina dei sogni. Il sogno è la stessa cosa. Per Jung il sogno è la via regia per comunicare con l’inconscio. Lui teorizza proprio, nella sua pratica clinica, una psiche che funziona per compensazione: ossia coscienza e inconscio sono coesistenti e danzano tra loro in una danza degli opposti. L’unilateralità per lui è all’origine della malattia, ossia quando uno dei due poli comincia a prendere particolare spazio, particolare energia, togliendo spazio all’altro. Ma l’altro si caricherà dell’energia uguale e contraria e prima o poi dovrà trovare un modo di comunicarci quello che sta accadendo. I sogni sono una delle possibilità, perchè i sogni ci portano a osservare dei simboli e questi simboli possono aiutarci a trovare la strada per far comunicare queste due istanze che danzano dentro di noi. La luce della coscienza e l’ombra, il mistero, la notte gli abissi sono metafore per riferirsi per esempio a questa parte, che siamo sempre noi con un altro linguaggio, con un’altra vita, con un’altra carica elettrica.

Secondo Jung lo scopo della vita è diventare noi stessi e per fare questo è necessaria l’integrazione di questi simboli. I simboli ci aiutano a far comunicare coscienza e inconscio per andare avanti nel nostro sviluppo psichico. L’individuazione è come io cammino nella mia vita per diventare me stessa integrando la mia ombra, danzando con la mia ombra. Perché appunto l’ombra non è eliminabile, vanno trovati sempre dei modi per comunicare con quella parte, perché io possa accedere a tutto quel terreno fertile, quella terra scura che è un humus, una parte estremamente nutriente ma misteriosa, dove potranno anche risiedere eventuali ferite con le quali sarà necessario lavorare, ma per diventare umana. Per i nativi del territorio americano il popolo umano è un popolo specifico, una famiglia specifica della Natura, non è incluso nella famiglia degli animali. C’è la famiglia dei minerali, dei vegetali, degli animali e la famiglia umana, perché l’essere umano ha un suo senso in questa rete della vita, siamo parte della Natura e siamo parte della rete e possiamo contribuire. E questo mi fa tornare allo stare svegli e all’essere addormentati.

Noi un terzo della nostra vita la passiamo dormendo, nel senso etimologico del termine — sdraiati, occhi chiusi, sonno ed eventualmente sonno REM più o meno disturbato — ma il dormire può essere assolutamente qualcosa di più esteso. Una cosa relativa al sognare, che è la nostra “altra” vita, quello che noi siamo e facciamo in un terzo di giornata che passiamo coricate: lì attraversiamo mondi, affrontiamo sfide, ci arrivano messaggi, incontriamo — come dice Jung — dei simboli possibilmente unificatori, che ci possano aiutare a fare quel passaggio dallo sparpagliato e caotico, dall’unilaterale e sintomatico a qualcosa che dia un ordine e ci permetta di passare allo stadio di sviluppo successivo.

Per i popoli naturali spesso il sogno non è un messaggio per il singolo ma un messaggio per l’intera tribù. Quindi già questo ci fa vedere il cambio di prospettiva, come sia qualcosa che ci connette a una rete. Noi possiamo dare un contributo con qualcosa che arrivato a noi, ma lo portiamo come medicina per la nostra comunità. E quindi stiamo sognando o siamo sognati? Veniamo da un sogno? Incarniamo un sogno? Queste domande danno tutta un’altra qualità a questo popolo umano che dicevamo prima, qualcosa di più connesso a un tutto.

E quindi qui vediamo come siamo forse soltanto noi occidentali che a un certo punto abbiamo deciso che i sogni non fossero qualcosa di utile, forse perché appunto non sono controllabili e regimentabili, spesso rappresentano un mistero, sono perturbanti, creano uno scuotimento dal profondo. Perché quando incontriamo il mistero la nostra psiche è costretta a ridimensionarsi, perde l’onnipotenza, è costretta — sarebbe costretta! — a perdere la parte dell’Io. Per Jung per esempio questo non è possibile: l’io è un’istanza psichica ordinatrice che ci serve per interfacciarsi con l’esistenza. Però se manifesta unilateralità è assolutamente possibile lavorare affinchè l’Io abbassi i livelli di unilateralità e si riconnetta al resto. Perché noi siamo un tutto, non siamo un “io”, come non siamo solo inconscio.

Letizia: In un post su Facebook di un po di tempo fa hai scritto: “La strada più difficile e bella da percorrere per l’umano è quella tra il suo cuore e la sua mente”. In qualche modo l’ho trovato molto collegato al racconto che hai fatto finora. E anche alla riflessione che facevamo prima sulla necessità di recuperare la nostra capacità di stare in relazione col mistero, e probabilmente quindi con le nostre parti più intuitive. Cosa c’è per te di importante per gli esseri umani nel prendersi cura della relazione cuore-mente?

Ilaria: quella frase che ho scritto su Facebook l’ho presa in prestito da un incontro che ho avuto con uno sciamano anni fa. Lui vive in Groenlandia ma quando si poteva è stato tanto in Europa, soprattutto in Italia, dove ha girato nelle scuole portando proprio questo messaggio, che era un qualcosa che gli insegnava suo padre, sull’importanza di ricordarsi che noi abbiamo una mente, ma abbiamo anche un cuore ed è il cuore quella parte che ci connette alla rete dell’esistenza. Il cervello è diventato un organo estremamente importante in Occidente, la sede della psiche. Anticamente il cervello forse non era neanche tanto preso in considerazione come possibile sede, spesso c’era il cuore, a volte c’erano gli intestini. Ma pensiamo anche al nostro eloquio quotidiano: quando dobbiamo parlare della nostra parte più unitaria o esprimere dove sentiamo la comunione con quello che ci circonda, forse più che nella mente lo sentiamo in altre parti, spesso tocchiamo il cuore.

Ora dell’unione tra mente-cuore per fortuna si sta cominciando a parlare tantissimo anche in psicologia. Forse neanche per fortuna, ma per lo spirito del tempo. Perché una separazione così estrema, oltre ad aver portato tantissimi fraintendimenti, ha causato anche tantissime difficoltà nel comprendere alcune manifestazioni sia del corpo che della mente, e della realtà stessa.

Uno degli autori che preferisco, che si è occupato principalmente di non-violenza — Marshall Rosenberg — parla proprio di cominciare a connetterci al linguaggio del cuore, che lui chiama linguaggio giraffa. Usa la giraffa come animale totemico proprio perché è il mammifero terrestre con il cuore più grande. Perché noi comunichiamo i nostri bisogni, le nostre emozioni col cuore. La mente è uno strumento utile, che ci aiuta ad organizzare e a selezionare e a connettere gli elementi, ma da sola ha talmente tanti filtri che fa fatica ad arrivare ai bisogni. A me piace usare la metafora del palazzo: è come se fossimo una palazzina con l’attico, il primo piano e le cantine. Come facciamo dall’attico ad arrivare in cantina senza passare dal primo piano?

Tutti i livelli sono interconnessi, noi siamo un sistema integrato. Quindi dobbiamo cercare di ricordarci come un mantra che ogni volta che noi attiviamo una separazione — mentre stiamo parlando, mentre ci stiamo confrontando — stiamo comunque creando un momento di astrazione, che ci serve solo per chiarire meglio, a noi stessi e agli altri, gli intenti della comunicazione. Ma è una forzatura, non esiste la mente senza un corpo, la mente è totalmente e indissolubilmente legata ai processi chimici e biologici, e questi a loro volta sono influenzati e influenzano le emozioni e viceversa, anche le emozioni sono influenzate dai processi mentali, dalle aspettative e dal nostro modo di vedere la realtà. Quindi credo che questa strada tra il cuore e la mente è un modo di incarnarci, tornare umani.

Perché se siamo solo mente, la mente può tutto. La mente non ha i problemi dell’essere incarnata. Appartiene al mondo delle idee, è aria, è qualcosa di veloce, senza confini — gli unici confini che ha sono quelli che si autoimpone — e in questo, se lo vediamo dal punto di vista della creatività, la mente è piena di potenzialità. Ma quando manca il corpo, manca la connessione con il tutto e possiamo vedere gli effetti di questa mancanza nella nostra realtà quotidiana, di cosa può comportare l’unilateralità di gruppo, l’ergersi a prediletti del Giardino dell’Eden che possono distruggerlo, perché la mente non vede il problema di essere incarnata, non si interroga sul dopo. O forse sta solo sul dopo e sul prima, non sta nell’adesso e quindi potrebbe non connettersi al nutrimento delle connessioni e delle relazioni dell’habitat in cui vive.

Letizia: Risuona molto. Anche rispetto al momento in cui stiamo vivendo. Qui siamo di nuovo in lockdown, a un anno di distanza siamo tornati dove eravamo un anno fa, anche se il contesto è cambiato, su piani diversi ma siamo ritornati al punto di partenza. Ho la sensazione guardandomi intorno che la condizione di sonno disturbato, di ansia generalizzata, senso di smarrimento, siano una condizione collettiva in questo momento. E quindi rispetto a questo risuona molto quello che stavi dicendo. Ritornare a incarnarsi. E più in generale mi verrebbe da chiederti, andando verso la conclusione di questa chiacchierata: con la lente della tua pratica, come possiamo affrontare questo momento di forte cambiamento e abbracciarlo, con questa sensibilità integrata a cui facevi riferimento prima, senza sentirci travolti?

Ilaria: Questa è una domanda che se me l’avessi fatta un anno fa avrei risposto in modo totalmente diverso. Proprio perché come dicevi tu questo secondo lockdown è estremamente diverso dal primo. Il primo portava un mistero pieno di possibilità, un luogo futuro abbastanza vicino in cui poter proiettare il famoso “tornare come prima”. Diciamo che l’esperienza che abbiamo accumulato in questi mesi sta modificando le idee che abbiamo su questo fantomatico tornare-come-prima e credo che uno dei lavori che possiamo fare è il lavoro sulle aspettative. Le aspettative sono la nostra parte mentale, cosa mettiamo nel futuro, cosa io mi aspetto dal futuro e dagli altri.

La questione è fermarsi. Finché non mi fermo, e osservo, provo se riesco a respirare — perché non è così scontato — non posso applicare nessun tipo di cambiamento. Noi non possiamo modificare quello che non conosciamo, e questa situazione globale in particolare ci mette davanti al mistero più totale. In più ci mette davanti al tema del controllo. Qualunque cosa noi avessimo voluto fare, o volessimo fare anche adesso, qualsiasi desiderio o pianificazione è stata cancellata e questo ci fa misurare col fatto che siamo finiti, degli esseri finiti con dei limiti. E questo limite è venuto in modo plateale dall’esterno, ma possiamo vederlo come un grande simbolo del fatto che la nostra mente può andare dove vuole, ma quando incontra il limite poi è tutto il nostro sistema integrato che deve farci i conti. Un pò come se questo blocco abbia costretto a vedere ciò che magari prima potevano trovare delle strategie facili per non vedere. Per restare addormentati.

Io credo che adesso stare svegli oggettivamente ci porti a misurarci con emozioni non piacevoli, disturbanti. Non ne abbiamo parlato prima, ma anche l’incubazione era una grande pratica, nell’antica Grecia era una sorta di ricerca della visione. Per trovare la mia medicina chiedevo al sacerdote di poter affrontare questa cerimonia di incubazione: c’erano queste caverne dove si entrava e si simulava una morte e una rinascita, un ritorno all’utero della madre terra, nel quale si riceveva un sogno. In questa notte in cui si passava in questa caverna il sogno era la medicina. Ma le medicine non sanno tutte di zucchero e miele, molte medicine ti fanno confrontare con i tuoi demoni. Diciamo che adesso è arrivato un momento collettivo di confrontarci con ciò che c’è, e quindi abbiamo un continuo rispecchiamento tra il cammino personale e quello che sta succedendo anche fuori.

Sicuramente credo che un’attenzione particolare al corpo ora sia importante, ricercare ciò che ci nutre, perché la nostra energia non è infinita e noi dobbiamo preservarla per poter fare tutto quello che abbiamo detto oggi. E questo non può prescindere da un ascolto di cosa è accettabile e cosa no per noi, quanta energia abbiamo, se possiamo o non possiamo farlo. E questo è il cuore, è il percorso della non violenza.

Letizia: Mi piacerebbe chiudere tornando dove siamo partite, quindi al mondo dei sogni e ai sogni come materiale buono per aiutarci a connetterci con chi siamo. Vorrei chiederti qualche consiglio pratico, qualche suggerimento per chi vorrebbe iniziare a lavorare con i propri sogni. Da dove partire? Da dove si può cominciare per lavorare con i sogni?

Ilaria: Il lavoro con i sogni lo vedo un pò come fare un patto con se stessi. A un certo punto decidiamo che includiamo una parte di noi, che magari prima non era stata considerata o non in modo esplicito. A me piace suggerire una piccola cerimonia, che può essere l’acquisto di un quaderno per esempio, o decidere che quei fogli e quella penna speciali vengono dedicati solo a questo. Perchè uno dei modi di lavorare con i sogni è appunto scriverli. Per esempio decidere un luogo cartaceo o multimediale dove lasciare traccia di quello che è accaduto di notte e poi cominciare ogni mattina scrivendo quello che ci ricordiamo.

A volte i sogni soffrono un pò di razzismo, nel senso se non sono super complicati o non sembrano dei film non vengono considerati. In realtà tutti i sogni sono importanti, anche se sono solo un flash o una sensazione. Magari esistono anche dei sogni non prettamente visivi. Perché noi parliamo sempre di immagini, diamo per scontato che siano visive, ma i sogni possono essere anche contatti uditivi, olfattivi, cinestetici, tattili, tutto quello che riusciamo a riportare dal nostro viaggio dall’altra parte. Ricordandoci che prima scriviamo il sogno meglio è, perchè sono fatti di un’altra materia, provengono da un’altro mondo e quindi dopo poche ore si sono già volatilizzati, a meno che non siano particolarmente angosciosi o strani da catturare la nostra attenzione. Tutto il resto vola via e quindi trovare un luogo dove, il prima possibile, scriverli.

E poi magari quando ne abbiamo voglia, pensare a qualche sogno di quando eravamo bambini, questo può essere un viaggio molto bello. Perché quando cominciamo a scrivere i sogni, cominciamo a dare importanza a una parte di noi che prima non osservavamo in tale maniera e questo invoglia poi quella parte a parlarci. E possiamo cominciare ad avere delle intuizioni, iniziamo a renderci conto che ci sono cose che tornano: sogni ricorrenti, ma non solo, anche simboli che tornano nel tempo o “locations”, come mi piace chiamarle, che influenzano cosa-accade-dove.

Cominciare quindi a prendere dimestichezza con come il nostro inconscio ci parla. E vedere cosa ci ispira, cosa ci va poi di fare nella vita da svegli, come onorare questi messaggi.

Musica: Hundred Mile by Blue Dot Sessions

Questa storia fa parte della serie di conversazioni “Artigiani dell’Invisibile”. E’ possibile leggere l’origine del progetto con la prima intervista qui, la seconda qui e la terza qui.

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Letizia Piangerelli
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On a mission to keep sense of wonder alive. Making and Writing @makinglife.substack.com | Team member & Facilitator @CocoonPro