Davide Benati: “Mus-e e l’arte declinata verso le nuove generazioni”

Nicola Bonafini
Mus-e Reggio Emilia
23 min readMar 29, 2018

Una lunga conversazione con il grande artista reggiano: “Il mio rapporto con l’associazione? E’ la quintessenza del detto: i bambini ci guardano. Fateli camminare dentro le cose dell’arte, perché arrivino a desiderare di percorrerle tutte, in quanto esse appartengono loro e di quelle ne saranno i tutori”

Maestro Davide Benati iniziamo questa chiacchierata da ciò che gli esperti definirebbero “le basi”. Immagini di avere davanti a lei un completo neofita dell’arte, in generale, e della “sua” arte, in particolare. Cosa gli direbbe?

«Divido la risposta in due. Avessi di fronte a me uno studente o un bambino, gli chiederei di fare un disegno. Diversamente, a uno che volesse avvicinarsi al mondo dell’arte come spettatore, come curioso o come semplice appassionato, chiederei una cosa che mi sembra un po’ difficile, ma indispensabile: fidarsi dei propri occhi. Lo ripeto sempre alle persone che vengono qui in studio (la chiacchierata si è tenuta nell’atelier di Benati a Masone, nda), perché succede che la prima domanda che ti pongono in presenza di un tuo dipinto sia “che cosa significa?” o “mi parli di questo quadro”… Un quadro, tuttavia, dovrebbe esimersi dal richiedere parole. Dovrebbe semplicemente essere guardato, perché è stato fatto per quello. Questo come approccio iniziale. Ai bambini o agli studenti che desiderano entrare nel mondo dell’arte attraverso la sua pratica tendo a chiedere: “fammi un disegno su un foglio bianco”. I bambini partono subito, senza esitazioni. Per loro è un grande gioco. Gli studenti, adolescenti o maturi, hanno, al contrario, una reazione di fastidio, perché ritengono che un disegno su foglio bianco sia qualche cosa di superato. Quasi elementare. Invece, è una cartina di tornasole formidabile, perché costringe a scegliere un segno. Non solo. Mi racconta cosa guardano; e questa è già una scelta importante. Direi che è un fondamento sul quale un soggetto costruisce un “suo” linguaggio. Scegliere un segno, per poi trasmettere un impulso. Conseguentemente, vedere cosa “mi” racconti su quel foglio è una scelta che costringe a scoprirti. A che cosa narrare. Uno dice “che cosa faccio?”. La risposta è semplice “non lo so… devi deciderlo tu”, ma, all’interno di questo dialogo scarno, di per sé, un’affermazione di tale genere è già un fatto fondante».

E’ possibile spiegare con parole la sua arte?

«E’ un racconto di vita quotidiana che ho cominciato a dipanare quando avevo quindici anni, e che, con una serie di iniezioni culturali, con curiosità e con immersioni all’interno di quella che è stata la storia dell’arte che mi ha preceduto, mi ha portato a scegliere degli strumenti e delle forme, che, via via, si sono messe insieme per dare vita al mio alfabeto. Pertanto la mia storia è strettamente legata a tutte le tappe percorse da una persona che ha scelto come strumento di vita la pittura e che ha costantemente e quotidianamente inteso coltivarla, arricchendola tutti i giorni delle notizie di cui tutti abbiamo disponibilità».

Vorrei mi accompagnasse, passo dopo passo, nel processo creativo da cui scaturisce una sua opera?

«Ritorno a quello che ho detto un attimo fa. Oggi ho a disposizione, ormai a livello maturo, tutta una serie di strumenti operativi che mi sono costruito nel corso del tempo. In aggiunta, ho tutti i quadri che ho dipinto fino a ieri, che mi servono da serbatoio per proseguire questo racconto che è arrivato fino a ieri. Inoltre, tutte le mattine alle 7.30 apro lo studio e vado in una delle sale che ho a disposizione e preparo una tela. Mi preparo quel famoso foglio bianco che dicevo all’inizio, sul quale agire. Cosa significa per me preparare la tela? Entrare subito nello spazio che sarà quello del mio lavoro. Quindi questa attività manuale, che secondo me è importantissima, di preparare il mio spazio di azione, è già l’inizio del lavoro. Poi, cosa farò sopra quello spazio che ho costruito? La risposta è: ripartire da dove ho finito ieri…»

E’ sbagliato dire, quindi, che è un percorso che non finisce?

«E’ un percorso che a volte si ferma e che ti dice “Basta. Non ce n’è più. E’ finito questo lavoro”. In quel frangente, si ricorre a uno strumento che è quello della ricerca. La ricerca che cos’è? Non è qualcosa di “darwiniano”; ma è il rivedere tutto il tuo percorso di artista andando avanti e indietro nel tempo. A volte succede che una qualche opera dipinta negli anni ’80 mi incuriosisca di nuovo e la veda con gli occhi di oggi. Allora me la rivisito per capire se ha qualcosa di nuovo da dire. Perché non sono mica morte le cose che ho fatto anni fa. Ma questo succede, e succedeva, a tutti gli artisti. Basta guardare tutti gli itinerari ed i percorsi che ogni artista ha intrapreso nella propria vita, per vedere quanti hanno lasciato per strada elementi che artisti più giovani hanno poi ripercorso e portato avanti. Quindi è un continuo rimescolamento di visioni , revisioni, progetti, alcuni finiscono male, altri che inaspettatamente si aprono a un discorso nuovo, magari quando tutto sembrava esaurito un attimo prima».

Esiste un blocco dell’artista? Le è capitato?

«E’ chiaramente un problema che ogni artista teme, perché prima o poi anche la vena creativa si interrompe. Allora, in quel caso, interviene, ed è necessario che intervenga, il mestiere. Il mestiere che cos’è? E’ il saper fare ciò che si è già fatto, sapendolo fare così bene che si è comunque in grado di dare qualcosa di onesto. Ci si mette a lavorare su quello che si conosce già, perché, ancora una volta, mentre si lavora, può sempre succedere qualcosa di inatteso. L’artista difficilmente sta fermo. Aggiungo, la mattina il lavoro comincia quando apro lo studio, perché senti che questo luogo ti appartiene e che un po’ sei tu riflesso nel tuo specchio. Lo studio di un artista è sempre un luogo molto importante. Tuttavia può succedere, ed è successo, che ci sia una vera e propria inazione. A quel punto, è bene andarsi a fare un giro, in termini sia fisici che psicologici. Per cui può servire un viaggio. Oppure, perché no?, un bel film, perché l’artista, anche inconsapevolmente, ha sempre dei suoi radar particolari aperti. Un po’ come per il cacciatore di cronaca, è sufficiente captare un discorso sul tram. Stessa cosa per uno scrittore. Miei cari amici lo sono, anche se quello a me più caro, purtroppo, non c’è più ed è Antonio Tabucchi. Con lui ci raccontavamo spesso di questi momenti di stasi creativa, e allora Antonio ricorreva spesso alla pratica dell’origliare, così come, spesso, un artista ricorre al guardare. Succede a volte di intravvedere in un film, un dettaglio, un oggetto, un colore, ed ecco che improvvisamente suona la campana. Qualche cosa che quel colore ha destato in me e che ha provocato un’emozione generica e che tuttavia comincia a ronzare nella mia testa. Per esempio, quando facevo i miei viaggi per comprare la mia carta in Oriente, mi portavo i taccuini e su questi disegnavo dei paesaggi, proprio come i vecchi pittori. Non servivano direttamente come forme da trasferire poi su una tela, ma avevano la funzione del fissare ricordi, di farmi stare all’erta. Allora, siccome li conservo ancora tutti nei miei cassetti, ogni tanto me li riguardo per nostalgia. Mi appaiono certi colori, certi dettagli e finalmente ritornano le cose.

Il suo processo artistico è un viaggio che vuole portare alla luce parti nascoste della sua anima. Una costante ricerca di spiritualità. E’ effettivamente così?

«Ma sai, è difficile dare spiegazioni razionali. Ciò che posso dire è che quando si sta lavorando si stabilisce una sorta di curiosa tensione tra la persona e il lavoro, inteso come ciò che si sta facendo in quel determinato momento. Scatta qualche cosa di così profondamente gioioso. Sarà perché è una cosa che, per quanto mi riguarda, ho desiderato fare fin da quando ero ragazzino; sarà perché si tratta davvero di un grande gioco piacevole, chiaramente sempre con un tasso molto alto di tensione interiore, perché ti costringe a metterti a nudo. A prescindere da qualsiasi cosa, si è perfettamente consapevoli che quello che si sta facendo vivrà solo se qualcun altro lo guarderà. Poi quello è solo l’inizio! La verità è che, poi, ci si deve abituare al fatto che quella “tua” opera potrà essere guardata e non apprezzata. Oppure potrà non sfociare mai in un riconoscimento da parte di altri. Tutte componenti che fanno sì che, questo, sia un lavoro con una percentuale molto alta di frustrazione. Allora, tanto vale godere del fare; del saper fare mentre lo si fa, per il semplice motivo che poi, si potrà andare incontro delusioni o fallimenti. Così come, allo stesso tempo, anche ad apprezzamenti e riconoscimenti. In definitiva ci si gioca in modo personale e individuale la propria partita. Parlando di questo mi viene in mente uno dei miei “giochi” — li chiamo giochi, anche se si trattava di una parte fondamentale dell’insegnamento — di quando ero docente all’Accademia».

Ce lo racconti….

«Stabilivamo un giorno alla settimana in cui io ricoprivo il ruolo del gallerista o del collezionista ed i miei studenti quello degli artisti che esponevano. Quindi c’era una parete dell’aula dove una volta alla settimana uno studente esponeva le sue opere ed io recitavo la parte del collezionista che entrava nella galleria d’arte per vederle. Mentre esponevo il mio pensiero, facevo allo stesso tempo un’analisi dell’opera. Se ci si pensa è una prova molto impegnativa. Perché di fatto, chiunque può sentirsi autorizzato ad entrare in una galleria d’arte ed affermare liberamente che “quel quadro è brutto”, “quel quadro ha i colori sporchi”, “non c’è equilibrio”, “in casa mia un’opera del genere non entrerebbe mai” e complimenti simili. E’ proprio in questi frangenti che entra in gioco la capacità dell’artista di reggere l’urto di queste situazioni. Che per uno che fa il mio lavoro sono quotidiane. Perché quello che viene, alla fine dei conti, sottoposto a critica, sei tu. L’autore. E’ questo il grande insegnamento che viene tramandato, dentro e fuori le accademie, verso tutti coloro che si accostano all’arte dalla parte di chi, l’arte, la fa o la vuole fare: sei in grado di reggere di fronte a questi scontri quotidiani? Una delle grandi chiavi è proprio come si risponde a questa domanda».

Viviamo in tempi veloci. Dove l’effimero ed una certa civiltà dell’immagine “usa e getta” la fa da padrona. Si è ancora in grado di apprezzare l’arte in modo pieno e soddisfacente? C’è ancora il modo di “fermarsi” e godere in modo completo di ciò che i nostri occhi ci dicono ponendoci di fronte all’opera di un artista?

«Questa è una domanda chiave sulla contemporaneità. E’ chiaro che io appartengo a una generazione che è entrata nel mondo dell’arte e si è affacciata sul palcoscenico grazie alle Biennali, con le mostre importanti negli anni ’80 e ’90, laddove il mondo dell’arte era ancora composto di tre, quattro personaggi che ne determinavano la struttura portante. Per “tre, quattro personaggi” intendo la galleria come luogo di consacrazione e di mercato; il mercante, il critico e il collezionista. Questa struttura esiste ancora. Tuttavia è evidente come essa sia stata scavalcata da processi nuovi».

Ossia?

«Ossia, internet, la nascita di una miriade di siti, blog ed altri elementi che hanno creato delle ulteriori sovrastrutture di diffusione, di conoscenza e di consumo dell’arte. Nel momento in cui c’è una rincorsa spasmodica all’apparire — ed anche, altrettanto, allo scomparire -, questo aspetto, devo ammettere, che chiunque che si accinga ad entrare, o desideri farlo, nel mondo dell’arte come autore ne dovrà necessariamente tenere conto scegliendo, sostanzialmente come muoversi nel contesto artistico generale. Io posso continuare a fare arte stando a Masone e lavorare in tutto il mondo. Molte opere contemporanee nascono all’insegna di un consumo immediato e di una precarietà.

Per esempio?

« Per esempio, all’ultima Biennale di Venezia, al padiglione italiano, c’era il lavoro di un artista giovane, italiano, molto in gamba secondo me, che si chiama Roberto Cuoghi. Si trattava di un’enorme officina dove attraverso congegni e macchinari l’artista produceva in tempo reale opere che venivano esposte e che poi sarebbero letteralmente scomparse nel giro di qualche mese. Questo ci porta ad affermare che siamo in presenza di una logica diversa che circonda l’oggetto d’arte. Pensi anche a quello che stanno facendo col mercato della fotografia…»

Se considerarla come vero e proprio oggetto d’arte oppure no?

«Esatto! Nella mia vita ho potuto assistere a due, tre tentativi di accreditare la foto come oggetto d’arte. Dal mio punto di vista ho sempre pensato che lo fosse, ma poi, come spesso accade, c’è il mercato che chiede quanti negativi ci sono in giro per quell’immagine, quante copie esistono di quella foto e via di questo passo. Quindi ci sono dei meccanismi tali per cui si condiziona il mercato attraverso il linguaggio. Allo stesso tempo, il linguaggio è condizionato dal mercato. Così come, aggiungo, la scelta di utilizzare strumenti di comunicazione che la modernità ci mette a disposizione per diffondere e divulgare il proprio lavoro si ripercuote poi sul linguaggio stesso adottato dall’arte. Molte opere della contemporaneità sono pensate proprio per questo consumo spasmodico. Non c’è più neppure la preoccupazione che l’opera debba durare nel tempo. Eppure questo avveniva già in tempi passati. Già a partire dal ‘900, con le Avaguardie, il Dada e altre espressioni artistiche simili. L’effimero esisteva già lì. L’oggetto trovato. L’arte si è sempre rimescolata. In più, aggiungo, vi è un ulteriore elemento di analisi…»

Ossia?

«La mia generazione è presente nel mondo dell’arte e del mercato alla fine degli anni ’70, quando l’arte concettuale, l’arte povera e tutte le avanguardie legate a questi aspetti avevano portato ad una tale rarefazione dell’oggetto d’arte che poteva capitare di entrare in una galleria e non avere un’idea chiara di ciò che si sarebbe potuto trovarvi esposto. Da qui, è successo, che il mercato ha cominciato a ri-desiderare dei quadri, intesi come una tela con sopra dei colori. Poi, d’un tratto, quindici anni fa si è deciso che i quadri, intesi in senso classico, non erano più trendy e allora si puntava su chi faceva fotografie grandi due metri per tre. Oppure altri che attraverso delle performance particolari facevano strane comunicazioni. Parlo ad esempio, di Vanessa Beecroft che espone 50 mannequin e ne fa un’enorme fotografia. Facendone, di questa performance, sostanzialmente il suo lavoro artistico».

Benati e le sue opere

Si può affermare che il bisogno d’arte — nei suoi molteplici aspetti — è impermeabile ai tempi e alle mode del momento?

«C’è sempre e comunque un desiderio carsico d’arte, che scorre in modo sotterraneo per poi rispuntare da un’altra parte. Fino a quando ho insegnato all’Accademia, cioè fino al 2009, su cento giovani che si iscrivevano al primo anno, novantacinque volevano imparare a dipingere, e la restante parte aveva già superato il concetto di pittura e volevano lavorare col video o con la fotografia. Dal mio osservatorio mi sento di affermare che esisterà sempre un mondo che vorrà la pittura, la scultura, l’incisione. Così come penso che esisterà sempre il libro di carta. Ne parlavo proprio qualche tempo fa con una mia amica regista. Lei si interrogava su questa tendenza, decisamente affascinante, ma per me non nuova, delle serie tv. Alcune davvero magnifiche. Ne discutevamo ed io sostenevo che è un po’ come la metà dell’800 quando è comparsa la fotografia e la maggior parte degli artisti ebbe paura che la pittura fosse arrivata al capolinea. Non è stato così. La pittura ha semplicemente guardato altrove».

Insomma in arte, come in altri campi, nulla si crea, nulla si distrugge, ma tutto va modificandosi…

«Siamo sempre lì. Però attento, è chiaro che questi spostamenti in avanti della tecnologia, delle mode, dei tempi, costringono la pittura ad adattarsi. Quando noi abbiamo iniziato ad esporre alla fine degli anni ’70, la pittura non era più quella degli anni ’50. Tutto ciò che rappresenta novità, ha il potere di mettere in discussione un linguaggio che appariva per lo più consolidato. Di questi mutamenti, anche repentini, l’arte ne tiene sempre conto».

Allora, dov’è il cambiamento vero? Ammesso che esista…

«E’ vero che le nuove tecnologie fanno sì che un artista non possa metterci più un anno, per completare un quadro. Ma… c’è anche chi si prende la libertà di farlo. Il fatto, conclusivo, è che in arte non può esserci nulla di costrittivo, proprio perché è l’autore che si assume la responsabilità di ciò che fa, come lo fa e quanto tempo desidera impiegare per arrivare ad un completamento di un’opera».

Parliamo del suo legame con Masone. Ne aveva accennato poc’anzi. Può espandere il suo pensiero?

«Il ritorno definitivo è nel 2010, quando ho deciso di portare il mio studio qui. Guarda, io ho sempre detto che essere nato sulla Via Emilia spinge anche ad andarsene, perché è un continuo veder transitare, un continuo scorrere di cose e persone!».

Indubbiamente, eppure questo fil rouge che lega un personaggio come lei alla terra natia mi ricorda in modo speciale la gente di Po. Persone che, magari per le vicissitudini più disparate, la vita ha portato lontano dalle rive del Grande Fiume, ma che, in modo quasi ancestrale, rimangono sempre costantemente legate a quei luoghi, con una tensione fortissima al ritorno. Ecco, questi “parametri”, li rivedo nella sua parabola personale e professionale…

«Ma sai, il fatto è che mio padre mi ha sempre spinto ad andare, in aggiunta avevo uno zio che viveva a Milano e che ha facilitato molto il mio approdo in quella città in quegli anni. Il ritorno… Ti dico, mi sono abituato a vivere qui. La mia casa è a 10 minuti da qui e considero l’Emilia Romagna come Los Angeles. Vado a Parma, a Bologna, a Modena, a Milano con la stessa facilità con cui un losangeleno impiega due ore per andare da casa al suo posto di lavoro e lo trova assolutamente normale. Quindi, la bellezza di questa terra sta nel fatto che la sua solidità, concreta, reale, ha comunque una tale disponibilità all’apertura, al lasciarti andare che ti diventa quasi naturale volerci tornare, perché non la senti come una gabbia. La via Emilia è sempre qua davanti e qualche anno fa mi capitava di partire da Masone andare ad incontrare una persona a Montecarlo dove esponevo in esclusiva per la galleria Marlborough e poi rientravo anche in giornata. Salivo in macchina alle 8, arrivavo nel Principato alle 12,30. La galleria si trovava davanti al porto, incontravo la persona che desiderava vedermi, facevo una colazione, due passi e mi rimettevo in macchina. Alle 20 ero di nuovo a casa mia. L’ho fatto decine di volte. Per non parlare poi dell’Alta Velocità che ha reso quasi comico l’andare a Milano per la rapidità con cui si viaggia. In fin dei conti, per me, il segreto è stato quello di ri-abituarsi a vivere a Masone come se fossi altrove. Potendo, però, sempre contare sulla solidità di questo posto».

Mi permetta professore, ma il paragone con Los Angeles è per molti, ma non per tutti… Solo chi ha avuto l’opportunità di vivere ed essere esposto a culture, pensieri e modi di vivere differenti può concepire un tale approccio al proprio luogo di vita e di lavoro…

«Questo lo posso dire, infatti, proprio perché ho sperimentato la grande città in quegli anni in cui era anche durissimo stare a Milano. Gli anni ’70 di Milano sono stati pesanti ed ero già insegnante, quindi avevo anche una responsabilità. Perché nel ’77 ero docente già da tre anni e i miei studenti risentivano del clima terribile di quegli anni.

Lo studio del maestro, nella “sua” Masone

Come ha ritrovato Reggio Emilia al suo ritorno? Com’è cambiata nella sua visione in questo lasso di tempo?

«Quando me ne andai da qui pensavo “piccola città, bastardo posto”, “guccinianamente” parlando. Come è giusto che sia per uno che ha diciotto anni. La verità è che sotto un altro punto di vista la provincia ti ammazza se non ci si tira fuori per un po’. Come ho trovato Reggio? Mah, da una parte i pregi che, tuttavia, ho trovato un po’ stemperati e che a volte rischiano di diventare luoghi comuni. E’ altresì vero che sono aumentati divieti, piccole o grandi costrizioni legate ad un tessuto burocratico un po’ vecchio. Vedo che dal punto di vista della comunicazione c’è sempre questa voglia di buttare avanti certi fiori all’occhiello che poi, ormai, rischiano di appassire. Sento una non definitiva capacità all’autocritica, la quale, alla lunga, dà anche un po’ fastidio. Restano delle eccellenze nella sanità e nel volontariato e anche nell’offerta teatri. Meno nelle Arti Figurative. Il rischio semmai è il vivere su dei luoghi comuni che però, nel nostro tempo, non hanno più ragione di esistere. Oggi siamo tutti in discussione e sarebbe bene che, soprattutto le classi dirigenti, si mettessero un po’ più in sintonia con un mondo in continua evoluzione.

Un altro dei grandi temi che hanno fatto da filo conduttore della sua vita: il rapporto con l’Oriente…

«Si è sempre trattato di viaggio brevi e non da turista. Il primo fu per una sfida, perché quegli anni — parlo del 1977, 1978 — erano vissuti un po così, in modo particolare. C’era da parte anche mia il senso di una generazione che aveva fatto il ’68 e che negli anni successivi sembrava già completamente sorpassata, perché c’erano persone di dieci anni più giovani che ci guardavano come fossimo dei sopravvissuti e questo aveva creato non pochi smarrimenti in noi. Quindi cominciammo a riflettere sugli errori commessi, che furono pure tanti. Inoltre ci si illudeva che da lontano le cose si potessero osservare meglio. Il che, onestamente, ha anche un fondo di verità. Sinceramente ti dico, tutte le volte che mi trovavo là, in Oriente, avevo una gran voglia di tornare a casa. Anche perché mi sento profondamente legato alla mia terra e non avevo dei miti che mi legavano a questi posti lontani, se non culturali. Ecco, la cultura orientale ha sempre esercitato su di me un fascino importante. Lo vedevo davvero come un focus molto potente, con messaggi altissimi. La Cina, l’India, il Giappone. Hanno dato vita a civiltà strepitose, così diverse da noi. Era questa diversità che mi affascinava e che ha sempre affascinato i pittori occidentali. Quindi, posso assolutamente affermare che sono stato io, intenzionalmente, a partire per cercare un dialogo con le cifre della cultura orientale, così come aveva fatto Van Gogh. Lasciandomi anche cullare dall’illusione di questo ponte culturale che ho voluto creare e che mi ha dato anche dei frutti apprezzabili. Frutti che ho scelto io di cercare e di trovare, consapevole anche che la ricerca sarebbe potuta essere anche assai deludente. C’è gente che ha scelto di perdersi dentro la cultura orientale. Io, invece, ho voluto misurarmi con lei. Alla fine, mi sono anche stancato. Con l’Oriente ho chiuso dal 1995 e su ciò che mi hanno dato quelle esperienze sto ancora riflettendo. In modo molto consapevole. Per cui leggo gli scrittori cinesi e giapponesi, e vedo, nonostante i cambiamenti epocali che sono accaduti negli anni, mantenere le radici forti della cultura orientale in certi ambiti e in certe frequentazioni. Ho avuto decine e decine di studenti cinesi e giapponesi e sono ancora, per la maggior parte, degli “oggetti misteriosi”»

Invero rapportarsi con loro e con quelle culture rimane una sfida alta, molto alta…

«E’ proprio come nel famoso film “Lost in translation”. Pellicola stupenda di Sofia Coppola. Film onestissimo, molto intelligente che mi ha davvero dato la stessa sensazione, vera, che provi in questi luoghi. Salvo che uno decida di vivere quei posti facendo il tour organizzato dentro i grandi alberghi con le boutique dell’alta moda e la classica visita alla Pagoda, appena ci si avventura nelle strade secondarie, si entra all’interno di un mondo a noi, per lo più, sconosciuto e quasi sempre incomprensibile».

Due parole sulla sua amicizia con il grande Antonio Tabucchi, anche in questo si ritrova l’amore per il viaggio e la scoperta di posti non troppo pubblicizzati come il Portogallo…

«Quando tornai da Katmandu, alla fine del mio secondo viaggio, nel 1984, ebbi l’opportunità di leggere “Notturno indiano”. Di Tabucchi avevo già letto “Il Gioco del Rovescio” ed ero rimasto estremamente incuriosito da questo scrittore toscano che insegnava a Genova e stava traducendo Pessoa. La verità è che in quegli anni del Portogallo non se ne sapeva nulla, se non da parte di ciò che veniva raccontato dagli addetti ai lavori. Inoltre in “Notturno indiano” trovai delle affinità talmente potenti con l’ultimo viaggio che avevo appena fatto — anche come momenti di difficoltà di comprensione di questi universi così alieni — che crebbe in me un fortissimo desiderio di conoscerlo. Al tempo avevo un amico presso la casa editrice Feltrinelli e gli chiesi se lo conosceva. La risposta fu rincuorante “Si. Anzi, tra l’altro stiamo cercando di farlo venire da noi, perché è un autore che ci piace molto”. Gli chiesi, quindi, se potevo mandargli due righe di apprezzamento, chiedendomi se era il tipo di persona cui una cosa simile poteva far piacere. Il mio amico mi rispose con grande entusiasmo. Gli scrissi un breve messaggio che gli inviai unitamente ad un mio catalogo. Mi rispose quasi subito “Guarda, devo venire a Milano fra poco. Incontriamoci. Tra l’altro devo dire che i tuoi quadri mi hanno avevano colpito molto, avendoli visti alla Biennale di Venezia nel 1982”. Ci siamo incontrati e siamo diventati amici perché avevamo in comune le stesse ricerche dell’altrove, dell’Oriente. In più c’era questa novità del Portogallo, paese che, dopo la frequentazione con Antonio (Tabucchi), ho frequentato spesso. Siamo diventati davvero amici fraterni».

Parliamo della sua volontà di restituire qualcosa “di suo”, alla così detta “società civile”. Ha donato quindici opere al Core, ed è parte integrante del progetto Mus-e Reggio Emilia che ha tenuto i suoi Stati Generali proprio a Reggio Emilia alla fine di Ottobre…

«Penso sia un qualcosa di estremamente giusto e che rappresenta la quintessenza del senso di appartenenza a una comunità. Perché la mia città mi ha dato molto anche come luogo dove esporre. Per esempio i Civici Musei mi hanno dato più volte la chance di esporre le mie opere facendomi sempre sentire come un pittore della città di Reggio Emilia. Io, al contempo, ho sempre sentito forte questo affetto nei miei confronti. Quindi, dal mio punto di vista, l’ho considerato non un atto dovuto, ma un atto di solidarietà reciproca: gli artisti e la città; la città e i loro artisti. Intendendo per città la vita attiva all’interno delle istituzioni cittadine. Per quanto riguarda il Core l’ho detto, ma lo ripeto con piacere: l’ho visto come un gesto doveroso nei confronti di una vera eccellenza della città. La sanità reggiana è a un livello molto alto, e l’ho potuto toccare con mano in un momento di grossa difficoltà mia e di mio fratello quando mia mamma ha avuto bisogno di cure. Quello che ho trovato è stata una grandissima attenzione e umanità da parte delle strutture sanitarie reggiane. Stessi identici tratti che trovo in Mus-e, il quale ha un plafond importantissimo nel mondo di oggi, soprattutto trattando in modo molto articolato il tema dell’integrazione, la quale parte dallo scambio di linguaggi della culture più diverse. Aspetti che trovo fondanti per il mio lavoro di insegnante e di artista. Da qui, quindi, la decisione, quasi spontanea, di dare la mia disponibilità ad essere partecipe a questo progetto, perché è quello in cui ho creduto per tutta la vita. Altrimenti non avrei fatto gli studi che ho fatto. Altrimenti non avrei fatto l’insegnante nella maniera in cui l’ho fatto. Finalmente, non avrei avrei fatto l’artista come ho desiderato farlo. Aggiungo, che mi fa piacere avere questo grande studio, perché ho fatto serate di poesie, ho fatto laboratori coi bimbi di Mus-e e ci siamo divertiti moltissimo. Devo ammetterlo, tutto questo mi è venuto estremamente naturale, nonostante il mio carattere timido e un po’ chiuso, perché l’ho sempre considerato come una continuità con quello che mio padre mi aveva chiesto di fare quando mi concesse di perseguire le mie passioni ed i miei interessi sin da giovane».

Che cosa le disse?

«Mi avvisò che il mio sarebbe stato un mestiere da poveretti, però, se l’avessi fatto bene, mi avrebbe dato notevoli ricchezze interiori. Devo dire che aveva ragione»

A proposito, che cosa ricorda di suo padre?

«Ricordo che, nonostante avesse dovuto smettere presto gli studi per dedicarsi al suo lavoro, in casa ci fece sempre trovare dei libri per me e mio fratello. Sono state le prime letture che ci è capitato di intraprendere, e l’abbiamo fatto coi libri di nostro padre. C’è sempre un filo che lega questa eco che sento di mio papà e il mio ritorno qui a Masone, perché in fondo penso che questa casa (lo studio dove opera Benati è il vecchio forno di Masone. Quello di suo papà) sia il suo ritratto».

Torndando a Mus-e. Come definirebbe il suo rapporto con l’associazione?

«E’ un rapporto che si va consolidando nel corso del tempo, perché ritengo si tratti di un’iniziativa molto importante perché parte da un bisogno che è presente negli occhi dei bambini. Sono loro gli artefici da cui possono scaturire iniziative come quella di Mus-e. E’ il loro crescere che fa crescere anche noi e ci fa mettere a fuoco la vera reale necessità di questi interventi. Un po’ come per i quadri, fidiamoci dei nostri occhi e degli occhi dei bambini, perché tornando a quel vecchio titolo del Neorealismo: i bambini ci guardano. Quindi, il rapporto con Mus-e, per come è nato e si è andato sviluppando, è la quintessenza del “i bambini ci guardano”».

Davide Benati, a destra, durante l’incontro in Sala del Tricolore a Reggio Emilia in occasione dell’Incontro Nazionale di Mus-e Italia

Può ripercorrere il suo discorso in Sala del Tricolore in occasione dell’Incontro Nazionale Mus-e di fine ottobre scorso, proprio a Reggio? Un intervento che ha suscitato commozione e apprezzamento da parte di tutti coloro che hanno avuto il privilegio di ascoltarlo…

«Non ho fatto altro che fare una piccola conversazione coi miei studenti. Perché oltre che attività di laboratorio, una volta alla settimana proponevo una conversazione tra me e delle immagini scelte nei vari periodi dell’arte. L’obiettivo era quello di costruire delle “stradine” che si tenessero legate fra di loro anche fuori dal tempo. Si trattava di immagini tutte strettamente legate fra di loro attraverso un filo logico che legava queste alle storie che hanno definito un particolare momento dell’arte. Qual era il senso ultimo di questo percorso? Il messaggio? Fate camminare i bambini dentro le cose dell’arte, perché arrivino a desiderare di percorrerle tutte, in quanto quelle cose appartengono loro e di quelle, loro, ne saranno i tutori».

Di quei tre giorni di incontro nazionale cosa le è rimasto?

«Per me è stato abbastanza facile, perché è stato come quando facevo un excursus con i miei studenti. In questo caso, gli interlocutori, erano docenti, maestri, persone che hanno una pratica e che sono abilitate quotidianamente e che, quotidianamente, affrontano le difficoltà di questo lavoro. Abbiamo parlato tra di noi. Ho fatto vedere come io, solitamente, inizio un’opera da quel famoso foglio bianco di cui si parlava prima e come arrivo alla fine della stessa. E’ un processo molto simile a quello che i maestri fanno in aula con i bambini quotidianamente. L’obiettivo era quello di far fare ai bambini questo itinerario laboratoriale e ideale all’interno di tante immagini che si tengono per mano nel corso del tempo e abituarli a sapere che quelle sono cose che appartengono loro. Quello è stato l’aspetto, diciamo, didattico che spero sia servito a loro».

E a lei?

«A me serve sempre, ovviamente, perché uno scambio costante di opinioni con le giovani generazioni non può che fare bene. Lo ritengo estremamente costruttivo».

Il tema in campo è quello dell’arte come metodo per superare le differenze sociali e culturali tra bambini in età scolare, provenienti da estrazioni sociali ed etnie diverse. L’arte come mezzo per superare, o addirittura abbattere, certe barriere. E’ così?

«Ti rispondo dicendoti che l’iniziativa di Mus-e mi ha dapprima incuriosito, poi affascinato, poi, ancor di più, reso partecipe, perché vi ho ritrovato un’idea di una mia poetica che è quella di creare ponti attraverso gli strumenti dell’arte. In Mus-e vi ho proprio trovato questa idea di arte declinata verso le giovani generazioni, dei bambini delle scuole elementari, perché vengano educati al rispetto di altre culture, al prendere, allo scambiare, a compiere gesti di reciprocità. Sono fermamente convinto che ogni cultura merita di avere la stessa attenzione, proprio perché è l’espressione innanzitutto della persona e poi della cultura che essa rappresenta».

Qual’è il rischio più grande che lei vede in questo processo educativo/creativo?

«Il rischio più grosso che vedo è quello di scivolare in una sorta di omogeneizzazione dei messaggi e dei tratti. Ritengo, al contrario, che andrebbero fatte salve le radici culturali di ognuno e salvaguardate le specificità di ogni cultura. Elementi che devono venire salvaguardati nell’ambito di uno scambio reciproco delle proprie esperienze artistiche e culturali».

Cosa direbbe ad un bambino/adolescente che si accosta per la prima volta al mondo dell’arte, alla pittura, in questi tempi così complessi?

«Io gli direi di seguirla, se ne ha il desiderio. Di cercare di farlo con gioia, e di aspettarsi grandi difficoltà, ma proprio perché le difficoltà comunque arriveranno, di cercare di affrontarle con la massima serenità».

Davide Benati ha appena terminato di esporre le sue opere a Milano. Un grande ritorno in Italia per l’artista reggiano

Ultima domanda di questa lunga conversazione: come immagina, Davide Benati, il pezzo di strada che ancora l’attende?

«Innanzitutto ti rispondo dicendoti che ho accettato con entusiasmo la sfida di un mio ritorno a Milano. Infatti, ho da poco terminato di esporre le mie opere nella città che mi ha visto trascorrere lì una buona parte della mia vita. L’aspetto stimolante è stato che ho esposto le mie opere in una galleria con cui non ho mai lavorato prima, gestita da un gallerista molto giovane, che ha un approccio ed un modo di avvicinarsi a quel tipo di figura abbastanza inedita rispetto a quelli con cui mi sono relazionato fino ad ora. Questa lunga premessa per rispondere alla tua domanda: il futuro? è quello di aprire la porta dello studio tutte le mattine alle 7.30 in punto…»

Quindi il vivere la quotidianità in tutta la sua pienezza…

«Esattamente così!».

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Nicola Bonafini
Mus-e Reggio Emilia

journalist, blogger, writer, media manager, editor. Sports, mainly… but not only. Italian is my language, English is my passion