GLOW — lustrini, wrestling e voglia di riscatto

La serie Netflix che narra di uno spettacolo di wrestling femminile che andò in onda negli anni ’80 è un ottimo pretesto per raccontarci come nascono le storie

Davide Costa
N3rdcore
7 min readJun 15, 2017

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Quando racconti qualcosa di nicchia non è mai facile decidere quanto sia necessario spiegare quella nicchia e quanto possa essere lasciato da desumere a quelli che ti ascoltano. Prendiamo come esempio GLOW: Gorgeous Ladies of Wrestling, la nuova serie di NETFLIX che racconta la creazione e il dietro le quinte di uno show di wrestling il cui cast era composto da sole donne. Ne ho visto i primi quattro episodi e credo faccia un buon lavoro nel dare allo spettatore le imbeccate giuste per capire come funziona il wrestling, senza appesantire il racconto con una sfilza di tutorial e spiegoni.

Mi ha colpito in particolare una scena per il modo in cui prende di petto uno degli aspetti centrali, e meno capiti, del wrestling: non è finto, è sceneggiato. E le cose vengono chiarite in maniera del tutto coerente con il percorso fatto dalle protagoniste, quasi tutte debuttanti del ring.

Abbiamo tutti iniziato non sapendo cosa fare

Alcune delle ragazze che hanno superato il primo casting tenuto da Sam Sylvia, regista di nicchia un po’ in salsa Troma un po’ in salsa Russ Meyer, salgono per la prima volta sul ring per essere istruite da Cherry Bang. Una di loro, Melrose, la piglia sul ridere dicendo che tutto sommato basta urlare frasi e fingere di combattere. L’istruttrice la prende in una morsa alla gola e Melrose sviene. Senza farle del male, senza lasciare danni, senza che lei possa farci nulla. E poco dopo tutte iniziano a correre, rimbalzare contro le corde e imparano a cadere sul ring che, come nota una di loro, non è imbottito e fa un male cane al sedere.

Se l’aspetto fisico della questione, una volta che viene chiarito, non lascia poi spazio a nessun dubbio su quanto sia vera la fatica e il dolore provati dalle wrestler, le cose si fanno più sfumate e interessanti dal punto di vista della rappresentazione.

Prendete la protagonista, Ruth Wilder, interpretata da una Allison Brie perfettamente calata nell’estetica del 1986 in cui ci troviamo, con tanto di momento aerobica e cotonatura. Ruth è un’attrice che non ha successo, anzi, è già tanto se ha un lavoro. Dopo l’ennesimo provino andato a male, in cui ha furbescamente cercato di recitare la battuta del protagonista maschile perché scritta meglio di quella per la protagonista femminile, decide di tentare con GLOW. Fino a quel momento vediamo come Ruth, nonostante la vita la prenda parecchio a schiaffi, sia una ragazza ottimista che cerca quando possibile di aiutare gli altri, e si considera sostanzialmente una buona. Però non è la sensazione che prova Sam quando le fa il provino, sente delle vibrazioni negative, anzi nemmeno, sente delle vibrazioni contraddittorie tanto che a un certo punto le chiede “Chi sei? Cosa sei?”. E Ruth non sa bene che rispondere, perché lei crede di essere una buona, ma forse la sua è solo una posa e sotto sotto non è così.

Tu, il pubblico e milioni di capelli cotonati

E infatti ci mettiamo poco a sapere per quale motivo la sua migliore amica arrivi nella palestra di GLOW e attacchi rissa con lei. Una rissa che subito pensano tutti sia finta, un tentativo di conquistare una parte in GLOW mettendo in scena un match. Ma gli schiaffi qua sono veri, perché tra di loro ora c’è odio. E la sua amica, ex-attrice da soap, è così convincente quando si azzuffa con Ruth, da farsi ingaggiare da Sam, che vede in lei una wrestler naturale. Probabilmente un’eroina.

E questo è un altro aspetto fondamentale del wrestling, ovvero il rapporto molto stretto e sottile tra realtà e finzione in cui si muovono quelli che il wrestling lo fanno. Quanto c’è di vero nel carattere di un wrestler una volta che sale sul ring? Quelli che indossano il costume da cattivo sopra le scarpe da lottatore sono cattivi anche nella vita vera? E i buoni?

Sam Sylvia, il regista ingaggiato per creare GLOW, interpretato da Marc Maron.

C’è un’altra scena che mi piace molto, una scena tutto sommato piccola. Una delle lottatrici parla con Sam dell’idea e delle motivazioni del suo personaggio, Welfare Queen: una donna che usa tutte le agevolazioni statali possibili per non lavorare, e pavoneggiarsi di questo con chi invece lavora. Il fatto è che Tammé (interpretata da Kia Stevens, che è stata per anni sul ring la wrestler Awesome Kong) è una donna di colore, e teme che un personaggio del genere possa risultare razzista e un cattivo esempio per chi guarderà lo show.

Sam la rassicura dicendole che si tratta di un’esagerazione grottesca, una satira contro le politiche del periodo per andare in culo ai potenti. Kia non pare del tutto convinta, ma il lavoro è lavoro e ci pensa su. Così come sono poco convinte Arthie, ragazza pakistana a cui suggeriscono di fare l’araba armata di mitra, e Jenny, una cambogiana a cui dicono di fare la giapponese perché “Vi assomigliate tutte!”. Quando le ragazza fanno notare che si tratta di stereotipi razzisti, il produttore di GLOW ribatte che sono solo innocui cliché. Sarà il pubblico a decidere.

Perché il wrestling è come tutte le altre forme di intrattenimento: al tempo stesso figlio dei cliché del proprio tempo e padre di nuovi, e si spera migliori, cliché.

Insomma, dai primi quattro episodi pare che ci siano tutte le premesse perché le protagoniste compiano un viaggio interessante alla scoperta di sé stesse in relazione al mondo dello spettacolo e al mondo che le circonda. Sarà interessante vedere dove si spingeranno le autrici a giocare con i rapporti tra i personaggi, nel momento in cui dovranno intesser le trame tra i personaggi nel ring e quelli fuori dal ring. Il potenziale per giocare con maschere e interpretazioni è davvero grande.

Il cast originale di Gorgeous Women of Wrestling. La bionda in mezzo vestita di rosso è la mamma di Stallone.

GLOW: Genesi di un racconto

Commento di Lorenzo Fantoni

Ero sinceramente interessato a GLOW per vari motivi: Orange is the new black è probabilmente una delle serie TV meglio scritte degli ultimi anni, soprattutto per quanto riguarda dei ruoli femminili che siano realistici, nonostante sia cresciuto subisco ancora il fascino del wrestling e l’estetica laser anni ’80 vince sempre.

Questo è ciò che mi aspettavo dalla serie: bei personaggi, wrestling e cenni di nostalgia sia estetica che musicale e questo in effetti ho trovato. Glow è una storia ricca di dialoghi ben scritti, buona recitazione, umorismo e satira sociale.

Per certi versi Glow riprende alcune idee di Orange is the New Black: una donna che sembra la protagonista iniziale, un cast femminile che scopriamo con flashback e una controparte maschile che dovrebbe gestire in tutto ma non sa gestire neppure sé stessa.

Ciò che invece non mi aspettavo, almeno per quanto riguarda i primi quattro episodi, è una storia che mette di fronte tutte le difficoltà, i compromessi e la fatica di creare qualcosa.

Il gruppo di donne che diventeranno le lottatrici sono personaggi in cerca di un autore: hanno le loro idee su come le cose andrebbero fatte e una propria personalità, ma alla fine devono comunque piegarsi al racconto, alla storia che verrà narrata sul ring. Questo senza contare uno spettacolo e una società che li vede come pezzi di carne da guardare.

L’autore, un personaggio che vuol’essere un’omaggio al cinema pulp horror e fantascientifico di quegli anni, che mescolava pochi spiccioli, grandi idee e voglia di scioccare il pubblico, a sua volta ha delle idee, grandiose, elaborate, eccessive.

Il produttore invece vuole che la storia sia semplice, che giochi sugli stereotipi, vuole personaggi che raccontino una storia senza doversi leggere un background, è il filtro tra le smanie autoriali e la pancia del pubblico. Quello che “sì, tutto molto bello, ma questa cosa deve funzionare e fare soldi”.

Queste tre figure svilupperanno rapidamente una dipendenza reciproca fatta di compromessi, litigate, colpi bassi, sbronze e incoraggiamenti. Non importa se ciò che fanno è visto come spazzatura, l’impegno richiesto e lo stesso, forse ancora di più, perché devi anche vincere un pregiudizio. Un concetto che possiamo applicare a centinaia di film, libri, fumetti e alle stesse serie TV, quel concentrato di follia, fortuna e voglia di riscatto che ti porta a lanciarti in un progetto, anche se prevede di vestirti in spandex e farti lanciare per aria da una tizia che pesa il doppio di te.

Non so cosa diventerà la storia dalla quinta puntata in poi, ma se per qualche motivo vi piace capire come nascono le storie, siete nel posto giusto.

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Davide Costa
N3rdcore

Scrivo fumetti e altre cose fiche per Disney e Sergio Bonelli Editore. Trapiantato epatico dal 2008. https://twitter.com/Baphomouse