Dopo la tempesta

Sei ancora nella mia memoria interna.

Gianluca Guzzone
4 min readMar 26, 2014

Ve l’ho già detto? C’era una volta un’accozzaglia di cose da fare. Mettiti il giacchetto, però, se devi uscire. Questo quasi sempre lo diceva mamma. Non che non potessimo badare da noi alla nostra salute: era che non ce ne fregava nulla. Tuttavia tornavamo indietro, lo si indossava il giacchetto di lana rammendato dalle ferite, poi fuggivamo dietro la porta nel vasto mondo dei parchi con la felicità in groppa ed eravamo schiavi della nostra naturale e contagiosa voglia di vivere. C’era un’accozzaglia di cose da fare: strusciavamo come sirene sull’acqua lungo la vita e cos’erano le sconfitte e le tragedie, se non un banale contrario? C’erano le stelle brillanti che si arrampicavano nel cielo sempre più in alto a scovare divinità e pianeti e galassie sconosciute. Anche se poi ci trovavamo sempre sul pianerottolo di casa mia, dove ci si sedeva a chiacchierare anche se la mamma non aveva ancora spazzato dal giorno prima e la notte c’era stata la tempesta. Ricordo che mi avevi chiamato, nella burrasca, col walkie-talkie, avevi paura. Ti dissi che ne avevo anche io: erano queste le nostre paure. La paura dei fulmini, di quel qualcosa sotto al letto. Le nostre uniche beate paure! Alla sinistra del gradino davanti alla porta spuntava quel ramo verdissimo d’edera che ti piaceva tanto colpire. E senza motivo, tanto per vederlo danzare. E poi la nostra canzone preferita spuntava fuori da una finestra al terzo piano del palazzo di fronte come un sogno realizzato che ci veniva incontro senza averlo richiesto, e ti mettevi a ballare inerpicandoti lungo la discesa girando e girando in mille rivoluzioni mentre continuavo a guardarti, ancora seduto, con il sedere umido perché i gradini erano ancora pregni della rugiada mattutina. Eri la mia terra in rivoluzione ed io, col sole giovane degli occhi miei, volevo solamente stare lì fermo ad illuminarti. Le mura intorno a noi disegnavano vie senza sembrare prigioni, l’odore di primavera si spargeva nell’aria ed alla fine della via trovasti i resti della grande paura. Da lontano mi strillasti che un fulmine aveva colpito un albero! Era una notizia fantastica! Di colpo per raggiungerti nel minor tempo possibile presi a correre senza fermarmi un secondo a prendere fiato, rapido come un caccia-torpediniere schivai il gradino del marciapiede con un salto e solo la forza dell’albero riuscì a fermarmi. Non che andai a sbattere la testa o l’elica o cose del genere: misi le mani avanti al tronco e mi bloccarono quelle. Tu ridevi perché quel mio pagliacciare ti divertiva e ti faceva sentire sicura di te. Sentivi il sangue candido pulsare lungo tutto il corpo scaldandoti il cuore. Te lo avevo già detto a quel tempo? Forse non ancora. Però già ti guardavo con occhi diversi. Ci arrampicammo fino al punto in cui il legno era ancora in piedi e poi proseguimmo avanti, due idoli di rara bellezza, giganti insieme. Non ricordo nemmeno di cosa si parlava mentre attraversavamo nazioni lasciandoci dietro i confini degli avi, sgattaiolando via dalla vita degli umani, là, sulla riva del fiume, dove avevo costruito quella tenda schifa con i rami delle querce secolari. La natura ci abbracciava nel suo caloroso manto, l’ombra ci nascondeva alla vista del sole e la fitta boscaglia tutta intorno si chiudeva come in un sogno per proteggerci dalla gente e dai demoni. Sembravamo due prede salvate dalle trappole mortali dei cacciatori quando lanciavamo nel fiume i sassi durante i tramonti. Qualche tempo fa sono ripassato da quelle parti a controllare che tutto fosse rimasto ancora intatto. C’era lo stesso odore di foglie secche ed il costante frusciare rapido dell’acqua lungo le rocce laddove il fiume curvava, iniziando la rotta per discendere il monte; ma la tenda era scomparsa, spazzata via, scomparsa. Strati su strati di anni come pioggie di autunni avevano cancellato il passato e le foglie, come una coperta, nascondevano i relitti tesori. Mi sentii male perchè credevo che il tempo, insieme a quella tenda merdosa, avrebbe piano piano cancellato anche i nostri ricordi. Così, preso dallo sconforto, mi inchiodai a terra sotto uno di quei tronchi odiando tutto quello che ora quel luogo rappresentava, perchè il fiume non la smetteva di stare zitto e procedere nel suo corso, il fiume c’era ancora. Quel posto non sarebbe morto e in linea di massima difficilmente sarebbe cambiato per colpa di eventi naturali. Così chiusi gli occhi e mi resi conto che non ricordavo nemmeno vagamente l’immagine precisa di quel paradiso che frequentavamo io e te: i contorni erano confusi e l’oscurità sembrava prendere piede nella mia mente. Eppure, nel respirare al buio, sentivo quei momenti scorrermi tra la carne e contagiare tutto lo spazio intorno e all’interno di me, e sembrava che il moto del tuo sorriso stesse dettando lo scorrere del fiume, del vento, della terra intorno al sole, delle perturbazioni cosmiche che avvengono tra galassie distanti anni luce. E così il nero intorno a me riprese all’improvviso a colorarsi. Speravo di riaprire gli occhi e di ritrovarti di nuovo là, a pochi metri da me, che spunti fuori dalla tenda con la testa e cominci a volare di fantasia. Ma non c’era più niente da fare, la nave oscura era già salpata e tutto ciò che restava di noi erano i rami derelitti della tenda che sepolti sotto le foglie lentamente si consumavano. Mi alzai proprio come mi ero buttato a terra, di colpo e senza uno scopo preciso in mente. Mi guardai un po’ intorno, poi spinsi lo sguardo verso l’alto come facevamo insieme, quando i nostri occhi brillavano di speranza e di vita piena e appagante: il picco del monte ad est stava uccidendo la luce del sole e presto, molto presto, sarebbe calata la notte.

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Gianluca Guzzone

Tieni la testa sulle spalle e portati appresso una torcia elettrica.