L’appello alla vita delle madri di Srebrenica

Gabriele Andreani
Next Stop Sarajevo
Published in
4 min readNov 7, 2016

L’incontro degli studenti di “Un treno per Europa” con Fazila, una delle testimoni della pulizia etnica

La “Rosa” delle Madri di Srebrenica

In mezzo a una distesa di pietre tombali c’è anche chi è capace di scorgere un fiore che sboccia.

A Srebrenica, piccola città della Bosnia orientale, di pietre tombali ce ne sono più di 6000, che rappresentano le vittime identificate del genocidio compiuto dall’esercito dei nazionalisti serbi contro gli uomini della comunità musulmana locale nel luglio del 1995. Diciamo “identificate” poiché ancora più di 1800 corpi giacciono, talvolta anche mutilati, in fosse comuni spesso distanti dal luogo dell’esecuzione e il processo di riconoscimento è ancora in atto. Totale 8372.

Di fronte al cimitero monumentale sorge il bisogno di associare a questo numero 8372 un’immagine più familiare. Nemmeno paragonare le vittime al numero di abitanti di un piccolo comune italiano aiuta a capire la dimensione della tragedia. Trasportando la stessa cifra su un altro piano ci si accorge che per compiere 8000 passi è necessario correre per un’ora intera. Un’immagine più efficace.

Il memoriale di Srebrenica

Anche dopo aver dato un senso più concreto a un numero così elevato di vittime, si corre comunque il rischio di dimenticare l’unicità di ciascuna di loro e di considerarle un insieme indistinto, senza volti. I cimiteri da lontano appaiono come una lunga serie di lapidi tutte uguali. Invece dietro a ciascuna di esse c’è una persona, con la sua storia, i suoi sogni e i suoi affetti.

A Srebrenica la tragedia investe anche e soprattutto quelle donne che, a causa della strage, hanno perso mariti e figli e che oggi ne custodiscono la memoria cercando di trasmettere ciò che questa dolorosa esperienza ha insegnato loro.

Fazila è una delle donne di Srebrenica incontrata per il progetto “Un treno per Europa”

Fazila è una di queste donne. Un velo bianco le copre i capelli, ma lascia intravedere l’espressione serena di chi ha superato il dramma e ha conservato la speranza nel futuro. Racconta la sua storia all’interno di una ex fabbrica, utilizzata durante la guerra come base militare dell’ONU per sostenere la popolazione civile locale: un edificio spoglio in lamine di ferro che non offre difese contro le temperature estreme, come il caldo di quel luglio 1995. Qui, quando i serbi avevano occupato la città, avevano trovato rifugio migliaia di donne e bambine, separate dai loro uomini che erano fuggiti nei boschi circostanti o erano stati deportati. Erano talmente stipate che, come dicono in Bosnia, “se qualcuno avesse lanciato un fiammifero, questo non avrebbe toccato terra perché sarebbe certamente caduto sulla testa di una persona”. Il caldo e l’affollamento, tuttavia, non impedivano a queste donne di tremare per la paura.

La cattura e l’uccisione del figlio sono il momento più tragico della vita di Fazila: “Piangevo, volevo morire. Ma non potevo”. È stato lo sguardo smarrito della figlia quindicenne che l’ha convinta a non arrendersi alla disperazione e a lasciare che la vita riprendesse il suo corso. Nonostante la tragedia l’avesse privata di tutti i suoi mezzi economici, ha fatto tutto il possibile per risollevarsi da sola, rifiutando ogni forma di carità e la condizione di profuga, sostenuta dal suo irriducibile ottimismo e da una ritrovata religiosità.

Fazila è in tutto e per tutto una cittadina europea: la sua laboriosità, il suo desiderio di indipendenza e la sua considerazione della cultura come l’unica ricchezza che non ci può essere sottratta sembrano in contrasto con l’immagine che l’occidente ha delle donne di cultura islamica. Le sue parole sulla recente elezione di un serbo come sindaco di Srebrenica — “Non conta la sua nazionalità né la sua religione, conta solo che lavori per la gente e non per se stesso” — testimoniano da parte sua il superamento del rancore, e questo è necessario per ricostruire una comunità unita. Un sentimento di uguaglianza che è uno dei valori su cui si fonda l’Europa.

Quale può essere il futuro di Srebrenica? “Non ha senso che rimanga solo un monumento; dovrebbe tornare ad essere come prima della guerra, con tanti giovani e tanta vita”, la speranza di Fazila. Il suo appello alla tolleranza e alla speranza deve essere per tutti i giovani un insegnamento, ancora di più in un mondo in cui si accentuano le divisioni e si tende ad arrendersi di fronte alle difficoltà. Un segno di vita in mezzo alla distruzione, un fiore che sboccia in mezzo a tante lapidi.

Emma Baldassari, Giulia Buratti, Gabriele Andreani (Liceo Calini di Brescia)

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