Rinascere da un massacro

Sara Giacomelli
Next Stop Sarajevo
Published in
4 min readNov 7, 2016

Al Memoriale di Srebrenica, un museo racconta il tragico evento del luglio 1995.

Azir Osmanovic custodisce il Memoriale di Srebrenica. Ti accoglie quando cammini fra i grandi capannoni vuoti, che quell’11 luglio del 1995 videro cadere migliaia di uomini sotto i colpi dell’esercito serbo. Azir è uno storico e un custode di spazi e memoria. E a Srebrenica la memoria è potente. Il suo racconto disegna il quadro di una storia dolorosa.

Srebrenica è stata attaccata dai serbi e difesa dai bosniaci in molte occasioni, ma il 18 aprile 1992 viene definitivamente soggiogata dall’esercito nemico, che la saccheggia indiscriminatamente per 22 giorni. La riconquista avviene grazie ai musulmani bosniaci che la renderanno l’unico luogo libero del Paese. Questa caratteristica rende Srebrenica una meta prediletta dai profughi, che arrivano ad essere 60.000. Un piccolo territorio, dunque, con un’area di 526.83 km2, in cui migliaia di persone vivono in condizioni disumane. La situazione degenera velocemente, senza cibo, acqua potabile né farmaci e medici sufficienti alla quantità di persone malate o colpite da proiettili e granate. L’unico aiuto sul campo sono 5 dottori tra medici e chirurghi. Ma la gente non lascia la città per paura di trovare situazioni peggiori in altre zone della Bosnia. Srebrenica è una polveriera.

Il primo intervento è un appello alle Nazioni Unite, che frutterà l’intervento sul campo di Philippe Morillon, comandante dei Caschi Blu dell’ONU. Gli basta uno sguardo per comprendere la gravità della situazione e promette che la Bosnia sarà una nazione protetta. Nell’aprile del 1993 cominciano a vedersi gli interventi delle Nazioni Unite: divieto di ogni tipo di attacco alla città di Srebrenica e l’invio delle forze prima Canadesi e poi Olandesi.

L’ONU fa molte promesse, ma solo una viene mantenuta: 15.000 profughi, tra donne e bambini, vengono trasferiti in un territorio libero. Un problema rilevante sarà il convoglio di aiuti umanitari, poiché per raggiungere Srebrenica bisogna passare i controlli dei Serbi, che sequestrano molti prodotti. La prova più lampante che le Nazioni Unite non stanno rispettando gli accordi. I Serbi decidono così di invadere definitivamente la città.

Azir prosegue il suo racconto, di fronte agli schermi della sala multimediale del Memoriale.

L’8 Marzo del 1995 il presidente serbo ordina di conquistare la parte sud di Srebrenica e il 3 luglio, dopo l’attacco, l’ONU si ritira e non tornerà più nella città. L’11 la città è definitivamente conquistata.

Azir si concentra particolarmente nel cercare di spiegare la tragicità della divisione, avvenuta tra uomini e donne nel tumulto generale. Le madri con i bambini vengono dirottate verso la base dell’ONU, a sud della città. Si ammassano in più di 20.000 ma solo 3.000 vengono fatti entrare. Altri 2.000 però rompono le reti, e possono considerarsi “salvi”. Purtroppo per poco tempo. Anche tra quelle poche migliaia verrà fatta una selezione: i soldati dell’ONU scelgono i giovani oltre i 13 anni che devono andare a combattere. Gli uomini rimasti in città vengono allontanati per essere interrogati, ma non torneranno più dalle loro famiglie, poiché verranno portati in fabbriche abbandonate, campi o luoghi sperduti. Vengono bendati, fatti voltare, fucilati alle spalle e fatti a pezzi, per potere disperdere i loro corpi in diversi luoghi, così da non farli trovare alle famiglie, nemmeno per una degna sepoltura.

Furono uccise più di 8.000 persone e ancora oggi emergono i corpi dalla terra, nei luoghi più inaspettati. Dispersi, ammassati in fosse comuni e poi trasportati in luoghi diversi, per occultare la barbarie compiuta. Solo l’analisi del DNA può oggi restituire loro una identità.

Ora i corpi ritrovati giacciono nel cimitero dedicato alle vittime della guerra, visitato da migliaia di turisti e forse anche dai sopravvissuti che, fingendo di essere morti, riuscirono a scampare l’eccidio.

Dopo le parole di Azir, un documentario scuote gli animi dei 350 ragazzi italiani e bosniaci che sono in visita al Memoriale. Alcuni sono bambini. Capiranno davvero la drammaticità di quelle immagini?

Azir non ha dubbi: lo capiscono, perché hanno l’età che avevano i bambini al momento della tragica “selezione”. E lui era uno di quelli, fortunatamente troppo giovane per dover sopportare il fardello della guerra.

testo: Sara Giacomelli, foto: Alessandra Borboni

(Liceo delle Scienze Umane Fabrizio De Andrè)

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